MICHIEL, Giovanni
MICHIEL, Giovanni. – Nacque l’11 ott. 1516 a Venezia da Giacomo (1494-1551) di Girolamo e Laura di Francesco Gritti.
Era il secondo di almeno sei figli maschi della coppia: Girolamo (1514-82; da identificare forse con il sopracomito che, con un energico intervento antiturco nel 1537 al largo di Corfù, compromise delle trattative di pace appena avviate delle quali era ignaro, di cui in M.P. Pedani, In nome del Gran Signore. Inviati ottomani a Venezia …, Venezia 1994, p. 150); Vincenzo, nato nel 1517 e presto scomparso; Fantin (1518-89); Francesco (1520-71); un altro Vincenzo (1521-81). D’un qualche rilievo la figura paterna nella Venezia del primo Cinquecento: più volte in Senato, almeno due volte capo del Consiglio dei dieci, provveditore all’Arsenale, provveditore alle Biave, nel febbraio 1524 fu, con 2000 ducati, «tra li piezi» del banco Pisani e, nel 1529, con 1000 ducati, tra quelli del banco di Bernardo Maffio; e fu tra i commensali del sontuoso banchetto offerto, il 7 giugno 1528, dal cardinale Francesco Corner. Non è da confondere coi coevi Giacomo Michiel di Vettor socio della Compagnia della calza degli Immaturi nel 1507 e Giacomo Michiel di Tomà capitano di Brescia nel 1517-18; non è di certo egli il capitano di galea «Jacomo Michiel» incontrato da Francesco Grassetto il 23 sett. 1511 (cfr. Viaggio … nell’anno 1511 …, a cura di E. Cerulli, Venezia 1886, p. 18).
Estratta il 4 dic. 1538 la balla d’oro, il M., tra i «nobili rimasti», alla fine del novembre 1550, sostituì l’ammalatosi ambasciatore straordinario Leonardo Contarini nel porgere, a Genova, il saluto della Serenissima a Massimiliano d’Asburgo. Il 12 sett. 1553 fu designato ambasciatore straordinario per felicitarsi, a nome della Serenissima, con la neoregina d’Inghilterra Maria Tudor. Ma, con la commissione del 27 marzo 1554, fu nominato non più semplice latore di congratulazioni per l’assunzione al trono e per l’imminente matrimonio col principe di Spagna Filippo, ma ambasciatore a pieno titolo della Repubblica, incaricato di ribadire l’esultanza di questa per il ritorno del Regno all’obbedienza alla Sede apostolica.
Giunto a Londra il 22 maggio, nei dispacci informava di come, durante la messa pasquale del 1553, a Westminster un popolano fosse insorto contro l’«idolatria» delle cerimonie cattoliche, dell’arrivo (il 19 luglio 1554) della flotta spagnola con a bordo lo sposo, delle continue «ritentioni», dei «prigioni in torre», delle congiure scoperte e represse, dei tanti «fatti morir», del supplizio di Cromwell, delle condanne senza remissione, delle spietate sentenze, dei roghi sempre pronti per gli eretici, d’un incrudelire persecutorio lungo il quale non si rinunciava a bruciare uomini e donne. Sconcertato e turbato il M. nel constatare una fede che faceva affrontare la morte, che sfidava i giudici, non temeva le fiamme, mentre vacilla la sua certezza che il cattolicesimo faccia progressi e stia «pigliando radice». Lungi dallo sparire, l’eresia resisteva nelle coscienze di molti. E mentre la regina «più presto stretta e miseretta» che «larga e liberale» s’affidava al governo effettivo di Reginald Pole, in assenza del «parto» dell’agognato erede appariva scontata la successione di Elisabetta.
Autorizzato il 5 dic. 1556 al rimpatrio, il M. lasciò Londra all’inizio del febbraio successivo per tornare, via Bruxelles, a Venezia, dove, nel maggio, riferì in Senato.
Eletto il 4 giugno 1557 rappresentante veneto in Francia, ripartì, munito della commissione del 6 ottobre, e arrivò a Parigi il 3 dicembre per ripartirne, ancorché si fosse accomiatato il 5 dic. 1560, solo dopo l’incoronazione di Carlo IX del 15 marzo 1561.
Stando alla sua relazione al Senato, con tutta probabilità dell’aprile 1561, la Francia è ridotta «in malissimo termine»: contaminata ogni sua provincia dall’eresia; e in circa tre quarti del Regno si tengono assemblee e culti secondo i riti e i modi di Ginevra. Il contagio del calvinismo starebbe infettando ogni genere di persone, non risparmierebbe gli ecclesiastici e investirebbe in pieno la nobiltà, specie gli esponenti al di sotto dei quarant’anni, mentre nella plebe e nel popolo minuto prevarrebbe la fedeltà alla fede avita. E mentre sempre più esasperata è la tensione tra Borbone e Guisa, il potere resta alla reggente Caterina de’ Medici che esercita «come s’ella fosse re», con «gran cuore», con «gran ardire» e con quella capacità simulatoria e dissimulatoria che rientra nell’«uso» dei Medici, soprattutto di papa Leone X.
Nominato, il 12 maggio 1561, ambasciatore presso l’imperatore, avuta la commissione del 20 settembre, il M. a fine mese partì per Vienna per raggiungere l’imperatore, che avrebbe poi seguito nei suoi vari spostamenti soggiornando anche a Praga, a Francoforte (nell’ottobre 1562), a Innsbruck (tra fine febbraio e metà marzo del 1563), sino all’inizio del giugno 1564.
L’armonia dei rapporti veneto-imperiali era turbata dal contenzioso ai confini, alimentato dalla mancanza di una condivisa netta linea divisoria. Un cruccio per i cesarei che Venezia detenga Marano, Lignano, Sant’Andrea e il porticciolo dell’Anfora; una provocazione intollerabile per la Serenissima l’aggressività del capitano di Gradisca. A complicare il «negozio dei confini» – in merito al quale il congresso di Udine del 2 apr. 1563 risultò fallimentare: senza aver raggiunto alcuna conclusione, i commissari d’ambo le parti si congedarono ancor più «discordi» – concorse, dalla parte dei sette Comuni, il monte della Marcesina. E, al solito, in ballo la giurisdizione adriatica. Quanto all’Impero, secondo la relazione del 22 luglio 1564 del M., tanto è esteso, altrettanto è disomogeneo. Manca un’«absoluta auttorità et potestà» capace di attivarlo a mo’ di macchina complessiva funzionante simultaneamente. L’imperatore è impossibilitato a valersi delle forze di cui virtualmente dispone: occorre, se vuol mobilitarle, il loro consenso. Né può imporre carichi contributivi se non contrattando, patteggiando con le diverse componenti della Dieta, donde una penuria delle finanze che inibisce ogni iniziativa energica e di respiro.
Rieletto l’11 marzo 1566 rappresentante della Serenissima a Vienna, il M. partì a fine settembre, dopo che il 7 gli era stata consegnata la relativa istruzione nella quale gli si raccomandava di reclamare energicamente – pur nella cornice della «conservatione della buona amicitia» – pei «danni» apportati dai pirati uscocchi.
A Vienna risiedette dal novembre 1566 alla fine di settembre 1571, avendo così modo di presenziare il 24 agosto di quell’anno alle nozze dell’arciduca Carlo, fratello dell’imperatore, con Maria di Baviera. Poté insistere, inoltre, nel tentativo di persuadere l’imperatore ad aderire alla Lega antiturca, sebbene Massimiliano non avesse intenzione di rompere la pace di Adrianopoli del 7 febbr. 1568. Egli, d’altronde, come riporta il M. nella relazione letta in Senato il 24 nov. 1571, aveva oggettiva difficoltà a muoversi nei suoi «stati» per «questa causa di religione»: l’eresia – gli aveva confidato Massimiliano a metà dicembre 1567 – è «un male» non domabile con la forza; meglio affrontarlo con duttilità, con ragionevole pacatezza. Rispetto a queste posizioni, la politica di Pio V appare di forsennata e sconsiderata intransigenza; al più – concedeva Massimiliano in un successivo colloquio con il M. del 25 nov. 1568 – quel pontefice «saria buono inquisitore et buono per governare uno monasterio»; ma quello di «governare il mondo è un mestiere diverso» che non s’addice a un papa fanatico, incapace di moderazione, di saviezza.
Il 5 luglio 1572 il M. fu inviato ambasciatore straordinario in Francia, col compito di esprimere al re «l’ardente desiderio» di pace della Serenissima e la conseguente preoccupazione «pei moti di guerra […] nella Fiandra», forieri d’una rottura franco-ispana tale da compromettere, di riflesso, l’esito della grandiosa intrapresa antiottomana in atto.
Il viaggio a tappe forzate dell’ormai in là cogli anni M. (raggiunse Parigi il 24) era forse superfluo, trattandosi di andare a ripetere considerazioni che l’ambasciatore ordinario Sigismondo Cavalli aveva esposto con insistenza. Ma scopo segreto della missione del M. era quello di sondare l’atteggiamento della Francia nell’eventualità d’una pace separata della Serenissima con la Porta. Non potendo partire subito da Parigi perché si era ammalato Cavalli, ebbe modo d’essere spettatore diretto della strage, del 24 ag. 1572, di S. Bartolomeo, riferendone già in un dispaccio del 25 agosto e nei dispacci successivi del 27, 28, 31, per poi, nei dispacci del 5, 9, 13 settembre assicurare che non ci fosse pericolo di riscossa ugonotta. Aveva voluto la carneficina – spiega il M. – Carlo IX, che poi aveva ordinato d’estenderla alle altre città del Regno; ed eseguito il macabro ordine regio soprattutto a Rouen, Mans, Chartres e Orléans. Già l’11 settembre il Senato rivolgeva i complimenti al re, esprimendo soddisfazione «per il successo dell’estintione dei nemici della […] fede cattolica»; e ingiungeva, sempre quel giorno, al M. – che, a ogni buon conto, ancora il 28 agosto, nella certezza di anticipare il plauso della Serenissima, si profondeva con Carlo IX nella più calorosa «congratulatione» – e a Cavalli di esprimere a viva voce i sentimenti di palazzo ducale tanto al re quanto a sua madre. Stando alla relazione dell’11 novembre del M., era a questa che spettava la responsabilità dell’iniziativa, dall’ideazione alla messa in atto; e più che Carlo IX, era stato suo complice il futuro Enrico III, l’allora duca d’Angiò.
Membro del quartetto d’insigni patrizi – formato da lui, Andrea Badoer, Giacomo Foscarini, Giovanni Soranzo – incaricato, in occasione del transito, del 6-29 luglio 1574, d’Enrico III di Valois, di scortarlo da Venzone a Venezia per poi accompagnarlo a Rovigo, il M., il 18 marzo 1575, fu designato – con Giovanni Soranzo poi sostituito, il 20 maggio, da Andrea Badoer – ambasciatore straordinario in Francia a felicitarvisi, a nome della Serenissima, per le nozze del re con Luisa di Lorena.
Partito in pompa magna – con 60 cavalli, una ventina di staffieri, personale di servizio, carriaggi trainati da 12 muli – all’inizio d’agosto da Padova, entrò a Parigi il 23 ottobre con una cerimonia solenne e fastosa. Enrico III, che intendeva ricambiare la strepitosa accoglienza veneziana del 1574, dispose che il M. entrasse in un cocchio «dorato e principalissimo» scortato da 600 cavalieri. Altrettanto solenne fu l’udienza speciale del 26.
Protratta la permanenza sino a novembre, una volta a Venezia – dove, ancora il 10 ag. 1575, era stato eletto capo del Consiglio dei dieci – il M. presentò, all’inizio del 1576, una relazione con la quale azzardava un’esegesi della confusa situazione del Regno: più che di «ugonotti», a suo avviso, è il caso di parlare di un malessere diffuso, di «malcontenti» che, numerosi tanto tra i cattolici quanto tra i calvinisti, sono «nobili», «cittadini», «borghesi»; e la guerra «non è più per religione», ma «per il ben publico».
Con Leonardo Donà – che capeggiava la corrente dei «giovani», mentre il M., consigliere nel 1574, 1577, 1578 (con riserva) e savio grande nel 1575, 1576 (con riserva), era tra i più autorevoli tra i «vecchi» – fu inviato ambasciatore straordinario al neoimperatore Rodolfo II, cui attestare, come vuole la commissione del 30 maggio 1577, e il dolore per la scomparsa del padre e l’esultanza per la sua successione.
Il 28 giugno 1578 fu nominato ambasciatore straordinario in Francia, a sottolineare, come precisa la commissione del 29, quanto Venezia fosse in apprensione per la «risolutione» del fratello del re «monsignor d’Alenson» di «andare in Fiandra chiamato dalli stati in loro aiuto», che rischiava di diventare un «accidente» dirompente per «la buona intelligentia et amicizia» con la Spagna. Nell’udienza del 18 luglio, esponeva ai reali il pericolo dell’avventatezza di Ercole Francesco di Valois, che, con «pregiudizio alla quiete e al riposo», par voglia mettersi a capo della ribellione antispagnola degli «stati di Fiandra». Una eventualità paventata pure da Enrico III e da Caterina, che autorizzarono il M. a tentare di indurre alla ragionevolezza il duca, ormai fuori del loro controllo. Una settimana dopo, a Mons, il M. incontrò il duca ma, nonostante gli argomenti spesi dal M., la mediazione tra questo e il re fallì e la missione si concluse infruttuosamente.
L’11 luglio 1579 fu destinato, con Antonio Tiepolo, a «far officio di congratulatione» a Bianca Cappello, proclamata, il 30 giugno, «vera et particolare figliuola» della Serenissima. Partiti il 22 settembre da Padova, i due – passando per Bologna, dove visitarono il vescovo cardinale G. Paleotti – giunsero il 30 a Firenze e furono ricevuti dal granduca il 1° ottobre e, quindi, il 3 da una Cappello tutta «drappi d’oro e d’argento», tutta ingioiellata. Nel fastoso sposalizio del 12, la già avventuriera in fuga da Venezia incedeva all’altare in mezzo a Tiepolo e al M., che poi, per conto di Venezia, la incoronò con una preziosissima corona ducale.
Procuratore di S. Marco il 18 ag. 1580, il M. – e così più nettamente distinguibile dagli omonimi quali il Giovanni Michiel di Salvador provveditore alle Cazude e, nel 1569, console ad Alessandria; il Giovanni Michiel di Piero rettore a Bassano nel 1587-88; il Giovanin Michiel di Sebastian rettore a Treviso nel 1577-78; il Giovanni Michiel di Iseppo eletto nel gennaio 1584 console ad Aleppo – fu nominato il 12 sett. 1581, con Giacomo Soranzo, Paolo Tiepolo, Giovani Correr, ambasciatore all’imperatrice Maria d’Austria, la vedova di Massimiliano II e madre di Rodolfo, in occasione del suo passaggio per il territorio della Serenissima, diretta in Spagna.
Venendo incontro alla disponibilità cesarea di eliminare le persistenti controversie confinarie, il 4 nov. 1582 fu nominato con Giovanni Gritti «procuratore in corte cesarea», dove giunse il 30 dicembre.
Lo attendeva una «difficilissima» lunga «trattatione» a Vienna e, più ancora, a Praga, nella quale la controparte era rappresentata dall’arciduca Ernesto, dai procuratori arciducali, dal consigliere aulico e vicecancelliere Massimiliano Dorimbergh. Troppo distanti – lungo il puntiglioso «ragionar» del serrato confronto sul «confin certo» – le proposte e controproposte avanzate da ambo le parti. Disponibile, per bocca del M. e di Gritti, Venezia anche a ceder «luoghi», ma non Monfalcone. E se i due insistono sull’Isonzo quale linea di demarcazione, gli arciducali, pur di includere Monfalcone, s’intestardiscono a proporne un’altra così da «arrivare al Timavo». Sondata, nelle continue riunioni ai fini dell’«amicabil composizione», l’eventualità della «ricompensa», non senza però che gli arciducali introducano la pretesa – inaccettabile per la Serenissima – dell’esenzione, per navigli austriaci, dell’obbligo di «condursi a Venetia». Ipotesi, comunque, a tutta prima praticabile quella della permuta di «luoghi». Ma, allorché si tratta di precisarla, lo scambio si rivela ineguale: Venezia dovrebbe consegnare località importanti, fortezze, luoghi di passo per «poche ville» di poco conto e per di più in un’area suscettibile di rivendicazioni di giurisdizione da parte del patriarca d’Aquileia. Lo sperato «amichevol» accordo è irrealizzabile e a forza di discutere c’è addirittura il rischio di «renovar contese già sopite». Il Senato, di buon grado, acconsentì, il 19 genn. 1585, alla licenza di rimpatrio chiesta dai due ambasciatori, che lasciarono Praga alla metà di febbraio del 1585.
Savio del Consiglio il 30 sett. 1586 e di nuovo il 29 sett. 1588, il M. fu più volte riformatore allo Studio di Padova. Già contattato da Bernardino Verteman, un uomo d’affari svizzero operante a Venezia, all’inizio del 1589, il 9 giugno il Senato gli conferì l’autorità di «trattar e negociar» con Giovanni Salis, ambasciatore delle Tre Leghe a Venezia, la capitolazione fra la Repubblica e, appunto, i Grigioni. I due in breve concordarono una convenzione, ma la stesura originaria – una volta valutata dalle Leghe – fu, a inizio luglio, fortemente ritoccata con limitazioni, deroghe, eccezioni. Sicché il M., il 13 settembre, scrisse a Salis protestando per «l’importante alteratione nelli capituli» d’una «capitulazione» ritenuta da lui «già accordata». Comunque, il Senato, il 26 ottobre, segnalò – tramite il M. – la propria disponibilità a una riformulazione però limitata all’inizio del testo e che non intaccava la sostanza della prima stesura. Troppo poco per le Leghe. Per il momento, quindi, il progetto di una vincolante alleanza fu accantonato. E a Salis non restò che lamentarsene, il 9 apr. 1590, con una lettera al M., con la quale chiese il rimborso di tutte le spese sostenute per propagandare l’alleanza tra i suoi compatrioti, specie nel «far tuor cinque congregattioni over diette».
Non sposato e senza eredi diretti, il M., l’8 genn. 1596, testò a favore dei nipoti Giovanni ed Elisabetta, sposa di Zaccaria Morosini di Alvise, figli del defunto fratello Francesco. Morì a Venezia il 26 dic. 1596.
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G. Benzoni