NORCHIATI, Giovanni
NORCHIATI (Narchiati), Giovanni. – Nacque a Poggibonsi, nei pressi di Siena ma in territorio fiorentino, all’inizio del XVI secolo, da Michele di Giovanni; il nome della madre è sconosciuto.
Il periodo della nascita si ricava da una lettera a Benedetto Varchi, scritta da Firenze il 22 gennaio 1541 (in Raccolta di prose fiorentine, Parte quarta, Volume primo contenente lettere, Firenze 1734, pp. 108-115), in cui racconta di essere stato condotto fanciullo a Firenze, ivi allevato e «stato per circa quaranta anni continui» (p. 108).
Non si hanno notizie sugli studi, ma dovette entrare presto in religione, perché il 23 ottobre 1520 fu eletto maestro della scuola che il capitolo della basilica di S. Lorenzo teneva aperta per i suoi chierici. Nell’atto capitolare della elezione risulta che era cappellano di Orsammichele ed era stato pedante in casa di Lanfredino Lanfredini e del priore Filippo Pandolfini. La sua condotta come religioso fu tutt’altro che irreprensibile. Il 21 gennaio 1521 fu allontanato dall’insegnamento per essere stato «negligente, benché di buona lettura, et costumi, e per esser in altre cose occupato» (Moreni, 1816, p. 65). Doveva essere intendente di musica, perché poco dopo fu eletto dal capitolo primo rettore della cappella corale di S. Maria e S. Giuseppe e ne prese possesso il 9 aprile 1522, ma nel giugno 1528 il capitolo lo sospese per non avere eseguito il servizio personale, cui i cappellani erano tenuti. Fu riammesso il 18 agosto successivo; poco dopo si ammalò e il 3 ottobre chiese di essere dispensato dai servizi notturni durante la convalescenza, cosa che ottenne fino al 20 novembre. Nell’ottobre 1530 ottenne il permesso di assentarsi nella prima metà del mese per attendere alla vendemmia in un suo fondo. Il 13 marzo 1531 fu autorizzato a recarsi a Loreto insieme con Francesco Bonini. Il 26 marzo 1533 fu privato per due mesi delle distribuzioni ordinarie e straordinarie e obbligato a servire gli uffici divini notte e giorno dal 1° al 16 aprile per «aver conviziato, e detto villania a Mess. Pier Francesco Giambullari nostro Canonico alli passati giorni nella nostra Sagrestia alla presenza di alcuno Canonico e Cappellano, e reiterato a lui molte ingiuriose parole» (Moreni, 1817, p. 150).
Ciononostante il 3 agosto 1533, con bolla di Clemente VII, gli fu assegnato un canonicato rimasto vacante, secondo la testimonianza di Giorgio Vasari (VI, 1881, p. 633) grazie all’intervento del nipote Angelo di Michele (detto il Montorsoli), apprezzato scultore chiamato da Michelangelo a Roma nel 1532 per collaborare alla realizzazione della tomba di Giulio II (nel 1533 il Montorsoli ebbe da Michelangelo l’incarico di restaurare le statue della loggia del Belvedere in Vaticano e poté così entrare nelle grazie di Clemente VII, che si recava quotidianamente a seguire i lavori).
Il 31 dicembre 1537 Norchiati fu chiamato a sottoscrivere in qualità di testimone il testamento di Filippo Strozzi nella fortezza da Basso.
Da Vasari (VI, 1881, p. 630) si apprende che nel 1527 il Montorsoli, rimasto disoccupato a causa dell’interruzione della fabbrica di S. Lorenzo a seguito della caduta dei Medici e del ripristino della Repubblica, si trattenne «un pezzo» presso lo zio, il quale soggiornava nella natia Poggibonsi, probabilmente per sfuggire alla peste che aveva colpito Firenze. Quando Michelangelo riprese i lavori in S. Lorenzo, la presenza del nipote tra gli scultori che lavoravano nel cantiere offrì a Norchiati l’occasione di stabilire rapporti confidenziali con l’artista, di cui conserva traccia l’epistolario di quest’ultimo.
Il 9 marzo 1532 Antonio Mini, un allievo di Michelangelo passato in Francia, da Lione dava istruzione al maestro a Firenze di consegnare le lettere per lui a Norchiati, il quale avrebbe provveduto a inoltrargliele per mezzo di Giuliano o Leonardo Ginori. In una lettera databile al 18-20 agosto 1532 Giovan Battista Figiovanni – che prima del 1527 aveva affiancato Michelangelo con l’incarico di provveditore del cantiere di S. Lorenzo e nel convulso triennio successivo, fino alla caduta della Repubblica e al ritorno dei Medici, aveva sorvegliato diligentemente la fabbrica per impedire che fossero procurati danni irreparabili – rassicurava Michelangelo di avere «buona cura delle cose vostre» insieme con i suoi garzoni, Norchiati e gli altri preti. Non è un caso perciò che Anton Francesco Doni in un dialogo dei Marmi rappresenti Norchiati come interlocutore di un ‘Fiegiovanni’, il quale ha intrapreso un’opera che narra tutte le imprese dei Medici da Cosimo il Vecchio a Cosimo I (ma nel dialogo sono riportati solo alcuni aneddoti riguardanti il duca Alessandro). Infine, una missiva di Norchiati a Michelangelo, del 7 dicembre 1532 (in Il carteggio di Michelangelo, 1973, pp. 441 s.), presenta un tono confidenziale e contiene tra l’altro i ringraziamenti per il trattamento riservato al «frate», cioè il Montorsoli, entrato nell’Ordine dei servi di Maria il 7 ottobre 1530 con il nome di Giovanni Angelo. «Amico suo» Vasari definisce Norchiati nella Vita di Michelagnolo (VII, 1881, p. 227) a proposito di certi disegni dell’artista trafugati in casa di Antonio Mini dopo la caduta della Repubblica, nel 1530, poi restituiti per intervento degli Otto: nella circostanza Norchiati persuase Michelangelo a non procedere giudizialmente.
Ai lavori in S. Lorenzo e al rapporto instaurato con Michelangelo si deve collegare l’interesse di Norchiati per Vitruvio. Nella lettera citata egli dà notizia a Michelangelo dello stato avanzato della traduzione del De architectura, cui attendeva: «ho lavorato forte in sul Vitruvio e sono già nel settimo libro, che sei ne sono tradotti interi, e tuttavia lavoro» e insieme dichiarava di avere bisogno dell’aiuto del destinatario per «anchora coll’occhio vedere certe cose delle antiche» (Il carteggio di Michelangelo, 1973, p. 442), particolare che rivelerebbe una collaborazione tra i due nell’interpretare il difficile testo dell’autore latino. A questo scopo Norchiati si augurava di poter raggiungere Michelangelo a Roma nella primavera successiva, come poi difatti avvenne, anche se con un po’ di ritardo: solo il 23 giugno 1533 il capitolo di S. Lorenzo lo autorizzò ad assentarsi tutto luglio per andare a Roma a «negociare certe sue faccende» (Moreni, 1817, p. 150). Non si sa che fine abbia fatto questa traduzione di Vitruvio, forse accantonata per il sopravvenire dell’interesse per gli studi linguistici.
Nel 1539, a Venezia per Giovann’Antonio Nicolini da Sabio, a istanza di Marchiò Sessa, apparve il breve Trattato de’ diphtonghi toscani, che reca in calce la data 11 novembre 1538. Si apre con l’intestazione «al suo molto honorando messer Pierfrancesco Giambullari», nei rapporti con il quale non era evidentemente rimasta traccia dello screzio di sei anni prima, se Norchiati dichiara di avere composto l’operetta per esortazione e incoraggiamento di Giambullari, allora immerso nella correzione e nel commento della Commedia di Dante, impresa che Norchiati elogia caldamente.
Nel Trattato (la copia manoscritta appartenuta a Varchi in Firenze, Biblioteca Riccardiana, Misc. 112.6; cfr. Siekiera, 2009, p. 388) Norchiati muove dall’osservazione municipalistica che molti non toscani avevano fin lì scritto del volgare e che era tempo fossero i toscani a dettare le regole della propria lingua, come appunto egli si propone di fare con i dittonghi; nella chiusa annuncia a Giambullari che tratterà in un’altra opera «della pronuntia di questa lingua». Il Trattato consiste nell’illustrazione dei dittonghi del fiorentino con esempi tratti dalle ‘Tre corone’, della loro pronuncia corretta e del computo sillabico a secondo di come si intendano i concorsi di vocali nelle parole. Norchiati considera a esempio bisillabo figliuoi (Inferno, XXXIII, 48), che poteva essere letto invece come trisillabo e richiedere il troncamento figliuo’ per esigenze metriche. La capacità di conservare nella pronuncia i suoni semivocalici è considerata un pregio peculiare dei fiorentini e dei toscani in generale. Con questa disamina di natura tecnica e a carattere normativo, Norchiati affronta, limitatamente all’argomento prescelto, il problema dell’ortoepia della lingua, che non era percepito come specialismo erudito, in un momento in cui il volgare fiorentino conosceva una grande valorizzazione e rivelava, agli occhi degli studiosi più attenti, aspetti incerti e oscillanti che richiedevano di essere compresi a fondo e disciplinati, anche attraverso il confronto tra lingua parlata e lingua letteraria, la cui relazione, diversamente dagli scrittori non toscani, appariva a Firenze come un dato di fatto irremovibile da cui prendere le mosse.
Fu questa sensibilità ai problemi della lingua che, tra il novembre e il dicembre 1540, aprì a Norchiati le porte della neonata Accademia degli Umidi, primo arroto, cioè membro aggiunto, al gruppo dei dodici fondatori e a Goro della Pieve, entrato il 14 novembre. Vi prese il nome di Lacrimoso e dopo il 25 dicembre 1540 (ingresso di Cosimo Bartoli e Pierfrancesco Giambullari) gli fu dato incarico, insieme con Bartoli, di redigere una riforma parziale degli statuti riguardo all’organizzazione delle lezioni.
La morte, sopravvenuta improvvisa, con ogni probabilità a Firenze, poco dopo, il 30 gennaio 1541, mise fine al suo nuovo impegno.
Fu compianto in seno all’Accademia: due sonetti funebri, uno dei quali di Niccolò Martelli, sono in Firenze, Biblioteca nazionale, II.IV.1, cc. 56r, 57r (quello di Martelli anche ibid., II.X.191, c. 34r). Un sonetto in morte compose anche Varchi (Carlo non pianger no, ma ben dovete), diretto a Carlo Strozzi, che rispose con Varchi il nostro Martin, non mi dovete (Varchi, 1557, p. 14).
La citata lettera a Varchi, unico frammento sopravvissuto di una corrispondenza più folta, verte su un’opera lessicografica alla quale Norchiati si era applicato da otto mesi e per la quale aveva raccolto un numero considerevole di lemmi, in parte poco usati o da lui addirittura ignorati, alla cui organizzazione cominciava allora ad applicarsi (aveva spedito al destinatario un saggio relativo alla lettera A). Norchiati si dimostra curioso della varietà della lingua e alieno da distinzioni rigide tra fiorentino e altri volgari toscani e italiani («quando mi ci venissi posto qualche vocabolo proprio sanese non farei contro alla intentione mia, né anco se fusse latino o lombardo o francioso: un vocabolo non mi dà noia il dichiararlo, pur che si usi oggi in Firenze, mi basta», in Raccolta di prose fiorentine, 1734, pp. 111 s.). La morte precoce gli impedì di affrontare i complessi problemi metodologici connessi a un’opera lessicografica, accennati solo in nuce nella lettera (lo spoglio condotto sugli autori, la presenza di esempi nella spiegazione delle voci). Fu per questo che l’incompiuto vocabolista di Norchiati non lasciò un segno nella cultura fiorentina contemporanea. Che il lavoro fosse atteso dagli Accademici fiorentini è provato dalla lode espressa in un altro sonetto di Martelli (ms. II.X.191, c. 33v), ma nel 1551 Giovambattista Gelli lo ricorda, nel Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua, come perduto.
Una parte del lessico verteva sui nomi attinenti alle arti. Sarebbe questo il Vocabolario de’ vocaboli spettanti tutti i mestieri, anche quelli più meccanici, che Doni gli attribuisce nella Libraria (1972, p. 118; vi è menzionata anche la traduzione incompiuta di Vitruvio) probabilmente confondendolo con l’opera nel suo insieme e dando l’inverosimile cifra di oltre 10.000 vocaboli. Corrisponde molto probabilmente al vero la notizia che Norchiati avrebbe condotto la ricerca sul campo, andando «per tutte le professioni dell’arti e per ciascuna bottega» e trascrivendo il nome degli strumenti adoperati dagli artefici; invenzione doniana sarà invece che egli meditasse di aggiungervi un’illustrazione per ciascuno strumento. Nella seconda parte della Libraria, dedicata alle opere rimaste manoscritte, Doni annovera, oltre a una Fabrica degli strumenti di tutte l’arti, che è una replica del lessico descritto nella prima parte, una Ricchezza de’ vocaboli fiorentini, pronunzia degli antichi toscani e il proferire della lingua de’ moderni, che dovrebbe essere l’opera sulla pronuncia della lingua annunciata in calce al Trattato: un’informazione, quella di Doni, in sostanza corretta, come non sempre accade nella Libraria, che potrebbe anche essere legata a una conoscenza personale tra i due, come si evince dal Cicalamento XX della Zucca, dove Doni (a Firenze negli anni Trenta) dice di avere avuto in dono un libro da Norchiati.
Di una produzione in versi di Norchiati è giunta un’unica prova isolata, nel metro difficile della sestina, nel Vat. lat. 5225, II, c. 377r-v (Dapoi che mosse ’l primo amor il celo).
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca Nazionale, Magl. IX.46: A. Magliabechi, Notizie appartenenti all’istoria letteraria di Firenze, pp. 100 s.; IX.82: A.M. Biscioni, Giunte alla Toscana letterata del Cinelli, pp. 69r-80r; Il carteggio di Michelangelo, a cura di P. Barocchi - R. Ristori, III, Firenze 1973, pp. 380, 428, 441 s.; B. Varchi, De’ sonetti colle risposte, e proposte di diversi parte seconda, Firenze 1557, p. 14; A.F. Doni, I marmi, a cura di E. Chiorboli, I, Bari 1928, pp. 76-81, 244 s.; Id., La libraria, a cura di V. Bramanti, Milano 1972, pp. 118, 332; Id., La Zucca, a cura di E. Pierazzo, I, Roma 2003, pp. 29, 69; G.B. Gelli, Dialoghi, a cura di R. Tissoni, Bari 1967, p. 318; G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, a cura di G. Milanesi, Firenze 1881, VI, pp. 630, 633; VII, p. 227; M. Poccianti, Catalogus scriptorum Florentinorum, Florentiae 1589, p. 100; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, pp. 290 s.; G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana con le annotazioni del signor Apostolo Zeno, I, Venezia 1753, pp. 74 s.; D. Moreni, Continuazione delle memorie istoriche dell’Ambrosiana Imperial Basilica di S. Lorenzo di Firenze, I, Firenze 1816, p. 65; II, ibid. 1817, pp. 146-158, 336; G.B. Niccolini, Filippo Strozzi, Firenze 1847, p. 331; C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908, p. 141; B. Varchi, L’Hercolano, a cura di A. Sorella, Pescara 1995, I, pp. 69 n., 88 e n., 164 n.; II, p. 604 n.; M. Plaisance, L’Accademia e il suo principe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Manziana 2004, ad ind.; A. Siekiera, Benedetto Varchi, in Autografi dei letterati italiani, Il Cinquecento, I, a cura di M. Motolese et al., Roma 2009, p. 338.