BARBIERI, Giovanni Maria
Nacque a Modena nel 1519 da famiglia di piccola borghesia notarile: il padre ser Bartolommeo Barbieri di Castelnuovo era amministratore di alcuni feudi del conte Guido Rangoni, la madre Lodovica Ballerini era dama d'onore della moglie di Galeotto II Pico della Mirandola. A queste due famiglie fu legata la giovinezza del B., che compì i primi studi di greco e di latino con Giammaria Maranello e quindi, per interessamento del medico e letterato Niccolò Machella, cugino del padre, con Francesco Porto, conseguendo il diploma di notariato e venendo abilitato alla professione a soli sedici anni (9 nov. 1535), ma volgendosi ancora giovanissimo all'insegnamento umanistico come precettore in casa dei Pico e poi dei Rangoni.
Per intervento del Machella, si pose infatti prestissimo al servizio del figlio di Galeotto II Pico, Ludovico II. Al seguito del Pico si recò, non ancora ventenne, in Francia, e rimase per sei o sette anni a Parigi (1538-45) alla corte di Francesco I, del delfino Enrico e di Caterina de' Medici. Per quanto non si possiedano testimonianze dirette per questo periodo, e le notizie biografiche, fornite dal figlio Ludovico nella Vita del padre parecchi anni dopo la sua morte, siano particolarmente malsicure, è certo che gli anni francesi furono decisivi per l'orientamento del B. erudito e filologo. Oltre ad impadronirsi perfettamente della lingua francese, volgendosi con curiosità anche allo studio della letteratura francese antica, acquistò già forse allora conoscenza, oltre che dello spagnolo, del provenzale, e raccolse probabilmente e trascrisse manoscritti d'oil e d'oc.
Molto dibattuta è la questione se il B. abbia studiato il provenzale in Francia, secondo l'attestazione del figlio, con l'aiuto di un segretario della regina Eleonora, spagnola (oppure della delfina Caterina de' Medici), o piuttosto da solo e senza alcun maestro, attraverso un paziente confronto con le altre lingue romanze a lui note, particolarmente francese e spagnolo (fra cui il B. considerava il provenzale come idioma intermedio e autonomo), secondo quanto egli stesso asserisce nella sua Arte del rimare, che il provcnzale si deve ormai apprendere come una lingua morta, per decifrazione e senza maestro, "con l'aiuto d'altre lingue et per forza di riscontri al modo delle ziffere". Se è veroinfatti che la lingua dei trovatori era pressoché ignorata in Francia e che il provenzalismo cinquecentesco èd'iniziativa quasi esclusivamente italiana, si deve d'altronde rilevare che subito dopo il suo ritorno in Italia il B. appariva già al Castelvetro come la promessa degli studi provenzali: e non si può escludere che egli abbia potuto giovarsi in Francia dell'aiuto di qualche meridionale (come quel Leonardo provenzale che fu poi maestro di Fulvio Orsini) e del confronto col provenzale moderno. Nel complesso la sua formazione fu quella di un paziente e geniale autodidatta; e dell'opera dei suoi predecessori italiani in questo campo sembra che conoscesse solo quel pochissimo che era a stampa.
Tornato a Modena, dove si svolse tutta la sua operosità di studioso e la sua attività pubblica, fu precettore in casa Rangoni, occupandosi dell'educazione di Fulvio Rangoni, figlio di Claudio e di Lucrezia Pico, e di Baldassarre, figlio di Guido. Strinse allora amicizia con Ludovico Castelvetro, del quale divenne collaboratore e consulente soprattutto per il provenzale, in un vivo, stretto e fruttuoso sodalizio di studi, nel quale è spesso difficile sceverare la parte di ciascuno. Del Castelvetro fu anche notaio e ne rogò vari atti e il testamento. Assai presto il B. poteva essere considerato in Italia come la maggiore autorità nel campo provenzale, il "piloto di quella lingua", come scriveva più tardi il Beccadelli. Sappiamo che insieme col Castelvetro egli attese a un'edizione di vite e liriche di trovatori, con traduzioni, che doveva uscire a Venezia nel 1552 e che, per quanto la caldeggiassero il Beccadelli ed altri, non vide poi la luce, prima per circostanze ignote, poi per le sfortunate vicende del Castelvetro. Ne dava notizia il Castelvetro al Varchi in una lettera del 15 dic. 15 51, inviandogli la sestina di Arnaldo Daniello con una traduzione letterale di "quel. nostro giovane" che già gli aveva segnalato come "non meno modesto che... intendente" del provenzale, e gli annunciava che questi aveva tradotto una serie di canzoni provenzali per richiesta di Antonio Anselmi (già a lungo al servizio del Bembo come "scrittore") e che sarebbe stato lieto d'un giudizio del Varchi sul suo lavoro, quantunque "non addomandi gloria della sua fatica né voglia per niun partito esser nominato": il che dipinge al vivo il carattere umbratile del filologo.
Quando poi il Castelvetro, accusato di empietà e di eresia, pubblicò la sua risposta agli attacchi del Caro (Ragione d'alcune cose segnate nella canzone di A. Caro, Modena 1559,e poi Venezia 1560), il B. propose di rinforzare l'apologia dell'amico con alcuni sonetti composti da lui per l'occasione contro i Mattaccini del Caro, intitolati Mattaccini, Marmotte e Treperuno:ma il Castelvetro non volle coinvolgere nella pericolosa polemica il B., come rifiutò l'appoggio offertogli dal Robortello. A quest'epoca risalgono le poche, altre rime d'occasione composte dal B. e stampate: una canzone in onore di Maria Stuarda "Reina di Francia" del 1559 (in De le rime di diversi nobili poeti toscani,raccolte da Dionigi Atanagi, Venezia 1565, 1, p. 92),notevole soprattutto per la forma metrica di canzone "distesa" su modello petrarchesco, con artifici provenzaleggianti come l'uso di parole-rima, un sonetto al conte Ercole Rangoni (pubbl. dopo la trad. dei Salmi Penitenziali dei Rangoni, Modena 1560) e vari Carmina rimasti inediti.
Dopo che il Castelvetro ebbe preso definitivamente, nel 1561, la via dell'esilio, il B. si volse più intensamente alla vita pubblica nella sua città, dove ebbe vari uffici: con sanzione di Alfonso II d'Este, che lo ebbe caro, era stato eletto nel 1560 alla carica dì cancelliere perpetuo della Comunità, che tenne fino alla morte. Qui egli riunì e ordinò fra l'altro l'archivio della Comunità, raccogliendo documenti e memorie patrie, che gli servirono per compilare una Cronaca di Modena, scomparsa col ms. originale e nota solo da una epitome secentesca di G. B. Spaccini. Di questa attività cronistica rimarrebbe testimonianza diretta solo nei frammenti relativi agli anni 1556-57, conservati in sei carte (che però non sono autografe: e la attribuzione non è del tutto sicura) del fondo Savioli-Fontana della Bibl. dell'Archiginnasio di Bologna, editi da G. Bortolucci: fra queste note cronistoriche si incontrano anche notizie letterarie come quelle sulla morte dell'Aretino e dell'Alamanni, con pungenti giudizi.
Attirato dalle cronache medievali, il B. fu legato al quasi coetaneo Sigonio da interessi e ricerche comuni: la sua opera di rivalutazione del Medioevo attraverso le prime manifestazioni letterarie romanze si può del resto considerare parallela all'opera storiografica del Sigonio; anche in queste lontane premesse la filologia romanza appare strettamente legata alla scienza storica del Medioevo. Quando Giovan Battista Pigna pubblicò, nel 1570, la Istoria de' principi d'Este, il B. comunicò allo storico estense numerose critiche e osservazioni che furono puntualmente utilizzate dal Pigna nella successiva edizione dei 1572. Nel 1565 Alfonso II d'Este, anche con lo scopo di rivendicare l'antichità del blasone nella lite di precedenza coi Medici, incaricò il B. di ridurre in prosa italiana l'Attila, il poema francoveneto di Nicola da Casola (conservato nel ms. della Bibl. Estense di Modena W. 8, 16-17).
Il compendio, parziale, apparve anonimo nel 1568, La guerra d'Attila flagello di Dio Tratta dello Archivo de i Prencipi D'Esti. In Ferrara, Per Francesco de' Rossi da Valenza, 1568 (ristamp. Venezia 1569, con glossario e argomenti). La pregevole traduzione, con coloriture arcaiche (ma non è vero, come asserì il Tiraboschi che per primo la riconobbe al B., che l'intento fosse di far passare la traduzione per opera antica, ché la prefazione dice che l'opera "hora è stata ridotta brevemente in volgare italiano secondo .il suo vero sentimento"), mostra una notevole penetrazione del contesto linguistico e senso di stile. La breve prefazione, se è del B., sarà stata manipolata, ché vi si parla dell'opera di Nicola da Casola come stesa "in lingua provenzale", mentre il B., che non confuse mai le due lingue, in un ricordo del '65 la dice composta "in lengua francesca antica". La traduzione fu assai ammirata dal Galvani (lo studioso modenese erede in certo modo del B. in età puristico-romantica: cfr. Osservazioni sulla poesia de' trovatori, Modena 1829, p. 16), ristampata a Parma nel 1843 e studiata poi dal Rajna e dal Vandelli.
Il B. morì a Modena il 9 marzo 1574. Nelle mani del figlio Ludovico rimase la preziosa raccolta dei libri e delle carte autografe, certo il più cospicuo corpus della filologia provenzale cinquecentesca, andato presto disperso in vari tronconi e a noi conservato solo in minima parte, con grave danno degli studi provenzali e in genere romanzi (poterono giovarsene in parte, prima della dispersione, Iacopo Corbinelli, corrispondente di Ludovico, e poi all'inizio del '600 il Tassoni; di una parte delle carte sembra che venisse in possesso G. B. Scannarola, vescovo di Sidonia; altre entrarono nell'archivio Savioli-Fontana e ci sono state in parte conservate; di altre sembra che usufruisse alla fine del '700 Gioacchino Pla, bibliotecario della Barberiniana; ma sappiamo che il Tiraboschi cercò già invano le sillogi provenzali lasciate dal Barbieri).
Fra queste carte era il ms. dell'opera principale del B., l'Arte del rimare (o anche Rimario, come la intitolò il figlio, che si propose di pubblicarla e di annotarla senza venirne a capo), alla quale egli attese negli ultimi anni della sua vita (la stesura va riportata al 1572), riuscendo a completare solo il primo dei tre libri progettati. Solo dopo la morte del Castelvetro (1571), venuta meno la speranza di una possibile collaborazione, il B. si decise a raccogliere i frutti del suo lavoro per aderire al voto dell'amico scomparso, che nel Commento al Petrarca aveva scritto (1545) che la fama dei trovatori sarebbe rifiorita "se M. Gio. Maria mio durerà la fatica impresa intorno a questi poeti provenzali".
L'importante operetta, rimasta inedita e ignorata, fu riesumata solo nel 1790 dal Tiraboschi nell'ambito della polemica settecentesca intorno alla "origine della poesia rimata", a sostegno della tesi araba dell'Andrés condivisa dal Tiraboschi contro l'Arteaga: il Tíraboschi pubblicandola dalla bella copia autografa conservata allora nella biblioteca di Ludovico Savioli, con una introduzione polemica e pregevoli annotazioni (e col concorso per la parte provenzale del ricordato prefetto della Barberiniana, G. Pla), assegnò all'opera il titolo d'occasione Dell'Origine della Poesia rimata (Modena 1790). Le carte originali relative, insieme con pochi altri autografi del B., entrarono nel 1917 con l'archivio SavioliFontana nella Bibl. dell'Archiginnasio di Bologna e furono quindi studiate a fondo dal De Bartholomaeís: oltre alla bella copia dell'Arte del rimare, che permette di correggere molti errori dell'edizione Tiraboschi, è assai importante la minuta autografa che contiene molte citazioni tralasciate dal B. nella copia. Un fascicoletto di mano del figlio Ludovico, incluso (cc. 1-6) nel cod. Vat. Barb. lat. 4085 e contenente citazioni di trovatori corrispondenti a quelle dell'Arte del rimare con traduzioni a fronte, è documento dell'attività svolta dal figlio per integrare e pubblicare l'opera patema.
L'Arte del rimare nel primo libro compiuto, introduzione a un vasto lavoro storico sulla poesia volgare, costituisce un profilo, spesso geniale e precoce rispetto alle conoscenze contemporanee sulla poesia francese antica e provenzale, di storia letteraria romanza delle origini, nato come integrazione del De vulgari eloquentia di Dante con utilizzazione delle arti ritmiche italiane di Antonio da Tempo e di Gidino da Sommacampagna (e anche di un trattato di retorica francese dell'ultimo '400, l'Instructif de la seconde rhétorique) e soprattutto della Poetica del Trissino. La prima parte svolge una teoria dell'origine del verso ritmico e della rima della poesia romanza modema in rapporto con la ritmica classica greco-latina: l'origine della rima è ricondotta ad influsso arabo, sul fondamento di fonti arabe (usufruite in traduzione latina) ed ebraiche (utilizzate con l'aiuto di Mosè Finzi, già maestro di ebraico al B.) e attraverso una notevole disamina dei contatti storici arabo-romanzi in Spagna. Segue un disegno di storia letteraria dei tre domini d'oil, d'oc e di sì (non sembra che fosse nota al B. l'antica letteratura spagnola, per quanto conoscesse bene la lingua): mentre assai limitata appare la conoscenza dell'antica lirica francese (ma conosce e talora cita opere narrative come il Roman de Renart, il Roman de la rose nelle due parti, la Chdtelaine de Vergi, numerosi poemetti allegoricí e morali e il romanzo franco-veneto d'Ugo d'Alvernia), uno sviluppo assai più largo, più del doppio della francese e dell'italiana considerate insieme, ha la sezione provenzale, vasta rassegna di trovatori sul fondamento delle vidas contenute nel Libro di Michele della Torre e in parte nel Libro siciliano (le biografie amorose dei trovatori sono offerte in traduzioni o compendi assai fedeli e felici, mentre le poesie vengono citate nel testo originale, con indicazione delle fonti mss. dalle quali sono tratte: il B. è inoltre il primo a conoscere e a utilizzare le due più antiche grammatiche provenzali, le Razos de trobar e il Donat proensal).
Per la lirica provenzale il B. appare aver utilizzato quattro fonti principali: la più importante è il Libro di Michele della Torre (fondamentale codice perduto esemplato a MontpeWer dall'alverniate Miquel de la Tor, dei quale il B. possedette una copia, anche essa perduta, che ci è nota in parte da una trascrizione di mano del B. conservata nel Vat. Barb. lat.4087, sez. II [il Canz. prov. b2],e dalla silloge, messa insieme da G. Pla con materiali barbieriani per una antologia rimasta inedita, del Vat. Barb. lat. 3965 [il Cariz. prov. e]);poi un Libro slegato,copia del Vat. lat.3207 [il Canz. prov. H], con elementi derivati da altre fonti; un Libro in Asc., derivato dal ms. allora in Italia e ora a Parigi, Bibl. Nat., fr. 12474 [il Canz. prov. M], con elementi tratti da altre fonti; e infine un LiSro siciliano,la fonte più misteriosa, che a liriche provenzali univa testi di antica poesia italiana, con alcuni campioni di poesia siciliana in veste linguistica originaria: le citazioni nell'A. del r. della canzone di Stefano Protonotaro Pir meu cori alligrari, del framm. di Enzo Alegru cori,e della seconda metà della canzone di Enzo S'eo trovasse pietanza (conservata solo nella minuta dei trattato), e poche altre briciole, rappresentano gli unici resti di una tradizione siciliana indigena non toscanizzata (contro l'ipotesi fallace del De Bartholomaeis di un esperúnento tardo di traduzione siciliana, efficacemente controbattuta dal Debenedetti). Altri mss. provenzali furono certo noti al B.: cosi il Canz. prov. D (Modena, Bibl. Est., ms. a R .4.4.), da lui detto il "gran libro provenzale"; nonché il Ganz. prov. c (Firenze, Bibl. Laur., ms. XC inf., 26)prestato al Castelvetro dal Varchi, che lo possedeva.
Per l'antica poesia italiana, oltre al Libro siciliano, le fonti del B., precisate dal Debenedetti contro avventurose ipotesi del Bertoni, sono essenzialmente il De vulgari eloquentia, la giuntina di Rime antiche nella rist. venez. del 1532, la Poetica del Trissino e il Vat. 3214 ("Libro avuto dal Tagliapietra").
Una vasta parte della produzione filologica del B. è andata perduta: così i sei tomi di poesie proven3ali da lui trascritte di cui parla il figlio (e che p3tranno forse identificarsi in parte con le fonti sopra ricordate: ché a nostro giudizio anche il Libro siciliano dové essere una silloge messa insieme dallo stesso B. su fonti disparate). Di copie autografe, oltre al citato Canz. prov. b2, che offre la principale testimonianza della filologia testuale dei B. (che praticò, come poi il Del Nero, il metodo della collazione sistematica, annotando in margine ad alcune poesie le varianti del Canz. prov. M), resta solo la preziosa silloge di Rime di varj (trecentisti italiani) del cod. di Bologna, Univ. 1773, dove il Bertoni riconobbe la mano del Barbieri. Perdute anche le numerose traduzioni dal provenzale di cui danno notizia il Castelvetro e altri, e così un dizionario o glossario provenzale da lui composto, che sembra passasse attraverso il Beccadelli nelle mani di Antonio Giganti.
Dei lavori intorno al Petrarca, un'glossario e altro (oltre alle testimonianze sul poeta contenute nell'Arte del rimare,dove sono anche alcune acute identificazioni di fonti provenzali, e ad alcune note lessicali nelle carte bolognesi), non resta nulla. Ci resta invece nella miscellanea pinefliana dell'Ambrosiana - p. 465 inf. (n. 27) - la stesura (non autogr.) di una traduzione del Donat proensal, compiuta in collaborazione col Castelvetro (sul testo messo a disposizione da Domenico Venier), e passata nella bibl. padovana di G. V. Pinelli.
Per quanto la sua produzione sia stata esigua - in rapporto all'originale lavoro di ricognizione e di scavo in un campo che prima di lui non era mai stato così ampiamente e sicuramente esplorato - anche per la mancanza di sollecitazioni esterne e per la sua indole schiva, il B. "ricercatore paziente ed esatto, favorito d'una notevole forza raziocinativa, prudente nelle ipotesi, freddo nel valutare i fenomeni, sereno ma non indifferente", come lo definì il Debenedetti, appare come il maggiore provenzalista e uno dei maggiori filologi della sua età, anticipatore di ricerche che verranno riprese sistematicamente solo nel secondo '700, quando anche l'opera sua tornerà in onore: uno dei protagonisti di quella cultura filologica e storica modenese che soprattutto per merito del Castelvetro, del Sigonio e del B. pone precocemente le basi per una nuova intelligenza del Medioevo, preannunciando da lontana il Bacchini e il Muratori.
Bibl.: Per la bìografia del B. fonte principale è la Vita scritta dal figlio Ludovico (non sempre attendibile nei particolari perché dettata forse a memoria molti anni dopo la morte, Post 1598), ed. da F. Cavazzoni-Pederzini all'inizío della Guerra d'Attila, Parma 1843 (sui mss. della Vita cfr. S. Debenedetti, B. Varchi provenzalista in Atti d. R. Accad. d. Scienze di Torino, XXXVII [19021, p. 10 dell'estr.); G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 1, Brescia 1758, pp. 309 ss.; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, I, Modena 1781, pp. 158-69;Id., pref. a Giammaria Barbieri, Dell'Origine della Poesia rimata, Modena 1790, pp. 1-26. Sulla versione dell'Attila, cfr. G. Galvani, pref. all'ed. cit. della Guerra d'Attila; G. Vandelli, Ancora una volta "La guerra d'Attila", in Rass. emiliana, 11 (1890), p. 486; P. Raina, L'Attila di Niccolò da Casola, in Romania, XXXVII (1908), p. 84, n. i. Sull'Arte del rimare e sul B. provenzalista, cfr. A. Mussafia, Ueber die Provenzalischen Lieder-handschriften des G. M. Barbieri, in Sitzungsber. d. Akad. d. Wissensch. v. Wien, LXXVI (1874), pp. 201-266; G. Bertoni, G. M. Barbieri e gli studi romanzi, Modena 1905; Id., I codici di rime italiane di Gio. Maria Barbieri, in Giorn. stor. d.lett. ital., XLV (1905), pp. 35-47 (con integr. e rettifiche di S. Debenedetti, ibid., XLVI [1905], pp. 265-68, e di A. F. Massera, Ancora dei codici di rime volgari di G. M. B., in Studi mediev., 11 [1906], pp. 11-36); G. Bertoni, Giammaria Barbieri e L. Castelvetro, in Giorn. stor. d.lett. ital., XLVI (1905), pp. 383-400 (anche sui rapporti col Sigonio); Id., Rime di G. M.B., Modena 1907 (con integr. in Giorn. stor. d.lett. ital., XLIX [1907], pp. 181-83, e in Atti e Memorie d. Deput. di storia patria per le provincie modenesi, s. 5, VI [1910], pp. 223-27); Id., Note varie modenesi, Modena 1912; S. Debenedetti, Gli studi Provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911, partic. pp. 30-37 (in app. sono rist. le lettere di L. Castelvetro al Varchi, di G. M. Castelvetro a L. Barbieri e di quest'ultimo a J. Corbinelli relative al B., e le traduzioni Provenzali di mano del figlio, ritenute però erroneamente di mano del Castelvetro); Id., Notizie e documenti per la storia degli studi romanzi nei secc. XVI-XVIII, in Arch. rom., VIII (1924), pp. 425-35; IX (1925), pp. 198-206; Id., Tre secoli di studi Provenzali, in Provenza e Italia, Firenze 1930, 1, pp. 143-181 (a p. 178, n. II, l'identificazione della mano di Ludovico nelle traduzioni del Vat. Barb. lat. 4087); V. De Bartholomaeis, Le carte di G. M. B. nell'Archiginnasio di Bologna, Bologna 1927 (cfr. G. Bertoni, in Giorn. stor. lett. ital., XCIV [1929], pp. 373-75; e, per il Libro siciliano, S. Debenedetti, Le canzoni di Stefano Protonotaro, in Studi romanzi, XXII [1932], pp. 5-68; A. Monteverdi, Per una canzone di re Enzo [1947], ora in Studi e saggi sulla lett. ital. dei Primi secoli, Napoli 1954, pp. 59-100; S. Santangelo, Il siciliano lingua nazionale nel XIII sec., Catania 1947, pp. 30 ss.; B. Panvini, Studio sui manoscritti dell'antica lirica italiana, in Studi di filol. ital., XI 119531, pp. 92-95; G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, II, pp. 811 e 816; D'Arco S. Avalle, La letteratura mediev. in lingua d'oc nella sua tradizione manoscritta, Torino 1961, pp. 80, 87-89. Per la collana di sonetti contro il Caro v. l'ed. Alcune lettere d'illustri italiani e il Treperuno, Modena 1927.