PAISIELLO, Giovanni
PAISIELLO, Giovanni. – Nacque a Taranto il 9 maggio 1740 da Francesco, maniscalco, e Grazia Antonia Fuggiale.
La data di nascita si ricava dall’atto di battesimo, dove compare con i nomi di Giovanni Gregorio Cataldo, conservato nell’Archivio della curia arcivescovile di Taranto (trascritto in A. Della Corte, Paisiello, Torino 1922, p.3). Una tradizione biografica inaugurata dalla monografia di Alberto Ghislanzoni (Giovanni Paisiello, Roma 1969) indica Roccaforzata come luogo natale del compositore, sulla base di una notizia aneddotica: ma la voce «Roccaforzata» del Dizionario corografico dell’Italia (Milano s.d. [ma 1866], pp. 1055 s.) non menziona Paisiello tra le glorie cittadine elencate dal sindaco del paese al compilatore, Amato Amati, a meno d’un cinquantennio dalla morte del musicista. Di contro, le carte tratte dal catasto onciario di Taranto del 1746, conservate in copia nell’Archivio di stato di Taranto (Carte Boso Pietro, cassetta n. 3, cartella n. 4, ‘artigiani’), confermano che il nucleo familiare di Francesco Paisiello, ivi compreso il piccolo Giovanni (i fratelli maggiori Porzia e Raffaele erano morti), risiedeva da anni nella casa del cognato sacerdote, Francesco Fuggiale, situata alle spalle del duomo.
Dal 1745 al 1753 Paisiello studiò nel collegio gesuitico di Taranto con la prospettiva di intraprendere la carriera giuridica. Palesato tuttavia un talento canoro e assimilati i primi rudimenti di canto e di armonia dal tenore Carlo Resta, sacerdote amico dello zio materno, su invito e patrocinio di Girolamo Carducci Agustini marchese di Fragagnano e dell’avvocato Domenico Gagliardo nel 1754 fu accompagnato dal padre a Napoli per compiere gli studi musicali nel conservatorio di S. Onofrio, dove entrò da convittore l’8 giugno. Alla morte di Francesco Durante (30 settembre 1755) la direzione dell’istituto passò a Carlo Cotumacci e Girolamo Abos; ma al perfezionamento di Paisiello nell’arte del contrappunto accudì soprattutto Joseph Doll, unico docente straniero nei conservatori napoletani. Divenuto mastricello nel 1759 e compiuti nel genere sacro i primi saggi compositivi, il 5 luglio 1763 Paisiello terminò anzitempo il proprio tirocinio. Non è certo se Paisiello abbia effettivamente composto la consueta operina che la prassi didattica richiedeva agli allievi più meritori quale prova di congedo: nell’abbozzo autobiografico del 1811 egli la menziona, esaltandone il successo riscosso a Napoli e provincia, ma non ne ricorda titolo. Fatto sta che il debutto nella carriera operistica avvenne nei teatri emiliani.
Giunto a Bologna nell’estate 1763, Paisiello esordì al teatro Rangoni di Modena con l’opera buffa La moglie in calzoni (18 febbraio 1764), un adattamento dell’omonima commedia di Jacopo Angelo Nelli (1727) realizzato da Giuseppe Carafa di Colubrano (costui viene tradizionalmente indicato come il tramite tra il giovane operista e i teatri di Modena e Bologna).
Incerta la datazione delle Virtuose ridicole inscenate al Ducale di Parma il 18 gennaio 1764 o più probabilmente il 27 aprile 1766. Nel 1764 Paisiello diede due drammi giocosi a Bologna, Il ciarlone (12 maggio, revisione della Pupilla di Antonio Palomba) e I francesi brillanti (24 giugno, libretto di Pasquale Mililotti): quest’ultimo, ripreso il 7 luglio a Modena, fu apprezzato dalla corte, donde una commissione per il successivo carnevale. A fine 1764 Paisiello fu scritturato dall’impresario del teatro veneziano di S. Moisè per L’amore in ballo – andò in scena a metà gennaio 1765, in concomitanza con Madama l’umorista (Modena, 26 gennaio), revisione d’un dramma giocoso di Pietro Alessandro Guglielmi cui Paisiello e un altro anonimo operista aggiunsero dei pezzi nuovi (alcuni presi dall’Amore in ballo) – e per Le nozze disturbate (carnevale 1766): fu questa la prima collaborazione con Caterina Bonafini, poi interprete privilegiata durante il periodo russo.
Dopo una sosta a Roma nel febbraio 1766 – al Valle andò in scena l’intermezzo Le finte contesse (una riduzione del fortunato Marchese villano, dramma giocoso di Pietro Chiari) – Paisiello, rientrato a Napoli, ebbe nuove commissioni: in primavera La vedova di bel genio per il teatro Nuovo, nel carnevale 1767 Le ’mbroglie de le bajasse per il teatro dei Fiorentini; le due commedie per musica del Mililotti siglarono l’incontro tra Paisiello e il genio vocale e istrionico di Gennaro Luzio e di Antonio e Giuseppe Casaccia. Nella primavera 1767 L’idolo cinese, primizia di una lunga e fruttuosa collaborazione con Giambattista Lorenzi, fece colpo sul pubblico partenopeo, per l’inedita mescolanza dei registri stilistici e la suggestiva ambientazione esotica; la corte stessa ne richiese un’immediata ripresa nel proprio teatro, indi in quello di Caserta nel 1768 e di nuovo a Palazzo Reale il 6 aprile 1769 alla presenza di Giuseppe II. Nel giugno 1767 Paisiello debuttò al S. Carlo col dramma per musica Lucio Papirio dittatore, di Apostolo Zeno: il favore dei Borbone fu confermato nel 1768 da una seconda commissione (Olimpia, dramma di Andrea Trabucco, 20 gennaio, preceduto dalla cantata L’Ebone, su versi di Saverio Mattei) e dall’incarico di scrivere per il teatro di corte una «festa teatrale» epitalamica su Teti e Peleo (di Gio. Battista Basso Bassi, 4 giugno) per le nozze di Ferdinando IV con Maria Carolina d’Asburgo. L’ottimo rapporto con i committenti di corte s’incrinò quando a fine agosto Paisiello indirizzò una supplica al sovrano onde evitare il matrimonio con Cecilia Pallini, che si sarebbe finta vedova e risultò sprovvista della dote promessa. La contesa si risolse a favore della donna: un rapporto dell’uditore Nicola Pirelli inviato al ministro Bernardo Tanucci comunicò che le nozze furono celebrate il 14 settembre nel carcere di S. Giacomo degli Spagnoli, dove Paisiello venne recluso per alcuni giorni appunto per via del mancato impegno matrimoniale. Le vicissitudini prenuziali non incisero però sui ritmi produttivi del musicista, che si mantennero alti fino a fine 1770 (ben otto commedie per musica, testi di Lorenzi, Mililotti e Francesco Cerlone). Risale a quest’anno l’amicizia del musicista con l’abate Ferdinando Galiani, consigliere del Tribunale di commercio, intellettuale brillante e poliedrico, già ambasciatore a Parigi e dotato d’una fitta serie di contatti internazionali.
Tra il 1771 e il 1774 la routine delle commedie in musica (mediamente due all’anno) date al teatro Nuovo di Napoli su libretti di Cerlone, Mililotti e Lorenzi venne frammezzata da importanti commissioni nei teatri del nord, stavolta nel genere operistico più fastoso, il dramma per musica. Per la corte modenese compose i metastasiani Demetrio, Artaserse e Alessandro nell’Indie (stagioni di carnevale 1771, 1772 e 1774); per il Regio di Torino, Annibale in Torino, dramma di Jacopo Durandi (carnevale 1771; Mozart padre e figlio erano tra il pubblico); per il teatro delle Dame di Roma, Motezuma di Vittorio Amedeo Cigna-Santi (carnevale 1772); per il Ducale di Milano, Sismano nel Mogol di Giovanni De Gamerra (carnevale 1773, anch’esso ascoltato dai Mozart) e Andromeda di Cigna-Santi (carnevale 1774; in questa occasione Paisiello confezionò i nove quartetti per archi dedicati a Ferdinando di Lorena arciduca d’Austria). Sul versante comico diede al S. Moisè di Venezia L’innocente fortunata di Filippo Livigni (carnevale 1773), prontamente replicata a Napoli e poi su altre quaranta ‘piazze’. Nell’ottobre 1773 Paisiello chiese, senza esito, di poter supplire gratis Giuseppe Marchitti, secondo maestro della Real Cappella; ma pochi mesi dopo la corte riattivò i rapporti con l’operista commissionandogli Il divertimento de’ Numi, «scherzo rappresentativo per musica» di Lorenzi, da recitare in coda all’Orfeo ed Euridice di Gluck nel teatro di Palazzo il 29 gennaio 1774. In quest’anno videro la luce due dei melodrammi paisielliani più acclamati, i primi peraltro esportati a Parigi (rispettivamente nel 1776 alla Comédie-Italienne, in francese, e nel 1778 all’Académie Royale de Musique, in italiano): si trattò della commedia Il duello di Lorenzi (Napoli, teatro Nuovo, primavera) e del dramma giocoso La frascatana di Livigni (Venezia, teatro di S. Samuele, autunno), poi ripresa 186 volte in Italia e in tutt’Europa, caso senza eguali nel genere buffo settecentesco. Il 1775 si aprì con due commissioni veneziane nel carnevale (il metastasiano Demofoonte al S. Benedetto e il dramma giocoso La discordia fortunata al S. Samuele) e finì col debutto alla Pergola di Firenze (Il gran Cid, dramma di Gioacchino Pizzi, 3 novembre); ma fu soprattutto l’anno del Socrate immaginario, un esilarante capolavoro nato dalla collaborazione con Galiani e Lorenzi, che vi misero in burla l’affettata infatuazione erudita per la cultura greca osservata in tanti parvenus dell’intellettualità partenopea.
Non sono stati chiariti i motivi per i quali, dopo cinque acclamatissime repliche nel teatro Nuovo, Ferdinando IV, fattosi recitare il Socrate a Palazzo Reale (23 ottobre), ne vietò poi le rappresentazioni. Si è ritenuto che la censura regia abbia inteso così tutelare dall’«indiscreta» satira il dotto Saverio Mattei, indefesso cultore dei classici, e come Socrate afflitto da un non sereno coniugio; oppure si trattò di una cabala ordita dall’impresario dei Fiorentini ai danni di quello del Nuovo. Socrate fu comunque percepito dagli spettatori coevi come il modello innovativo d’una drammaturgia comica che nell’ibridare i registri linguistici convenzionalmente spettanti ai diversi ranghi (i nobili, i mezzi caratteri, i buffi) potenziò di riflesso le responsabilità espressive attribuite alla composizione musicale. La riuscita integrazione del coro – in una flagrante caricatura della scena infernale dell’Orfeo di Gluck, dato l’autunno prima al S. Carlo in forma di ‘pasticcio’ – e l’espansione dei pezzi concertati si aggiungono allo spirito parodistico che pervade l’intera la commedia, manifesto tanto nei dettagli – l’aria di Donna Rosa «Se mai vedi quegli occhi sul volto | diventarti due grossi palloni …» è la beffarda parafrasi d’un’aria famosa nella Clemenza di Tito del Metastasio («Se mai senti spirarti sul volto | lieve fiato che lento s’aggiri …»); mentre l’episodio della finta morte del novello Socrate (nel finale II) poneva in ridicolo i tableaux lagrimevoli delle opere serie modellate secondo il gusto gluckiano – quanto nell’assunto paradossale, che si rifà al Don Chisciotte di Cervantes: soggetto peraltro già verseggiato da Lorenzi e intonato da Paisiello nel Don Chisciotte della Mancia dato ai Fiorentini nell’estate 1769.
Nel 1776, conclusi gli impegni di carnevale con i teatri di Roma (Le due contesse di Giuseppe Petrosellini al Valle, riallestita in un quindicennio 63 volte, e La disfatta di Dario del duca Carlo Diodato Morbilli all’Argentina) e di primavera col teatro Nuovo di Napoli (Dal finto il vero di Saverio Zini), Paisiello aprì un contenzioso con l’impresario del S. Carlo, Gaetano Santoro, nell’intento di rescindere il contratto per un’opera nuova, e ciò al fine di poter accettare l’incarico triennale di direttore musicale degli spettacoli alla corte pietroburghese di Caterina II. La scelta della zarina era caduta su Paisiello non solo a motivo della segnalazione del barone Friedrich Melchior von Grimm, a sua volta influenzato dall’amante Louise d’Épinay, corrispondente e amica di Galiani, ma anche per l’interessamento palesato a pro dell’operista pugliese dall’imperatore Giuseppe II, la cui politica teatrale esercitò un chiaro influsso su quella pietroburghese. Invalidato il contratto col S. Carlo in quanto privo della controfirma del sovrano, il ministro Tanucci consegnò il passaporto a Paisiello, che partì alla volta delle Russie il 29 luglio con la moglie. Durante la breve sosta viennese nel tardo agosto 1776, oltre a incontrare di persona il Metastasio, l’ormai maturo operista, ricoperto d’applausi al termine d’una recita della Frascatana al Nationaltheater, prese piena coscienza del successo internazionale arriso alle sue opere.
Giunto a Pietroburgo a fine settembre, il novello compositore di corte si dedicò per un anno intero a una tipologia di opera seria arricchita di inserti corali e coreutici consoni al contesto imperiale. Dalla collaborazione col librettista di corte Marco Coltellini nacquero la revisione della metastasiana Nitteti (28 gennaio 1777; date secondo il calendario gregoriano) e l’azione teatrale Lucinda e Armidoro (autunno 1777). A corte Paisiello fu anche maestro personale della granduchessa Maria Fëdorovna, consorte dell’erede al trono e destinataria del concerto per clavicembalo in Fa maggiore e di un’antologia pianistica di rondò e capricci. Il principe Grigorij Aleksandrovič Potëmkin gli commissionò varie composizioni, tra cui la serenata La sorpresa degli dei (libretto di Giovanni Battista Locatelli) per festeggiare la nascita del granduca Alessandro (23 dicembre 1777). Fu probabilmente sempre Coltellini, poco prima dell’ictus che lo uccise il 27 novembre 1777, a rimodellare il metastasiano Achille in Sciro (6 febbraio 1778) in direzione di un ipertrofismo spettacolare che puntava sul fascino dei balli ‘analoghi’ (ossia correlati al dramma) ideati da Gasparo Angiolini.
Il 24 luglio 1778, col pasticcio di Giambattista Casti Lo sposo burlato, Paisiello fece conoscere le pagine più gustose del Socrate immaginario, osservando però la contrazione cronometrica imposta da Caterina II alla durata degli spettacoli. Nel 1779, anno del rinnovo triennale del servizio presso la zarina, notevolmente incrementato sul piano retributivo, il ritmo compositivo di Paisiello restò allentato: rispetto all’impegno della prima sua opera buffa composta ex novo in Russia – I filosofi immaginari di Bertati, dati il 14 febbraio e accolti con successo straripante – i lavori destinati ai teatri delle residenze imperiali occuparono l’operista in misura assai minore: il Demetrio (reggia estiva di Carskoe Selo, 12 giugno) depone lo sfarzo spettacolare dei precedenti allestimenti metastasiani, e Il matrimonio inaspettato (per l’apertura del teatro privato del granduca Paolo nel palazzo Kamennoostrovskij, 1° novembre) fu una modesta, ma assai fortunata, operina di quattro personaggi che attingeva di nuovo segmenti dal testo dell’abate Chiari già messo a frutto nelle Finte contesse del 1766. Il 5 giugno 1780 Giuseppe II, ospite di Caterina II in incognito (come ‘conte di Falkenstein’), a Mogilëv (l’odierna Mahilëŭ, nella Russia Bianca) ascoltò con interesse La finta amante (operina di tre personaggi ricavata dal libretto, anonimo, dell’intermezzo Don Falcone del 1748, già reso celebre da un’intonazione di Jommelli nel 1754) e una replica dei Filosofi immaginari, chiedendo all’ambasciatore austriaco Johann Ludwig Cobenzl di averne le partiture per riproporle a Vienna in forma di Singspiel. Dopo un ultimo prodotto in ambito serio – l’azione teatrale metastasiana Alcide al Bivio data all’Hermitage il 6 dicembre 1780 – Paisiello effettuò un primo invio di copie delle sue opere ‘russe’ destinate alla corte di Napoli (poi accuratamente raccolte a Napoli da Giuseppe Capecelatro arcivescovo di Taranto su invito di Galiani). A partire dal gennaio 1781 infatti Paisiello scrisse più volte a Galiani per saggiare le possibilità d’un impiego stabile alla corte dei Borbone e per pregarlo di indurre la granduchessa Maria Fëdorovna a perorare, nei giorni del suo soggiorno napoletano (febbraio 1782), la sua causa presso i sovrani (ai quali fece pervenire una copia dell’Alcide al bivio e il gruppo di 27 duetti sulle canzonette metastasiane La libertà e Palinodia a Nice).
A differenza delle opere di Piccinni, che dopo la partenza per Parigi (1776) si diradarono fino a quasi scomparire dai teatri italiani, quelle di Paisiello negli anni del soggiorno pietroburghese conobbero una circolazione assai fitta. Mentre L’innocente fortunata, La frascatana, La discordia fortunata e Le due contesse mietevano il consenso dei pubblici italiani e delle corti europee, Paisiello riproponeva alla zarina i drammi giocosi più riusciti: a Pietroburgo nel 1778 Le due contesse e nel 1780 L’idolo cinese e La frascatana; a Carskoe Selo ancora L’idolo cinese nel 1779 e Il duello, ridotto a un solo atto, nel 1782. Nel contempo a Napoli la fama di Paisiello si consolidò con la ripresa al S. Carlo della Disfatta di Dario (1777), e poi del Matrimonio inaspettato alla corte di Portici nel giugno 1781.
Il biennio 1781-82 segnò un forte stallo nella composizione di melodrammi, dovuto non tanto agli impegni sul fronte strumentale (il concerto per clavicembalo in Do maggiore e i sedici divertimenti per fiati), quanto all’assenza di un librettista italiano in loco, cui sopperì dapprima ripescando La serva padrona di Gennaro Antonio Federico – l’intermezzo buffo che, musicato da Pergolesi nel 1733, aveva poi fatto il giro d’Europa – allestita a Carskoe Selo il 10 settembre 1781. Il barbiere di Siviglia (L’Hermitage, 26 settembre 1782), intonato su una riduzione della commedia di Beaumarchais condotta da un autore ignoto (forse non italofono), rappresentò la gloriosa epitome della permanenza in Russia.
A ben vedere, in questa partitura non si scorge un rinnovamento stilistico significativo: la sintassi paratattica, che inanella una ricca varietà di figurazioni orchestrali, e la grammatica iterativa, che intesse moti perpetui funzionali alla declamazione sillabica, economizzano all’estremo l’invenzione armonica e melodica, esaltando però nel contempo la flagranza gestuale dell’azione scenica. La musica paisielliana, qui come nelle opere buffe precedenti e successive, mantiene infatti sia nell’espressione canora sia nel tessuto orchestrale un carattere funzionale rispetto alla corporea immediatezza del movimento teatrale. Del resto, se davvero l’opera avesse esibito la complessità melodrammaturgica che la tradizione critica, suggestionata dalla prossimità con Lenozze di Figaro di Mozart e con l’opera buffa di Rossini, le ha voluto tributare, le compagnie comiche minori nei teatri di provincia nostrani difficilmente l’avrebbero potuta allestire. Degna di nota è semmai l’orchestrazione, che impasta archi e legni (clarinetti compresi) con una sensibilità coloristica ancora inesplorata, così come la distribuzione dei numeri chiusi, curata dallo stesso musicista, tanto rispettosa dell’impianto originario di Beaumarchais quanto eccentrica se relazionata alle convenzioni invalse (il Barbiere paisielliano, fra l’altro, è una delle pochissime opere comiche coeve con un solo ruolo femminile). Non va infine dimenticato che l’idea di musicare la recente pièce francese – era stata recitata il 2 luglio 1780 nel teatro pietroburghese al
Ponte rosso dai Petits Comédiens du Bois de Boulogne – scaturì dalla sua perfetta congenialità alle parti della compagnia vocale: due buffi caricati, un tenore nobile e una donna di mezzo carattere.
Le mai sopite velleità di tornare a Napoli con la garanzia di un impiego a corte conobbero una svolta decisiva tra il 16 e il 19 agosto 1783, quando il Comitato della direzione dei teatri imperiali nominò Paisiello ispettore degli spettacoli seri e buffi. Il violento rifiuto opposto dal musicista a un incarico che lo avrebbe gravato d’una serie di oneri non retribuiti rischiò di condurlo in carcere. L’adattamento del goldoniano Credulo deluso col titolo Il mondo della luna (opera inaugurale del teatro Kamennyj di Pietroburgo, 5 ottobre) siglò l’ultimo melodramma di Paisiello per la corte russa, che egli lasciò il 5 febbraio 1784, dopo aver ottenuto già l’8 dicembre 1783 il permesso di congedo per risolvere – questo il pretesto – i problemi di salute della moglie. Del 9 dicembre 1783 è invece la lettera che Antonio Pignatelli principe di Belmonte, maggiordomo maggiore, indirizzò da Caserta al consigliere della deputazione dei teatri di Napoli, per confermare la nomina di Paisiello a compositore della musica dei drammi della corte a titolo meramente onorifico. Durante il viaggio di ritorno Paisiello soggiornò alla corte polacca di Stanislao II Augusto Poniatowski fino all’aprile 1784 (a Varsavia fece ascoltare la metastasiana Passione di Gesù Cristo), in attesa che Giuseppe II rientrasse a Vienna. L’operista pugliese giunse nella capitale imperiale il 1° maggio, e già quattro giorni dopo riferiva per lettera a Galiani il progetto d’intonare per il teatro di corte un dramma eroicomico del poeta cesareo Casti. Il re Teodoro in Venezia, questo il titolo dell’opera che trae spunto dal capitolo XXVI del Candide di Voltaire, andò in scena il 23 agosto senza peraltro entusiasmare il pubblico, che, a detta del cronista Karl von Zinzendorf, ne disapprovò la lunghezza (negativo fu pure l’esito d’una successiva ripresa, l’11 ottobre, con un diverso cast).
Russo (1998) e Gallarati (2007) hanno voluto vedere nel Re Teodoro un riflesso di taluni ideali della riforma drammatica vagheggiata da Giuseppe II, quali il gusto per il dramma borghese di Diderot e Lessing, e la recitazione concitata del teatro shakespeariano introdotta a Vienna dall’attore Friedrich Ludwig Schröder (sul modello di Garrick), «copiata e quasi quasi rasentata» – disse l’imperatore – dal cantante Francesco Benucci (cfr. Joseph II als Theaterdirektor, a cura di R. Payer von Thurn, Wien 1920, p. 35), che nell’opera di Paisiello tenne la parte del locandiere Taddeo (fu poi Figaro nelle Nozze di Mozart). Si osservano, è vero, svariati bozzetti corali, enormi finali a catena (quello dell’atto I termina curiosamente col graduale rientro tra le quinte di tutti i personaggi), recitativi obbligati assai fluidi: ma si trattò tutto sommato di elementi accessori, episodici discostamenti dagli standard consueti dell’opera buffa, che nell’insieme Paisiello ricalcò puntualmente, lasciando come sempre libero campo alla verve istrionica dei cantanti.
Arrivato a Napoli sul finire dell’ottobre 1784, Paisiello subito attese alla composizione dell’Antigono metastasiano per il S. Carlo (12 gennaio 1785). In seguito al successo dell’opera, che segnò l’inizio d’un lungo percorso di rinnovamento stilistico del dramma per musica, il musicista chiese e ottenne dal re (7 marzo) una pensione fissa di 100 ducati mensili, privilegio mai concesso ad altri colleghi. La tranquilla situazione lavorativa – doveva risiedere a Napoli e comporre annualmente un dramma serio per il S. Carlo – propiziò una ritrovata operosità e una netta maturazione stilistica. Nel 1787 – in quest’anno Paisiello fu nominato anche maestro della Real Camera, con un onorario supplementare di 240 ducati annui – il Pirro, dramma di De Gamerra (S. Carlo, 12 gennaio; conobbe 31 nuovi allestimenti), realizzò un’autentica svolta nella morfologia del dramma per musica, aperta all’adozione di ampi brani concertati dall’accentuato patetismo (e in questo assai dissimili dai concertati invalsi nell’opera buffa) nonché allo sfruttamento intensivo delle potenzialità connotative dell’orchestra. L’ultima fase creativa dell’operista Paisiello fu prevalentemente rivolta al versante serio. Nondimeno, grazie alla perfetta intesa con la scrittura scenica di Lorenzi e di Giuseppe Palomba, il teatro dei Fiorentini poté ancora acclamare due delle sue migliori commedie per musica, La modista raggiratrice (autunno 1787) e L’amor contrastato (autunno 1788, più noto col titolo La molinara), ricche di lepidezze parodistiche e, soprattutto, di una complessità nuova nel rapportare le forme musicali all’azione scenica. A intervallare questo estremo e felice ritorno al linguaggio comico delle origini vi fu Fedra (1° gennaio 1788, libretto di Luigi Bernardo Salvoni): l’uso dei cori, i balli analoghi, gli ampi recitativi obbligati e le scene oltretombali nel finale I rappresentarono un palese omaggio alla drammaturgia di tipo gluckiano.
Con Nina ossia La pazza per amore (Belvedere di S. Leucio, 25 giugno 1789) Paisiello fu l’artefice primario di una profonda metamorfosi nei meccanismi ricettivi dello spettacolo d’opera, orientandoli verso forme di ascolto simpatetico.
La «commedia d’un atto in prosa ed in verso» di Benoît-Joseph Marsollier (Parigi 1786), tradotta da Giuseppe Carpani per la ripresa dell’autunno 1788 nel teatro di corte di Monza con le musiche originali di Nicolas-Marie Dalayrac, fu ritoccata da Lorenzi per essere offerta ai sovrani napoletani nella nuova veste sonora confezionata da Paisiello. Ai Fiorentini di Napoli, nell’autunno 1790, venne data in una versione in due atti, sempre mista di canto e recitazione, mentre nel carnevale 1794 a Parma (La pazza per amore) vennero aggiunti dei recitativi cantati: in questa forma l’opera rimase in cartellone in tutt’Europa fino addentro all’Ottocento. Significativa per l’uso pervasivo dei cori e per la drammaturgia capace di mescolare il serio e il comico, Nina apparve come il prodromo d’un filone melodrammatico romantico imperniato su un’eroina dalla psiche instabile, ruolo che richiedeva un’estrema perizia d’attrice prima ancora che canora (fu infatti un cavallo di battaglia di primedonne insigni, come Anna Morichelli, Brigida Banti, Teresa Belloc-Giorgi, Giuditta Pasta).
Nulla delle sottigliezze drammatiche e compositive di Nina traspare dai coevi Zingari in fiera (un collage di lazzi e situazioni topiche dato al teatro del Fondo il 21 novembre); tuttavia l’opera riscosse un successo internazionale fino agli anni Venti dell’Ottocento, pari a quello della Locanda (Londra, Pantheon, 16 giugno 1791, poi ripresa nel carnevale seguente ai Fiorentini di Napoli come Il fanatico in berlina), che di fatto fu l’ultimo dramma giocoso di Paisiello: nell’Inganno felice (Giuseppe Palomba; Napoli, Fondo, inverno 1798), scritto a più mani, l’apporto paisielliano fu minimo. Un autentico sperimentalismo drammaturgico esibirono invece sia l’opera inaugurale della Fenice di Venezia, I giuochi d’Agrigento (16 maggio 1792, dramma per musica del conte Alessandro Pepoli), sia Elfrida (4 novembre 1792) ed Elvira (12 gennaio 1794), «tragedie per musica» ideate per il S. Carlo dall’anziano Ranieri Calzabigi. Arie «quasi tutte parlanti» intessute di metri variabili, duetti e terzetti a profusione, «pezzi concertati» (ossia, per dirla col poeta, «spezie di cori» ove «cantano principalmente i personaggi in passione»; cfr. Robinson, I, 1999, pp. 515 s.), monologhi e diverbi su recitativo obbligato: furono queste le risorse, poetiche e musicali, adibite a una resa fluida dell’azione teatrale, sia nell’impianto complessivo del dramma, sia entro il singolo numero chiuso.
Paisiello conquistò l’attenzione della committenza aristocratica e della corte: alla Nuova Accademia degli amici era stata destinata la cantata Il ritorno di Perseo (Luigi Serio, 6 ottobre 1785) e alla Nobile Accademia di dame e cavalieri la «favola boschereccia» Amor vendicato (Antonio Di Gennaro, 30 giugno 1786); la cantata Il genio poetico appagato (Giuseppe Pagliuca) inaugurò il teatro di S. Ferdinando il 17 agosto 1790; la «festa teatrale» La Daunia felice (Francesco Paolo Massari) fu data a Foggia 25 giugno 1797 per festeggiare le nozze del principe Francesco con l’arciduchessa d’Austria. Il compositore si stagliò dunque di netto su tutti gli altri operisti napoletani, specialmente quando, nel 1796, divenne maestro di cappella in duomo, nomina che lo necessitò a incrementare la produzione sacra. L’agio del compositore fu sconvolto dagli eventi storici: quando il 21 dicembre 1798 la corte riparò in Sicilia per sottrarsi all’invasione francese, Paisiello non si unì ai realisti, fiducioso che la propria fama lo avrebbe esaltato agli occhi di qualsiasi governo; e difatti il 4 maggio 1799 fu nominato maestro di cappella nazionale dell’effimera Repubblica partenopea (23 gennaio - 8 luglio). Al ritorno dei Borbone, Paisiello giustificò la mancata partenza per la Sicilia adducendo il pretesto della malattia della moglie, ma le due petizioni di reintegro nei suoi offici musicali ebbero effetto soltanto il 7 luglio 1801.
Ragioni diplomatiche spiegano il trasferimento dell’ex-maestro di cappella reale a Parigi (vi giunse il 24 aprile 1802) finalizzato all’organizzazione dei fasti del primo console. L’infatuazione di Napoleone per Paisiello risaliva al 1797, anno della Musica funebre commissionatagli da Bonaparte stesso per onorare il generale Lazare Hoche, e crebbe nei due anni di permanenza del maestro a Parigi. La tragédie lyriqueche avrebbe dovuto consacrare l’operista pugliese agli occhi dei parigini, Proserpine (Nicolas-François Guillard; Opéra, 29 marzo 1803), non ebbe tuttavia felice incontro, sia per il non sempre impeccabile possesso della prosodia francese, sia per la condotta armonica e melodica, che ai francesi dovettero apparire scialbe e ripetitive. Mal ambientatosi nel difficile ambiente musicale parigino, riconosciuto in Jean-François Lesueur un degno sostituto, Paisiello ripartì per Napoli verso fine agosto 1804, dopo aver composto una Missa solemnis e riciclato un Te Deum del 1791 da usare per l’incoronazione di Napoleone in Notre Dame (2 dicembre). Per non perdere la stima e i lauti emolumenti dell’imperatore, Paisiello inviò poi con regolarità a Parigi un gran numero di brani sacri e una nuova composizione celebrativa per il genetliaco di Napoleone. Nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat (1806-1815), insignito di svariate onorificenze (Legion d’onore e accademico di Lucca, luglio 1806; accademico d’Italia, maggio 1807; cavaliere dell’Ordine reale delle Due Sicilie, maggio 1808) e della direzione del nuovo Collegio di musica (con Giacomo Tritto e Fedele Fenaroli; dicembre 1806), beneficiario d’una pensione annua di 1000 franchi, Paisiello si congedò dalle scene teatrali con I pittagorici, un dramma d’un sol atto di Vincenzo Monti (S. Carlo, 19 marzo 1808) che commemorava le vittime della repressione del 1799: questo fu il vero motivo della rottura definitiva con la corte borbonica, tornata sul trono il 9 giugno 1815. Rimasto vedovo da poco (23 gennaio 1815), privo degli onorari provenienti da Parigi e da Pietroburgo, Paisiello trascorse l’ultimo anno di vita in solitudine nel vano tentativo di risollevare a palazzo la propria reputazione.
Morì per blocco intestinale il 5 giugno 1816 nella sua casa di Napoli assistito dalle sorelle Maria Saveria e Ippolita.
Una selezione delle sue musiche sacre accompagnò il solenne funerale nella chiesa di S. Maria Nova, cui parteciparono le massime cariche musicali cittadine.
Esponente di primissima fila nelle vicende musicali d’Europa nell’ultimo trentennio del Settecento, Paisiello fece della commedia per musica napoletana un genere sovranazionale; nel contempo, con Nina gettò le basi di un gusto protoromantico che fruttificò nei decenni a venire. I contemporanei e la storiografia musicale ottocentesca gli vollero attribuire la paternità dei nuovi istituti formali introdotti nel dramma per musica. I suoi lavori contribuirono a far convergere la stima e l’interesse degli spettatori coevi non soltanto sul cast ma anche sul compositore e sulla sua partitura, considerata un prodotto artistico da replicare e da rigustare.
Opere: oltre quelle menzionate, si ricordano Il furbo malaccorto (Lorenzi, Napoli, Nuovo, inverno 1767); La luna abitata (Id., ivi, estate 1768); La finta maga per vendetta (Id., Fiorentini, autunno 1768); L’osteria di Marechiaro (Cerlone, ivi, carnevale? 1769); L’arabo cortese (Mililotti, Nuovo, inverno 1769); La Zelmira (Cerlone, ivi, estate 1770); Le trame per amore (Id., ivi, 7 ottobre 1770); La somiglianza de’ nomi (Mililotti, ivi, primavera 1771); I scherzi d’amore e di fortuna (Cerlone, ivi, estate 1771); La Semiramide in villa (Gaetano Martinelli, Roma, Capranica, carnevale 1772); La Dardanè (Cerlone, Napoli, Nuovo, primavera 1772); Gli amanti comici (Lorenzi, ivi, autunno 1772); Il tamburo (Lorenzi, Nuovo, primavera 1773); Le astuzie amorose (Cerlone, ivi, primavera 1775); L’amore ingegnoso (Roma, Valle, carnevale 1785); La grotta di Trofonio (Casti-Palomba, Napoli, Fiorentini, autunno 1785); Olimpiade (Metastasio, S. Carlo, 20 gennaio 1786); Le gare generose (Palomba, Fiorentini, primavera 1786); Catone in Utica (Metastasio, S. Carlo, 5 febbraio 1789); Le vane gelosie (Lorenzi, Fiorentini, primavera o inizio estate 1790); Zenobia in Palmira (Sertor, S. Carlo, 30 maggio 1790); Ipermestra (Metastasio, Padova, Nuovo, giugno 1791); Didone abbandonata (Metastasio, Napoli, S. Carlo, 4 novembre 1794); Andromaca (Calcagni-Lorenzi, S. Carlo, 18 novembre 1797).
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