MOLIN, Giovanni
– Nacque a Venezia il 26 apr. 1705, secondogenito di Marco e di Giustina Vitturi. La famiglia apparteneva al ramo dei Molin «del Molin d’oro» e precisamente ai Molin «al Traghetto della Maddalena», così detti dal luogo di Venezia dove si stabilirono a metà del XV secolo. Dal matrimonio nacquero anche Sebastiano, Elena, Caterina, Pietro (1709-77; in religione col nome di Marco, fu priore del convento di S. Giustina a Padova e vescovo di Bergamo nel 1773), Angelo, Ludovico, Cecilia, Gaetano, Teresa (Barbaro).
Una nota biografica inviata dal fratello Gaetano allo zio paterno Ludovico, frate teatino, il 12 febbr. 1755, informa della predisposizione del M. per il disegno, l'architettura, la musica e la pittura, principalmente a pastello (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 9278, c. 228). Entrò giovane nella vita religiosa. Il 23 dic. 1725 prese gli ordini minori, il 15 giugno 1726 il suddiaconato, il 7 giugno 1727 il diaconato e fu ordinato sacerdote il 22 maggio 1728. Negli stessi anni frequentò l’Università di Padova, dove il 14 marzo 1729 conseguì il dottorato in utroque iure.
Negli anni della giovinezza intraprese una Storia ecclesiastica veneziana, argomento fino a quel momento mai trattato approfonditamente, per la quale stese un piano e raccolse molto materiale. Del suo sforzo fece partecipe nel 1735 L.A. Muratori, cui sottopose il programma dell’opera, ma il lavoro, che si era concentrato sulla storia della Chiesa di Grado e del patriarcato di Venezia, non ci è giunto.
Nel marzo 1738 fu tra i quattro candidati e nel giugno 1739 fu eletto auditore della Sacra Rota da papa Clemente XII, in sostituzione di Carlo Rezzonico, promosso cardinale. Si trasferì pertanto a Roma dove sarebbe rimasto per sedici anni, durante i quali frequentò non solo le aule giudiziarie, ma anche i salotti dell’aristocrazia e le sale delle accademie. Agli anni 1744-45 si può far risalire l’amicizia con C.J. Firmian, allora frequentatore degli ambienti del cattolicesimo aperto alle innovazioni di ispirazione giansenista. Più che alle dispute teologiche, il M. era però interessato agli studi letterari, e in quegli anni pensò di pubblicare un saggio in latino sulla Batracomiomachia. L'autografo (Arch. di Stato di Brescia, Congrega della carità apostolica, b. 205, 8) si presenta sotto forma di lunga Epistola indirizzata al fratello maggiore Sebastiano (1701-68), influente senatore e autore di uno studio sull’origine della poesia che venne elogiato da M. Cesarotti nel Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte poetica, pubblicato a Venezia nel 1762 (Opere scelte, Firenze 1945, I, p. 255).
Nella nota allegata al lavoro, il M. racconta che lo stimolo per dare alle stampe l'opera gli era venuto dalla recente pubblicazione del poemetto a cura dell’abate A. Lavagnoli (Venezia 1744), dove veniva sostenuta la paternità di Omero. Il M. dichiara di essersi occupato anche lui in passato della questione e, appoggiandosi al grecista inglese Joshua Barnes (1654-1712), si sforza di dimostrare che il poemetto è opera giovanile e che Omero avrebbe effettivamente assistito a una battaglia fra topi e rane, da cui trasse ispirazione.
Qualche anno più tardi il M. abbracciò con entusiasmo la proposta di F.M. Mancurzi di patrocinare la pubblicazione di una Storia di Imola composta da G.A. Flaminio: il M. avrebbe dovuto scrivere la prefazione e arricchirla con «frequenti note». Il progetto si inquadrava nell’approccio storiografico teso al recupero delle fonti, introdotto da Muratori. In un'altra lettera, del marzo 1747, il M. dichiarò di avere ricevuto una seconda opera di Flaminio, Delle lodi di Faenza, e anche per essa propose la stesura di note, ma di entrambi i commenti non è rimasta traccia (le lettere sono conservate a Venezia, Civico Museo Correr, Epistolario Moschini, ad nomen). Sono arrivati a noi invece due brevi testi, De moderatione e De animo (Arch. di Stato di Brescia, Congrega della carità apostolica, b. 205, 8), scritti durante gli anni romani, imperniati sul tentativo di stabilire una relazione fra religione e mondo classico. Nel primo il modus, la moderazione che garantisce serenità ed equilibrio, viene collegato alla mediocritas, e diventa categoria sulla quale si devono basare pensieri e azioni. Nel secondo il M. sottolinea che i pagani avevano compreso la superiorità dell’anima rispetto ai sensi e il suo valore divino, anticipando in questo modo la visione cristiana.
Nel 1749 il M. favorì la conoscenza fra Isabella Cappello, la primogenita del residente veneziano a Roma Pietro Andrea, e il più giovane dei suoi fratelli, Gaetano. Il matrimonio, celebrato il 5 ag. 1750, portò alla famiglia prestigio e una ricca dote. Accanto all’attività di auditore, il M. trovò comunque il tempo per accettare gli inviti del cardinale Domenico Passionei a Camaldoli e per accogliere con frequenza pensatori e letterati nella sua casa, che divenne la sede di dotte conversazioni. Alle adunanze partecipavano F. Benaglio e R. Cecchetti. Quest'ultimo dedicò al M. la sua opera più impegnata, Degli asili libri tre (Padova 1751). Dopo avere manifestato la gratitudine e le affinità intellettuali e di spirito che lo legano al M., Cecchetti gli riconosce una quasi copaternità dell’opera, nella quale si sostiene che il diritto d’asilo, data la sua presenza presso tutti i popoli, pur non essendo di istituzione divina, si può considerare se non un diritto naturale, una emanazione di esso. La dedica dà inoltre un’idea del tipo di vita del M., impegnato nel lavoro, amante delle lettere e degli studi, ma anche uomo di mondo che conosce e apprezza «i piaceri e comodi della vita». Degli scritti da cui Cecchetti si dichiara sicuro che il M. riceverà futura gloria, i soli stampati sono i quattro tomi delle Decisiones (Biblioteca apost. Vaticana, R.G. Decreti Rotali, III.9), che ne attestano l’azione giudiziaria. Nell’elenco delle carte che nel 1768 gli furono sequestrate dal Senato veneziano, c'erano soprattutto manoscritti sulla storia di alcune città (Milano, Firenze, Padova, Bologna, Ravenna, Cesena), fatto che conferma gli interessi storiografici sulla scia del metodo muratoriano. Altri scritti riguardavano filosofia e morale, altre ancora argomenti giuridici o di architettura (Discorso dell’architetto Palladio sopra la fabbrica del Domo di Brescia, Metodo per scrivere sopra la scienza dell’architettura, Carte in proposito della fabbrica della cattedrale di Treviso).
Alla morte di A.M. Querini, Benedetto XIV nominò il M. vescovo di Brescia. La decisione, presa a fine gennaio 1755, fu ufficializzata nel concistoro del 17 febbraio. Il M. era apprezzato giurista e godeva dell’appoggio di Cappello, ma coprire la vacatio della sede di Brescia fu comunque l’occasione per allontanarlo dalle polemiche sorte attorno a uno scritto di Cecchetti.
Nel 1752 questi era stato incaricato di accompagnare in Francia Antonio Branciforte Colonna e aveva steso una lunga relazione confidenziale, in cui faceva intendere che era stato l’eccessivo zelo dell’arcivescovo Cristophe de Beaumont, oltre che la poca autorità del re, ad avere provocato le gravi turbolenze in campo religioso di quegli anni. Alla fine del 1754 la relazione arrivò all’ambasciatore francese Étienne-François Choiseul-Beaupré de Stainville, che si irritò per il modo in cui veniva descritta la corte francese, oltre che per le questioni di sostanza (si sosteneva che il giansenismo in Francia era sinonimo di libertà e rivendicazione di diritti). Non appena ebbe sentore dal cardinale Prospero Colonna e dallo stesso M. che Stainville si apprestava a catturarlo, Cecchetti scappò (6 febbr. 1755). In una lettera racconta di essere stato spinto alla fuga dai suoi amici e spiega di avere permesso di far copia della relazione «solo a due persone di qualità, delle quali l’antica amicizia, il merito, il grado, l’onestà e la prudenza singolare» (Tomitano, p. 18) gli avevano impedito di negargliela. Uno dei due è Firmian, l’altro non può essere che il Molin.
Il 1° apr. 1755 il M. venne consacrato in Vaticano.
La lettera pastorale fu accolta a Brescia con favore. G.G. Gradenigo, che stava dando alle stampe il suo lavoro sui vescovi di Brescia, inserì una dedica al nuovo presule, nella quale pose l’accento sulla sapienza in campo giuridico e fece un elogio della pastorale, paragonandola per eleganza e maestà a quelle di Leone Magno. Anche lo stampatore G. Rizzardi dedicò al M. uno dei suoi libri (C. Doneda, Notizie della Zecca e delle monete di Brescia, Brescia 1755, pp. 3-10): il M. vi viene lodato come esperto in pittura, scultura e architettura e ne viene ricordata l’erudizione, sacra e profana, testimoniata dalla «copiosa raccolta di anticaglie e di libri, e massime di lessici di tutte le lingue, arti e scienze, che in questo genere è forse l’unica in Roma».
Nell’agosto 1755 la commissione cardinalizia riunitasi per discutere della controversia attorno al decreto del Senato 7 sett.1754, che limitava una serie di prerogative pontificie nel territorio veneziano, consigliò il papa di non inserire alcun veneto nelle successive elevazioni alla porpora, e anche di licenziare il M. dalla carica di auditore, da lui mantenuta come locumtenens. Nel 1757 anche Cappello, mostratosi troppo accondiscendente nei confronti del papa, dovette lasciare Roma; nel luglio 1758 gli fu assegnata la podesteria proprio di Brescia.
Il M. entrò in Brescia il 12 dic. 1755, ben accolto dalla città, ma i primi anni non furono facili. Si pose in cattiva luce per la predilezione per la mondanità e per la trascuratezza per la quotidiana amministrazione episcopale. Conosciamo queste difficoltà grazie alla minuta di un’aspra lettera che G. Mazzucchelli gli scrisse nel luglio del 1756, pensando di inviargliela in forma anonima (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 9278, cc. 309-316). Entrò anche in contrasto con gli amministratori della Biblioteca Queriniana. Al suo arrivo aveva sollevato riserve sulla sua pubblicità e sulla gestione da parte delle autorità civili, ma nel febbraio 1757 i deputati cittadini ottennero dal Senato la conferma dei loro diritti. Al M. andò il titolo di protettore e l’accesso privilegiato ai fondi librari, cosa che lo incoraggiò a patrocinare la nascita dell’Accademia di fisica sperimentale e di storia naturale (1760) e a incrementare anche il patrimonio librario e artistico. Tra il 1757 e il 1758 si registrano da parte sua donazioni di libri, manoscritti, di un bassorilievo in bronzo e di medaglie antiche d’argento. Fra le attività svolte nell’amministrazione della diocesi si ricordano l’istituzione di tre seminari periferici, a Levere, Montichiari e Salò (1759), la fondazione della chiesa del Patrocinio (12 nov. 1762), la consacrazione della chiesa di S. Lorenzo (1° maggio 1763). I rapporti con la Comunità migliorarono presumibilmente già quando il capitano e vice podestà A. Donà, nella sua relazione del 5 maggio 1757, riconobbe lo zelo del M. e il suo contributo al miglioramento della pubblica sicurezza in città e nelle campagne. Il M. pose attenzione anche al seminario. Nella formazione del clero si collocò su una linea di continuità con i predecessori, in stretta osservanza dei dogmi cattolici, ma con un’apertura alle innovazioni. Lasciò che nei seminari circolassero nuovi orientamenti di pensiero e consentì che gli allievi approfondissero senza pregiudizi le questioni teologiche. Non si spiega altrimenti la rapida ascesa di P. Tamburini e di G. Zola, poco più che ragazzi alla morte di Querini, cui il M. permise l’insegnamento già a partire dai primi anni Sessanta.
Clemente XIII Rezzonico creò il M. cardinale il 23 nov. 1761, nella quarta tornata di nomine e dopo che altri veneti erano stati premiati. Il ritardo può essere dovuto alla predilezione del M. per chi, come Tamburini e Zola, tendeva a uscire dagli schemi della scolastica, attirandosi gli attacchi dei gesuiti, o all'eccessiva mondanità da lui mostrata; o forse ancora, ed è l’ipotesi più probabile, agli strascichi dell’episodio che aveva visto come protagonista Cecchetti. Il segretario del M., Antonio Sambuca, nella seconda delle Due lettere alla contessa nob. Marianna Colloredo Crivelli, parla di «notte di alcuni tempi oscuri» (p. 45), in cui la virtù del cardinale si era trovata offuscata. Numerosi i componimenti poetici che gli furono dedicati e grandi i festeggiamenti che seguirono la nomina. A Venezia durarono tre giorni e si tennero nella casa del Traghetto alla Maddalena, a Brescia alcune settimane e furono ricordati per l'arco trionfale progettato da A. Marchetti e decorato da sculture di B. Simoni, edificato nella piazza del duomo (10 genn. 1762).
Anche durante gli anni del cardinalato gli omaggi e le dediche continuarono e il M. mostrò attenzione crescente per le arti. Da un lato l’aumento delle entrate gli consentì di accrescere il lusso della propria vita privata e di provvedere al miglioramento dello status della famiglia, dall’altro poté incrementare l’attività di mecenatismo, anche con fini autocelebrativi.
Negli anni iniziali del cardinalato si fece ritrarre da L. Sigurtà, degli ultimi anni è il ritratto commissionato ad A. Dusi. Raccolse una ricca collezione di pitture (circa 250) che fu dispersa all’arrivo dei Francesi nel 1797. Nel 1760 G.B. Carboni pubblicò un elenco di 34 quadri, tutti di pittori celebri. In campo letterario, il M. ebbe un rapporto privilegiato con D. Duranti, al quale offrì anche aiuto economico. A. Brognoli nel primo canto de Il Pregiudizio, composto nel 1761, si rivolge a lui presentandolo come un amante appassionato delle belle arti e collegandolo allo specifico intento moralistico dell’opera quale difensore della Ragione nella lotta contro il Pregiudizio (il poema, in dodici canti, vide la luce in due distinte edizioni a Venezia e Brescia nel 1766).
Le innovazioni nel gusto letterario non sfuggirono al M.: fra le sue carte troviamo il primo numero della Frusta letteraria (1° ott. 1763), in cui G. Baretti si scaglia contro le pastorellerie dell’Arcadia. Nel novembre 1762 Baretti sostò per alcuni giorni a Brescia, ospite di Duranti e Mazzucchelli, e fu accolto dal M. nella sua casa. Nelle grazie del M. fu anche J. Vittorelli, allora studente presso il collegio dei gesuiti, che dedicò la sua traduzione in versi della Batrocomiomachia al M., ricambiato con il dono di alcuni preziosi cammei e di un anellino d’oro. In contatto con il M. fu anche il poeta L. Savioli.
La vita del M. fu segnata da alcuni fatti privati: la scomparsa di Cappello nel 1763, la malattia che colpì il fratello Sebastiano nel 1765, le cataratte a entrambi gli occhi, che dal 1768 ne indebolirono progressivamente la vista. Un grave errore di comportamento fu nel 1768 quello di uscire in carrozza con una dama dell’alta società: le voci arrivano agli Inquisitori di Stato, che il 6 agosto invitarono il podestà A.M. Priuli II a riferire. La dama con tutta probabilità era Eleonora di Collalto, seconda moglie di Cappello, donna intelligente e volitiva.
Ma altri più gravi avvenimenti dovevano intervenire a sconvolgere l'esistenza del Molin. Il 7 sett. 1768 il Senato deliberò che patriarchi, arcivescovi e vescovi dovessero esercitare le loro potestà sopra tutti i religiosi regolari delle rispettive diocesi e dovessero fare periodiche visite ai monasteri per verificare il rispetto della disciplina. Il papa da parte sua non poteva accettare che il decreto invalidasse la bolla In coena Domini, che affidava ogni controllo sulla vita dei regolari ai generali degli Ordini. La risposta ufficiale arrivò con un breve dell'8 ottobre, accompagnato da una lettera del segretario di Stato L. Torregiani, con la quale il papa richiamava i vescovi all’obbedienza. Questi si dichiararono pronti a seguire il volere del papa, ma per la maggior parte si trattò di un’obbedienza di facciata. Il Senato rispose al breve il 19 novembre respingendo ogni interferenza, e quasi tutti i vescovi cedettero subito alle imposizioni del Senato. Quelli di Vicenza, Crema e Capodistria tergiversarono, ma poi ubbidirono. Solo il M. non si piegò. La mattina del 14 dicembre si diresse in carrozza a Castiglione delle Stiviere, territorio soggetto al governo imperiale, lasciando credere di portarsi a venerare le reliquie di s. Luigi Gonzaga. In realtà, dopo una sosta al collegio dei gesuiti, riprese il viaggio per Mantova, dove fu accolto dal vescovo Juan Portugal de la Puebla. Spiegò le ragioni della fuga in una lettera al podestà di Brescia, che la trasmise al Senato: il M. si disse spinto dalla coscienza, che gli impediva di ubbidire a un ordine contrario alle norme conciliari, alle encicliche papali, al giuramento di fedeltà alle costituzioni apostoliche. Da Mantova partì per Roma, ma, arrivato a Ferrara il 17 dicembre, fu trattenuto dal legato pontificio.
Il Senato, che temeva complotti, il 21 dicembre ordinò a Priuli di sequestrare le missive del M. e quelle a lui dirette, così come tutti gli effetti personali, e di mettere sotto controllo le rendite della mensa vescovile. Datata 17 gennaio è la lista dei documenti ritrovati, ma non fu riscontrato nulla di compromettente. Esauriti i 1000 zecchini che portava con sé, il M. si trovò in necessità di denaro. Da Ferrara scrisse a Roma, facendo presenti le difficoltà e il desiderio di recarsi al più presto ad limina sancti Petri. Clemente XIII gli fece assegnare 1000 scudi dal deposito della mensa arcivescovile di Ferrara e gli promise di riceverlo non appena possibile. Poi però fece scrivere che, essendo cattiva la stagione e non avendo nulla da comunicargli, poteva tralasciare di recarsi a Roma. Il papa si trovava in quel momento in difficoltà. I sovrani aperti ai principî dell’illuminismo avevano abolito diritti d’asilo, immunità, privilegi ecclesiastici, e prospettavano riforme che accentuassero il potere statale a danno dell’autorità della Chiesa. Non era perciò il caso di esasperare i contrasti con Venezia, in questi mesi intermediario fra la S. Sede e Ferdinando di Borbone, duca di Parma e Piacenza, che nel febbraio 1768 aveva soppresso la Compagnia di Gesù.
Con la morte di Clemente XIII (2 febbr. 1769) al M. si aprì la strada per Roma. Durante il viaggio fece sosta a Loreto, ma il governatore F.F. Savorgnan lasciò la città pur di non riceverlo. A Roma trovò alloggio nel monastero di S. Callisto. L’ambasciatore N. Erizzo aveva fatto sapere ai cardinali veneti e agli ambasciatori stranieri che Venezia non avrebbe gradito che essi intrattenessero rapporti con lui. Solo dopo qualche giorno, mossi a compassione dallo stato penoso del M., i cardinali, specie i veneti L. Calini e A.M. Priuli, assunsero un atteggiamento più aperto e si adoperarono per un trattamento rispettoso. Erizzo, per appianare i contrasti, scrisse un dispaccio nel quale, parlando dell’ingresso nel conclave del M. (5 aprile), ne apprezzava il contegno dignitoso. L. Ganganelli, capace di garantire buoni rapporti con le potenze straniere – con l'appoggio su questo punto dei cardinali veneti – fu eletto il 19 maggio e prese il nome di Clemente XIV. La sera stessa chiese personalmente a Erizzo che il Senato rimettesse in grazia il M., consentendogli il ritorno in sede. La riabilitazione fu concessa il 3 giugno, a condizione che egli ubbidisse alle leggi e dunque visitasse i conventi della diocesi. Il 16 Erizzo riferì al pontefice la decisione e il giorno seguente convocò il M., che scrisse una lettera concordata (copia a Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 2522.III.609, c. 78): «vero suddito e concittadino» si mostrava pronto a obbedire al decreto.
Il 26 giugno il pontefice gli conferì il titolo di S. Sisto e una pensione aggiuntiva di 2000 ducati. Trascorsero alcuni mesi, durante i quali il M. sperò di ricevere la reintegrazione delle rendite, ma il Senato la condizionava alla effettiva realizzazione delle visite, nonostante nell’estate 1769 l'imperatore Giuseppe II, in visita a Venezia, si interessasse personalmente del caso, chiedendo notizie del M. al senatore A. Tron. Per la risoluzione formale della questione, Clemente XIV preannunciò un breve che assoggettasse monache e regolari ai vescovi, e finalmente il M., con l’aiuto di sovvenzioni della Camera apostolica, lasciò Roma il 21 sett. 1769.
Il 29 settembre giunse a Brescia e il giorno dopo cominciò a visitare i conventi, iniziando da quello di S. Francesco. Il 7 ottobre il segretario di Stato L. Pallavicini gli inviò il breve promesso e il M. proseguì le visite, interrotte solo all’arrivo della cattiva stagione. La buona volontà era dimostrata: il 14 dicembre il Senato decretò la liberazione delle sue rendite passate e future. In gennaio gli furono rese le carte sequestrate. Il contrasto si poteva dire appianato: il M., sia pur dignitosamente, si era dunque piegato all’obbedienza, recuperando prebende e privilegi. Le vicende trascorse non furono tuttavia esenti da postumi. Per ripagare i debiti contratti durante l’esilio, fu costretto a cedere parte delle rendite. La sua vista andava sempre peggiorando. L’estrazione della cataratta a un occhio (21 ott. 1772) fu eseguita con successo, ma per lungo tempo egli fu costretto a vivere nella cecità. In questa difficile condizione dovette affrontare il deflagrare della polemica antigiansenista. Nel 1771 uscì a Brescia la De summa catholicae de gratia Christi doctrinae praestantia utilitate ac necessitate dissertatio di Tamburini e la polemica si alimentò per la pubblicazione (Brescia 1772) dell’opuscolo Lettere di un curato campestre di C. Muzani, che a sua volta attaccava Tamburini. Nelle lettere a Roma, il M. dimostra di condividere l’azione del papa, volta a un accomodamento con gli Stati che avversano i gesuiti, ma a Brescia, solo un anno prima della soppressione dell’Ordine, si schierò apertamente con loro, contro i simpatizzanti del giansenismo.
L'Autodifesa che Tamburini indirizzò nel 1772 a G. Bottari permette di conoscere la successione dei fatti: grazie all’insegnamento di Tamburini e di Zola, il seminario di Brescia era salito in grande considerazione ed era oggetto del favore del vescovo, ma i gesuiti, colpiti direttamente dalle tesi basate sulla predestinazione, tramavano. Non appena uscì il libro gli si scagliarono contro. Il rettore del collegio di S. Antonio scrisse una lettera al M. in cui la dissertazione sulla grazia era rappresentata come una satira ingiuriosa e piena di errori. Il cardinale è rappresentato nell'Autodifesa come un tomista timoroso cui venisse negato il libero arbitrio e impietosamente viene descritto come fomentato in riunioni serali, anche per opera di dame, in particolare di una, «alla quale il vecchio ancor pargoleggia» (Mantese, p. 188). Ma l’accusa dei gesuiti a Tamburini è anche di rigorismo morale: è considerata eccessiva e ingiustificata la dottrina che l’uomo deve riferire a Dio ogni sua azione, anche la più minuta. Su questo punto, in particolare, i gesuiti infiammarono l’animo del M., che intraprese attraverso il vicario un esame degli scolari. Anche Zola fu fatto oggetto di analoghe accuse e così per entrambi il M. fece stendere rapidamente l’atto di espulsione. Anche grazie a Duranti furono trovati due sostituti e nella primavera del 1773 i due professori partirono per Roma.
Il M. morì il 14 marzo 1773, e fu sepolto nel duomo di Brescia. Per la cattiva salute del vescovo di Bergamo A. Redetti, impossibilitato a celebrare le esequie, e il disinteresse delle autorità veneziane, non furono tributate le consuete onoranze funebri.
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