MOISE, Giovanni
– Nacque il 27 nov. 1820 a Cherso, capoluogo dell’isola omonima nell’arcipelago del Quarnaro (oggi in Croazia). Fu quinto dei sette figli di Benedetto e di Nicolina Petris.
La famiglia, originaria probabilmente dell’Ungheria, apparteneva alla piccola nobiltà locale, era di condizioni agiate e, oltre a diverse proprietà terriere, possedeva il palazzetto gentilizio nel quale il M. nacque e in cui era raccolta una ricca biblioteca.
Terminati gli studi primari a Cherso, nel 1832 il M. (che sin dalla fanciullezza dimostrò un’indole vivace e non priva di bizzarrie, tanto da conquistarsi il nomignolo di «Nane matto») fu mandato a studiare nel ginnasio del seminario patriarcale di Venezia. Dopo aver compiuto gli studi liceali sempre a Venezia (nel liceo di S. Caterina, dove mostrò particolare propensione per gli studi filosofici), nel 1841 si iscrisse alla facoltà di legge di Padova, con risultati assai deludenti. L’anno successivo, presa la decisione di consacrarsi alla vita religiosa, entrò nel seminario patriarcale di Venezia. Tornato a Cherso dopo il triennio di formazione, fu ordinato sacerdote e terminò gli studi teologici nel seminario di Ceneda (oggi Vittorio Veneto).
Agli anni della formazione risale un gruppo di testi poetici del M. che testimoniano la sua conoscenza, vasta e senza preclusioni, della tradizione poetica italiana: un più antico nucleo di componimenti adolescenziali di carattere amoroso (sonetti e canzoni intessuti su stilemi petrarchesco-leopardiani, pubblicati da Tamaro, pp. 113-116) e un poemetto in terzine, in sei canti, La visione di Abdallà, concepito negli anni del seminario, nel quale l’archetipo dantesco è utilizzato secondo gli schemi della «visione» poetica di stampo varaniano-montiano (Abdallà compie un viaggio ultraterreno avendo come guida il profeta Maometto). Il poemetto rimase inedito, su consiglio di N. Tommaseo, cui il M. si era rivolto per averne consigli e che, pur lodandone la lingua e lo stile, lo aveva ritenuto d’argomento arido e monotono. Alla poesia, peraltro, non smise di dedicarsi rivedendo e ampliando il poemetto, indulgendo alla poesia d’occasione e cimentandosi (dietro l’esempio di Tommaseo) nella composizione di versi popolari in lingua illirica (Kolopisme, «Ballate», I, Venezia 1874; II, Capodistria 1875). A questo interesse per la dimensione vernacolare vanno ricondotte la versione in dialetto chersino della novella del re di Cipri (Decameron I, 9) preparata dal M., su richiesta di P. Fanfani, per il volume celebrativo I parlari italiani in Certaldo (a cura di G. Papanti, Livorno 1875, pp. 612 s.) e la lettera a P. Viani sull’origine del proverbio «cercar Maria per Ravenna» (Il Propugnatore, VIII, parte 2a, 1875, pp. 335-343).
Stabilitosi definitivamente a Cherso, il M. iniziò una condotta di vita che sarebbe rimasta sostanzialmente immutata per il resto della sua esistenza, alternando l’operosità di letterato e studioso di lingua alle attività connesse ai suoi obblighi sacerdotali: le non congeniali incombenze amministrative presso la curia vescovile chersina (dalle quali, su sua richiesta, dal 1872 venne del tutto esonerato, cfr. Tamaro, pp. 117 s.) e i ben più graditi incarichi d’insegnamento nei diversi gradi delle scuole ecclesiastiche dell’isola. Dall’insegnamento trasse lo stimolo per approfondire gli studi grammaticali ai quali avrebbe finito per dedicare completamente la sua attività letteraria, mentre (come era già avvenuto per altri sacerdoti esponenti del fronte classicistico-puristico, quali il ben più agguerrito A. Cesari e G.B. Giuliani) la sua condizione sacerdotale orientò in senso religioso e ascetico il suo temperato classicismo letterario, mantenendolo anche completamente al di fuori della temperie e delle problematiche risorgimentali (nonostante i suoi contatti con l’ambiente letterario toscano - da G. Capponi a C. Guasti e P. Fanfani - e con G. Carducci, cfr. Cella, 1967, pp. 26 s.).
Così, nel versante della produzione ascetico-religiosa del M. si possono ricordare: la Vita della serva di Dio Giacoma Giorgia Colombis (Modena 1871; nuova ed., a cura di A. Orlini, Roma 1968), profilo biografico, in stile da agiografia trecentesca, tratto dai materiali raccolti per la causa di canonizzazione della religiosa benedettina (1736-1801) morta nel monastero di S. Pietro presso Cherso; l’Esercizio quotidiano di devozione per la sposa di Gesù (Modena 1874), raccolta di preghiere e salmi tradotti o adattati dal M. per le benedettine dello stesso monastero (delle quali fu confessore dal 1872 al 1876); e l’elegante volgarizzamento, in stile trecentesco, di Quattro operette ascetiche del serafico dottore s. Bonaventura (Firenze 1878).
Un posto a sé occupa il bizzarro libretto Regole del giuoco del quintilio (Venezia 1868), di fatto un manuale del gioco di carte (che come tale fu utilizzato anche dai compilatori del Vocabolario dell’Accademia della Crusca quale fonte per la terminologia dei giochi di carte), ma presentato, secondo un ben noto espediente in questo caso riutilizzato in chiave scherzosa, come tratto da un antico manoscritto e quindi scritto con uno stile che arieggia ironicamente la prosa di Boccaccio, con l’aggiunta, nella conclusione, della Novella e del Lamento (in musica) di Luca Cantore.
A questo gusto per lo scherzo tra erudito e popolareggiante va ricondotta un’iniziativa editoriale cui il M. si dedicò nell’ultimo quindicennio della sua attività: la pubblicazione con regolare cadenza annuale del Lunario istriano (1873-78), continuato nella Strenna istriana (1879-88). Entrambi erano firmati con l’allusivo pseudonimo di Nono Caio Baccelli, ripreso da quello di Sesto Caio Baccelli, con il quale il poeta satirico toscano A. Guadagnoli (assai apprezzato dal M.) aveva pubblicato uno dei più famosi almanacchi ottocenteschi. Si trattava di opuscoli, che godettero di una discreta diffusione, in cui il M., con lo stile disinvolto e spesso ironico di cui dava prova anche nelle sue collaborazioni giornalistiche (tra cui il settimanale L’Istria di Parendo, diretto da M. Tamaro: cfr. Cella, 1956, p. 129), raccoglieva almanacchi, novelle, amenità, dialoghi sulla lingua, racconti dei suoi viaggi.
L’opera più impegnativa condotta a termine dal M., e quella a cui resta legato il suo nome, è certamente la Grammatica italiana, nata dalle sue esperienze di insegnamento, ma realizzata, attraverso quattro edizioni, nell’arco di un quarantennio, con un’incessante attività di spoglio personale degli autori e dei testi dell’intera tradizione letteraria, grammaticografica e lessicografica italiana, che egli, operando in una località isolata, aveva dovuto innanzitutto raccogliere integrando cospicuamente la biblioteca di famiglia.
Sin dalla prima edizione, in tre volumi (Ortoepia e ortografia; Etimologia [= morfologia]; Sintassi), pubblicati a Venezia nel 1867 e dedicati «agli studiosi giovenetti», l’opera si segnalava per la sua estensione (circa 1500 pagine) e quindi per l’ambizione di soddisfare il «bisogno che [aveva] l’Italia d’una buona grammatica» (I, p. XIII), ispirata, cioè, a criteri scientifici e utile tanto agli studenti quanto alle persone colte. A quest’ultima finalità il M. cercava di rispondere con l’accorgimento grafico di stampare in corpo più grande «le regole e osservazioni elementari» e in corpo minore e spesso in note a piè di pagina o a fine di capitolo gli approfondimenti e le discussioni, costantemente risolte con il ricorso all’«autorità di classici esempi» (I, p. XII). Quanto ai criteri ispiratori, il M. si rifaceva apertamente alla grammatica «ragionata» francese e in particolare all’opera di N. Beauzée (che ebbero una certa fortuna in Italia nell’Ottocento: cfr. Mortara Garavelli, pp. 223-262) intendendo proporre una grammatica filosofica che oltre a insegnare le regole pratiche dello scritto e del parlato, «spiegasse la ragione di queste regole» (I, p. VIII), soffermandosi su aspetti trascurati dalla tradizione grammaticale (come la teoria delle concordanze e delle reggenze) per evitare di ridurre lo studio grammaticale a un «tormentoso sforzo di memoria» (I, p. IX). Con tali buone intenzioni, però, contrastano l’esame minutissimo di tanti fenomeni grammaticali, la stessa ricchezza di annotazioni (che se per un verso costituiscono uno dei pregi dell’opera, per l’altro la rendono difficilmente utilizzabile da un pubblico di giovani studenti) e, soprattutto, l’infelice idea di adottare, per di più estremizzandone alcuni aspetti, la riforma ortografica proposta nella Lessigrafia italiana (1843) di G. Gherardini, che rende di difficile utilizzazione l’opera e che fu l’aspetto su cui maggiormente si appuntarono le critiche dei contemporanei.
Tenendo conto di queste, il M., abbandonato il tentativo di riforma ortografica, dapprima ne preparò un compendio in un volume, dedicato «ai fanciulli» delle scuole primarie (Grammatichetta della lingua italiana, Firenze 1874) e a cui arrise un discreto successo editoriale, poi si dedicò a un’approfondita revisione dell’edizione maggiore, che ripropose, con diverse integrazioni, in un unico volume (ibid. 1878). Infine, ne preparò una versione intermedia, cui diede il titolo di Regole ed osservazioni della lingua italiana (ibid. 1884, che riecheggiava quello della grammatica settecentesca di S. Corticelli), destinata al pubblico degli studenti delle scuole medie superiori e dell’università, ma che non ebbe la fortuna sperata dal M. non tanto perché egli non riuscì a farla adottare come libro di testo, ma soprattutto perché, pur ricca e utile, appariva ormai attardata rispetto a opere quali, in primis, la Grammatica e la Sintassi di R. Fornaciari (1879-81) aperte alla descrizione dell’uso vivo e alle novità metodologiche della linguistica storica che si veniva sviluppando specialmente in Germania. Lo stesso M., peraltro, durante la preparazione dell’ultima edizione della sua grammatica si era proposto di riformularla sulla base dei lavori di F. Diez, ma, anche su consiglio di Fornaciari, dovette abbandonare il progetto, per il quale non aveva sufficienti nozioni tecniche (cfr. Tamaro, pp. 213-220).
Conclusa la vicenda editoriale della grammatica, tra il 1885 e il 1886 intraprese una serie di viaggi in diverse città italiane (Firenze, Pisa, Lucca, Bologna, dove fu ricevuto da Carducci, e Ravenna, dove visitò la tomba di Dante) sia per conoscere molti dei suoi corrispondenti, sia per consultare alcuni specialisti in oculistica sulla malattia agli occhi che da qualche tempo lo affliggeva.
Tornato a Cherso, il M. morì per le conseguenze di una caduta il 6 febbr. 1888.
Fonti e Bibl.: Essenziale per la ricostruzione della biografia del M. è l’ampia trattazione di M. Tamaro, Di un grammatico istriano: G. M., in Atti e memorie della Società istriana d’archeologia e storia patria, VI (1890),1-2, pp. 105-264, in cui si danno indicazioni sulle carte del M. confluite nell’archivio di famiglia e sono pubblicati molti documenti, lettere e testi inediti affidati a Tamaro dallo stesso M. (sui rapporti tra Tamaro e il M., cfr. S. Cella, Giornalismo e stampa periodica in Istria, ibid., n.s., IV [1956], p. 129). Le quattro edizioni della grammatica italiana del M. sono integralmente consultabili nella sezione Biblioteca digitale del sito internet dell’Accademia della Crusca. Municipio di Cherso, Nel primo centenario della nascita del grammatico G. M., Pola 1921 (con interventi, tra gli altri, di P.G. Goidanich e G. Quarantotto); I. Cella, Un filologo giuliano, l’ab. G. M. e Venezia (con una lettera inedita di N. Tommaseo), in Deputazione di storia patria per le Venezie, Atti dell’assemblea del 29 giugno 1967, Venezia 1967, pp. 15-36; L. Serianni, Il secondo Ottocento: dall’Unità alla prima guerra mondiale, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, VII, Bologna 1990, pp. 66 s.; V. Glavinić, L’abate letterato chersino G. M., in Atti. Centro di ricerche storiche - Rovigno, XXIII (1993), pp. 357-369; P. Manni, Dal toscano all’italiano letterario, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni - P. Trifone, II, Scritto e parlato, Torino 1994, p. 335; M. Catricalà, L’italiano tra testualità e grammaticalizzazione. Il dibattito linguistico-pedagogico del primo sessantennio postunitario, Firenze 1995, pp. 120 s. e ad ind.; B. Mortara Garavelli, Ricognizioni. Retorica, grammatica, analisi di testi, Napoli 1995, ad ind.; P. Benincà, Piccola storia ragionata della dialettologia italiana, Padova 1996, p. 73; S. Lubello, Storia della riflessione sulle lingue romanze: italiano e sardo, in Ein internationales Handbuch zur Geschichte der romanischen Sprachen, a cura di G. Ernst et al., Berlin-New York 2003, p. 215; S. Fornara, Breve storia della grammatica italiana, Roma 2005, pp. 97-99; G. Patota, «Come io» / «come me», il lavoro di Bembo e la deriva normativa, in Zeitschrift für romanische Philologie, CXXIV (2008), pp. 283-317; A. De Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, p. 725.