OREFICE, Giovanni
OREFICE, Giovanni. – Nacque a Napoli il 13 marzo 1608, da Antonio e da Jumara Mendoza.
Il padre apparteneva a una famiglia del ceto togato, entrata poi a far parte del Seggio nobile Dominova di Sorrento. Questi, dopo una brillante carriera negli uffici percorsa sul solco di una tradizione familiare risalente ad almeno due generazioni, che lo aveva portato a ricoprire la carica di governatore di Principato Citra e Basilicata, acquistò nel 1606 il feudo di Sanza, in Principato Citra, prima col titolo di marchese e nel 1618 con quello di principe.
Giovanni era il primogenito; a lui seguirono Luigi, entrato nell’Ordine dei cavalieri gerosolimitani e poi cavaliere di Calatrava, che sposò in Spagna la contessa di Castrogliano Giuseppa de Bazan; Cecilia, che sposò il conte di Chiaromonte Carlo Sanseverino; Maria, andata in sposa al duca di Santo Mango.
Educato dalla madre ai costumi e nella lingua castigliani, Orefice sposò la figlia di primo letto di suo cognato, Isabella Sanseverino che gli portò in dote un patrimonio di oltre 50.000 ducati e dalla quale ebbe Antonia, Jumara e, nel maggio 1639, Antonio. La coppia fissò la propria residenza a Sorrento dove, morto intanto il padre, Orefice ristrutturò il palazzo di famiglia e tenne corte. Fu allora che cominciò ad avvicinarsi a quei settori dell’aristocrazia napoletana non sempre del tutto allineati su posizioni filospagnole ma anzi, spesso, anche più o meno marcatamente attivi nel dibattito e nella vita politica e protagonisti, in quegli anni, ben al di là della tradizionale ‘riottosità’ del nobile napoletano, di qualche progetto di separare Napoli dalla monarchia di Spagna per porla sotto un principe proprio e di varie altre trame destabilizzanti il potere della Corona nel Regno.
Nel giugno 1635, proprio quando a Napoli giunse la notizia dell’ingresso ufficiale della Francia nella guerra dei Trent’Anni nello schieramento opposto alla Spagna, Orefice era a Venezia, agitata da umori antispagnoli almeno dall’epoca della congiura di Bedmar e crocevia di spie e cospiratori al soldo di papa Urbano VIII Barberini e dei francesi. Nella casa di un mercante genovese detto Tagliacarne, entrò in contatto con un gruppo di cospiratori e si associò ai loro progetti per un’impresa promossa dal duca sabaudo e finanziata dalla Francia, il cui obiettivo era la conquista di Napoli e la cacciata degli spagnoli.
Al complotto parteciparono il duca Rodolfo Massimiliano di Sassonia, accompagnato dal frate agostiniano Epifanio Fioravanti (agente del papa, da tempo coinvolto nelle manovre dei Barberini e in combutta pure con il cardinale Maurizio di Savoia); il duca di Candale Henri de Noraget d’Epernon, allora capitano di ventura al soldo della Serenissima; Maiolino Bisaccioni e suo genero Giovanni Battista Montalbano, entrambi accreditati per vari affari alla corte di Vittorio Amedeo I di Savoia, e un altro personaggio a dir poco ambiguo, Pietro Mancino. Il piano di Orefice, esposto in una dettagliata memoria inviata qualche settimana dopo il rientro da Venezia al duca di Savoia, prevedeva la disposizione di 12.000 uomini ai confini settentrionali del Regno, un accordo con i nipoti del papa e il connestabile Filippo Colonna per la raccolta di forze mercenarie e l’invio di ulteriori rinforzi militari su quegli stessi confini con lo Stato romano, mentre altri uomini armati, guidati da Mancino, avrebbero fatto irruzione in Puglia, con l’occupazione delle piazze strategiche di Monte Sant’Angelo e la Dogana di Foggia. A operazioni militari concluse, Vittorio Amedeo di Savoia sarebbe stato investito del Regno di Napoli, mentre a suo fratello, il cardinal Maurizio, sarebbe rimasto il Piemonte, alla Francia la Savoia e ai Barberini un vasto complesso feudale nel Mezzogiorno. Sembra che per sé Orefice rivendicasse il principato su Sorrento e su Salerno, quest’ultima antica dipendenza feudale dei Sanseverino, già colpiti a suo tempo dalla repressione degli Asburgo per le loro posizioni filofrancesi. Pare anche che questa sua opzione non fosse esente da una consapevole sottolineatura del legame, sia pure annodato con fili più nascosti, a un ‘partito napoletano antispagnolo’ e a un’idea di autonomia che, per quanto velleitaria nelle sue aspirazioni e inconsistente numericamente, costituiva pur sempre il segno del deterioramento politico in atto tra alcuni settori dell’aristocrazia e il governo del Regno.
Il piano parve a Montalbano, aiutante del maresciallo di campo del duca di Savoia e suo fidato confidente, troppo rischioso e ambizioso e fu, pertanto, almeno momentaneamente accantonato. Qualche mese dopo, però, nel gennaio 1636, uno dei protagonisti di quel complotto, e cioè il frate Fioravanti, sorpreso dai soldati spagnoli intento a raccogliere informazioni dettagliate, con tanto di disegni e riproduzioni cartografiche, sullo stato delle difese lungo le coste pugliesi del Regno, fu tradotto nelle carceri di S. Erasmo a Napoli. Probabile che dell’arresto fosse responsabile la delazione di Mancino e che a quello altri arresti potessero seguire. Probabile anche che, sottoposto a tortura, Fioravanti potesse cominciare a fare i nomi degli altri partecipanti alla congiura. Orefice allora, per distogliere da sé i sospetti, lasciò Napoli per recarsi a Madrid, dove la circostanza del matrimonio del fratello Luigi gli fornì l’occasione per un’opportuna, quanto simulata esibizione di lealtà alla Corona spagnola. Per qualche mese, infatti, fu alla corte di Filippo IV, senza comunque riceverne gli onori cui una personalità del suo rango avrebbe potuto aspirare.
Poco dopo il suo rientro a Napoli fu arrestato, nel marzo 1639, per quel che apparve solo un banale incidente di etichetta. Scarcerato dopo 27 giorni di detenzione con l’ordine di tenersi lontano dalla capitale, si recò nel suo palazzo di Sorrento, ma da qui, via mare, oltrepassò i confini del Regno per rifugiarsi a Roma, presso l’ambasciatore di Francia, cui tornò a chiedere l’invio di un’armata nel Regno. A Roma, alla vigilia di Natale 1639, lo raggiunsero gli sgherri del fuoriuscito Giulio Pezzola, allettati dalla taglia che il viceré di Napoli, Ramiro Felipe Nuñez de Guzmán duca di Medina las Torres, aveva intanto interposto alla cattura. Orefice fu tradotto a Napoli, dove giunse il 7 gennaio 1640 per essere rinchiuso nelle carceri di Castel Nuovo e sottoposto a un regolare, quanto rapidissimo processo. Il tribunale del Collaterale, presieduto per l’occasione dal viceré che vi presenziò vestito in alta uniforme e assiso sotto il baldacchino, simbolo più alto del potere regio, confermò l’accusa, pesantissima, di delitto di lesa maestà e alto tradimento nei confronti della Corona.
La sentenza di condanna a morte per decapitazione fu eseguita in piazza Mercato, la sera del 15 gennaio 1640.
Orefice giunse sul luogo del patibolo scortato dai confratelli della Compagnia dei Bianchi della Giustizia e dall’arcivescovo Francesco Boncompagni. L’episodio riempì le pagine delle cronache del tempo, anche se fu notevolmente ridimensionato rispetto a quella che sembra sia stata la sua effettiva portata. La condanna a morte di Orefice fu rievocata ancora nei giorni della rivolta di Masaniello, quando il suo boia, che – a quanto si disse allora – una volta caduta la sua testa dal ceppo l’aveva rivoltata con il piede, fu a sua volta decapitato e fatto oggetto di altre, orribili, mutilazioni.
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca Società napoletana di storia patria, ms. XV B 6, cc. 301r-303v: Sentenza proferita nel 1640 dal Viceré di Napoli contro D. G. O.; ms. XXIV D 16, cc. 667-686: Cattura del signor principe di Sanchez napoletano; ms. XX C 2, cc. 218-219; Ibid., Biblioteca nazionale, ms. XI A 69: Vita di D. G. O. principe di Sanza (1716); D.A. Parrino, Teatro eroico de’ governi de’ Viceré del Regno di Napoli, II, Napoli 1692, p. 281; F. Capecelatro, Degli annali della città di Napoli di don Francesco Capecelatro, Parti due, 1631-1640, Napoli 1849, pp. 163-178; S. Volpicella, D. G. O. principe di Sanza. Decapitato in Napoli nel 1640, inArchivio storico per le province napoletane, III (1878), 1, pp. 713-742; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini 1585-1647, Roma-Bari 1976, pp. 201-203; G. Intorcia, Magistrature del Regno di Napoli. Analisi prosopografica. Secoli XVI-XVII, Napoli 1987, p. 351; A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, II ed., Napoli 1989, pp. 79, 87; G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco (1622-1734), in Storia d’Italia, XV/3, Torino 2006, pp. 173-175; C.J. Hernando Sánchez, Teatro del honor y ceremonial de la ausencia. La corte virreinal de Nápoles en el siglo XVII, in Calderón y la España del Barocco, a cura di J. Alcalà Zamora - E. Belenguer, I, Madrid 2001, p. 647; S. D’Alessio, Masaniello. La sua vita e il mito in Europa, Roma 2007, p. 107; G. Benzoni, Fioravanti Epifanio, in Dizionario biografico degli Italiani, XLVIII, Roma 1997, pp. 101-104.