BUSSEDI, Giovanni Maria
Nato da Siro e Francesca N. (sic), "poveri, onestissimi genitori", in Pavia il 18 ott. 1802, vi si addottorò in legge il 10 ag. 1821. Pensò quindi ad abbracciare la carriera legale o forense negli Stati sardi, in quanto risiedeva allora a Garlasco (Lomellina), terra appunto della monarchia sabauda (e n'ebbe poi fastidi per mancato servizio militare, sin quando la pratica non fu risolta favorevolmente, o comunque archiviata, per l'intervento personale, si disse, di re Carlo Alberto). Ma il suo amico, e futuro professore pavese (e futuro "biografato" del B.), Girolamo Turroni fin dall'estate-autunno del 1822 riuscì a persuaderlo alla doppia rinunzia: tanto alla professione forense quanto alla residenza negli Stati sardi, per trovare, invece, più acconcia, e a lui più congeniale, occupazione nell'insegnamento lombardo. Il B. fu così insegnante privato, fra Pavia e Milano, dal 1824 al 1838. Per undici anni professò grammatica nel collegio convitto di San Salvatore e umanità nel seminario vescovile di Pavia.
Godette l'amicizia e la stima del vescovo Luigi Tosi, e fu, dunque, in relazione intrinseca con uomini, come il Tosi appunto e il prof. Carlo Magenta, suo postumo lodatore, ch'ebbero gran parte nella storia religiosa italiana, soprattutto nella storia della conversione, del giansenismo e della vita religiosa di Alessandro Manzoni. Ond'è a chiedersi, e a tal fine sarebbe anzi utile uno spoglio sistematico delle carte bussediane, se non fosse anch'egli proclive al giansenismo e comunque partecipe di quel movimento giansenistico-liberale-riformatore che caratterizzò la miglior parte del colto clero pavese.
Al suo insegnante il Tosi scriveva il 25 sett. 1835: "Ella sa quanto conti sopra di Lei, e me Le affido pienamente pel profitto e di esempio e di ammaestramento de' miei poveri alunni".
Forse la stessa benevolenza del vescovo di Pavia, oltre gl'intrinseci meriti del B. nel campo degli studi classici, gli meritarono fra il 1833 e il 1837 l'esercizio della supplenza nell'insegnamento universitario di letteratura e filosofia greca (titolare della cattedra il prof. Zuccala, alla cui morte il B. sperò di succedergli; diede al concorso ottima prova di sé, ma gli fu preferito, come più anziano, il Levati). Appunto la nomina del Levati alla cattedra di Pavia lasciò scoperta la cattedra di filologia latina e storia universale nel liceo milanese di Porta Nuova, alla quale il B. fu nominato nel 1838. La tenne con ogni onore, e non senza esercitare una vastissima e benefica influenza insegnativo-culturale in Milano, ben oltre l'ambito della sua scuola fino al 1845. E appunto nella sua veste di professore milanese diede alle stampe, se non l'unica, certo la maggiore delle pochissime scritture da lui edite (per la più parte, elogi ed epigrafi): il discorso Intorno all'ordine e all'importanza degli studi de' licei (Milano 1844), che il B. lesse "per l'aprimento dell'anno scolastico 1844-45", richiestone dal direttore del liceo, il conte Folchino Schizzi (al quale il discorso medesimo venne dedicato dal Bussedi).
Singolarissimo, e fors'anche intrinsecamente contraddittorio, è l'atteggiamento metodico-speculativo-culturale del B. in questo suo discorso, è quasi professione di fede. Vi mantiene, bensì, da ossequente e praticante cattolico, l'inferiorità d'ogni forma di attività intellettuale umana, vuoi scientifica vuoi filosofica, rispetto al trascendentalismo (donde l'impossibilità d'ogni conoscenza assoluta logico-concettuale, epperò appunto "umana" dell'universo); né da questo punto di vista quindi stupisce che il B. prenda posizione contro l'innominato idealismo germanico. Ma stupisce e piace, nel B., l'aperta rivendicazione della filosofia sperimentale, ond'egli elogia "il grande Bacone" (p. 15), non senza affiancargli Galileo, anche perché mediatore, quest'ultimo, fra Bacone e Newton (pp. 20 s.), non si perita di citar Comte né di negare carattere se non meramente descrizionistico e descrittivo alla storia naturale (e all'insegnamento della medesima), affermandone quindi l'inferiorità, come l'inferiorità dell'esperienza e della filosofia sperimentali, rispetto alla filosofia tout court, cioè all'attività costruttiva, e in ultima analisi creativa, dello spirito umano, della ragione, quantunque doverosamente consapevole dei propri limiti e della propria subordinazione alla fede. Non di meno, si direbbe ispirandosi alle più pure tradizioni del più ottimistico e virile "idealismo", il B. rivendica alla filosofia il merito, il compito e il vantaggio d'essere l'unico efficace rimedio contro il "male del secolo". Curiosamente, la parte forse più criticabile o meno felice del discorso del B. è proprio quella ove tocca di materie da lui professionalmente professate. Perché, mentr'è meritevole che identifichi la sostanza dell'insegnamento umanistico nell'osservanza e continuità della "tradizione"; mentr'è meritevole che lo studio del latino risulti in queste pagine del B. affrancato da qual si voglia praticismo od orgoglio municipale od orpello politico-retorico, ed è non meno meritevole ch'egli raccomandi lo studio del tedesco e tessa l'elogio "de' due fratelli Grimm"; certe osservazioni sull'antica storiografia, da lui giudicata ristretta "in angusti confini, sia che si contentasse d'una vista troppo particolare di fatti o di persone, sia che mirasse a nudrir passioni esclusive, e innanzi a tutte la superbia della potenza" (p. 31), tradiscono quel difetto di storicità e quella intima incapacità non di trascendere il livello comune dei classicisti e maestri nostrali (a cui il B. fu per certo intrinsecamente assai superiore), ma d'intendere adeguandovisi le potenzialità o le conquiste della filologia storicistica romantica, da cui è probabile che il B. si sentisse in ultima analisi costretto al silenzio: e vivesse, pertanto, e morisse, giusta l'efficace immagine del Canna, pressoché "inedito".
Politicamente non impegnato, e forse genericamente austriacante, ma non servile, ebbe allievi devotissimi e fedeli tanto in campo "moderato", come Giuseppe Ambrosoli e Carlo Landriani, quanto in campo democratico-progressivo, come l'eroe di San Fermo, Carlo De Cristoforis. Sposo di Luigia Staurenghi, i cui fratelli furono per la maggior parte benemeriti dell'istruzione lombarda, e perciò appunto amici del "manzoniano" Rossari, il B. tornò a Pavia nel 1845, come bibliotecario dell'università, e dal '47 anche direttore della facoltà filosofica (donde fu rimosso nel '59, mentre nel 1860 chiese il collocamento a riposo dalla biblioteca, dopo avervi addestrato valentissimi dipendenti e amministratori, quali il Bertolani e il Dell'Acqua). Nel decennio pavese fu anche severissimo ed integerrimo presidente della commissione esaminatrice lombarda per gli esami degli aspiranti alle cattedre ginnasiali. Pensionato il 6 giugno 1863 con 846 lire annue, trascorse in austera ed onorata povertà i suoi ultimi anni, operoso nel copiare e raccogliere (in vista, forse, d'un'edizione che non stampò mai) le iscrizioni ticinesi; e questo lo mise fra il 1867 e il 1869 in relazioni personali ed epistolari col Mommsen, che non mancò di render pubblico il suo attestato di alta stima per il B.; il quale, tuttavia, "se non mancava d'applicazione, difettava però notevolmente sia di capacità tecnica sia di quell'attitudine ad esser sempre ugualmente esatto che nasce da lunga disciplina mentale" (Ageno). Redasse anche una cronica pavese (dal 1º genn. 1864) e larghi estratti di letture in vista di un'opera insegnativo-morale che poi non scrisse.
È significativo del B. che, scevro di municipalismo e di panlatinismo, poco sensibile o persuaso, per esempio, della scoperta mommseniana d'una presunta, e improbabile, origine "pavese" di Cornelio Nepote, informato, nonostante le sue professioni d'ignoranza, del tedesco e di cose germaniche; divinatoriamente convinto della "vanità (come scriveva al Mommsen il 30 nov. 1868) di chi presumesse di fare alcun notabile progresso nell'epigrafia col solo aiuto di libro"; sinceramente ammirato dell'ardimento e della tenacia del maestro d'oltr'Alpe, ed alienissimo perciò (e per certa sua manzoniana medietas)dall'aggregarsi alla varia canea degli antimommseniani coevi, non mostrasse, tuttavia, né conoscenza né consenso per l'opera propriamente storiografica, anziché tecnico-erudita, del Mommsen. E se egli promosse gli studi latini del suo punto spregevole e precocemente scomparso allievo ed amico Cesare Tamagni, se giovò all'istruzione classica e al potenziamento scolastico-educativo della sua Lombardia, era, praticamente, già un sopravvissuto e un superstite, con poche speranze per l'avvenire culturale della nuova Italia, quando venne a morte in Pavia, dopo brevissima infermità, il 6 luglio del 1869.
Le sue carte, collazioni, trascrizioni, ecc., nonché il copioso carteggio, furono per intercessione precipua dell'allora vicebibliotecario Carlo Dell'Acqua cedute il 1872 dalla famiglia alla Biblioteca universitaria di Pavia, dove tuttora sono conservate, e donde trassero importanti "spigolature" il Canna e l'Ageno.
Fonti e Bibl.: Comune di Pavia, Stato civile; A. Buccellati, Commem. di G. M. B., in Rend. d. Ist. lomb., s. 2, II (1869), pp. 882-893; G. Canna, Scritti letter., Casale 1919, pp. 339 ss. (già nei Rend. d. Ist. lomb., s. 2, XX [1887], pp. 531-542; XXI [1888], pp. 598-612); M. De Bernardi, Un secolo di erud. pavese, in Boll. stor. pavese, II (1939), pp. 161-165. Per gli studi epigrafici del B. e le sue relazioni col Mommsen (ricordo autografo degl'incontri, lettere, ecc.), cfr. il saggio calpitalissimo di F. Ageno, L'Appendix Mazochii Ticinensis, in Boll.d. Soc. pavese di storia patria, XVI (1916), pp. 53-90 (con ulteriore bibl. sul B.); donde W. Allora, Note epigrafiche, in Athenaeum, n.s., XXXI (1953), p. 243; E. Gabba, Le iscriz. mediche di Pavia, in Boll.d. Soc. Pavese di storia patria, n.s., IX (1957), p. 79.