MANFREDI, Giovanni
Terzo signore di Faenza della dinastia dei Manfredi, nacque nel 1324 da Ricciardo di Francesco il Vecchio e dall'imolese Zeffirina di Nordiglio Nordigli (capo in Imola della parte contraria agli Alidosi). Ricciardo era capitano del Popolo di Imola e - nonostante fosse già sposato con Diletta di Alberico conte di Cunio, da cui non ebbe figli - ebbe in tale veste modo di intrecciare con la Nordigli una relazione che gli diede, oltre al M., anche Guglielmo.
Legittimato nel 1339, il M. fu fatto cavaliere da Ludovico il Bavaro nel 1340. Alla morte, quello stesso anno, del padre, il nonno Francesco il Vecchio - da anni ormai ritiratosi dalla vita politica - riprese il controllo sui beni della famiglia nella città di Faenza: non la signoria, visto che Faenza era tornata brevemente a reggersi a Comune sotto il diretto dominio del legato papale. Garantì così la continuità familiare: non appena la situazione lo consentì, il M. fu infatti nominato dagli Anziani, dai Sapienti e dal Consiglio del Comune di Faenza capitano, conservatore e rettore della città.
La data della nomina del M. a capitano del Popolo, riportata dalle cronache, ma non testimoniata da atti superstiti, oscilla fra il 1341 e il 27 dic. 1342. Nei primi anni Quaranta i Manfredi tornarono dunque con il M. a recuperare la signoria su Faenza, che avevano perduto nel 1327. Il M. sembra essere stato nominato capitano da solo, anche se probabilmente resse la città con il supporto del fratello Guglielmo. A questa data non doveva ancora essersi precisata una gerarchia naturale di successione nella dinastia: si hanno al contrario testimonianze del perdurare di una gestione collegiale del potere signorile. Quanto a Guglielmo, più giovane e probabilmente meno intraprendente, non compare sovente accanto al maggiore: Litta lo dice morto prima del 1347, ma è nominato con il M. nell'atto di scomunica comminato ai Manfredi nel 1352.
I primi anni del capitanato del Popolo del M. furono impegnati a consolidare la sua posizione a Faenza, soprattutto nei confronti di vicini potenzialmente ostili, come gli Ordelaffi; ma presto un elemento esterno giunse a mutare la situazione. Nel 1347 arrivò nella regione Astorge de Durfort, conte e rettore papale di Romagna, che si mosse con maggiore incisività e decisione dei suoi immediati predecessori. In particolare, entrò in Faenza e vi stabilì la propria base.
Per comprendere la frequenza di queste logoranti oscillazioni di dominio fra i signori locali e i rettori papali e la fragilità dell'egemonia delle stirpi signorili romagnole sulle città in cui esercitavano da decenni una concreta supremazia, occorre infatti tenere presente che a questa data le città romagnole erano immediate subiectae alla S. Sede. Gli eventuali signori locali governavano grazie a un'elezione operata dai superstiti organi comunali (Anziani e Consigli), che li nominavano prevalentemente capitani del Popolo, o defectu tituli, come "tiranni", vale a dire come domini autoimposti alla città. La loro egemonia era dunque di volta in volta tollerata o avversata dai rettori papali: infatti la carica formale di vicario apostolico in temporalibus non era ancora in uso in Romagna e nella Marca d'Ancona.
All'arrivo di Durfort, che con la sola sua presenza azzerava il potere del M., questi non accettò di rinunciare a quanto riguadagnato concretamente a prezzo di tanti sforzi, e si rifugiò a Bagnacavallo, occupando il borgo (già detenuto dallo zio Malatestino, detto Tino, negli anni Trenta) e sottraendolo alla diretta dominazione papale. Il Durfort prese la reazione del M. come un'aperta ribellione, mosse contro Bagnacavallo e, posto l'assedio, impose al M. un accordo per cui questi riottenne tutti i propri beni e possessi, ma dovette rinunciare al capitanato su Faenza, rientrandovi senza alcuna carica pubblica. L'anno successivo il M. tentò di ribaltare la situazione, accampando come pretesto il mancato pagamento da parte del vescovo di Faenza di alcuni tributi che gli doveva, e insorse in città contro il rettore. Il 16 febbr. 1350 riuscì a farsi acclamare dominus di Faenza, estromettendo il vicario pontificio. Nel 1350 il M., assoldata in maggio, con Francesco Ordelaffi, la compagnia di Werner di Urslingen, combatté il Durfort e lo costrinse a rifugiarsi a Imola.
I conflitti minori romagnoli stavano peraltro per entrare in modo men che periferico in quello che era il grande scontro, la lotta fra l'arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano, e Mastino Della Scala per la supremazia nella pianura del Po. La vendita di Bologna ai Visconti da parte dei Pepoli inserì infatti di prepotenza il mondo emiliano-romagnolo nei conflitti padani, che venivano allargandosi a una scala sovraregionale. Il complesso mondo romagnolo, fino allora polarizzato fra l'originario "disordine signorile" e un successivo, ancora potenziale "ordine pontificio", si aprì quindi alle sempre più frequenti interferenze di potenze esterne alla regione come Milano, Venezia, Firenze. L'acquisto di Bologna da parte del Visconti era destinato ad accelerare i conflitti, a fare tracollare il precario equilibrio romagnolo e, da ultimo, a indurre la venuta in Italia del cardinale Egidio de Albornoz, reformator pacis dello Stato della Chiesa.
Il M. colse l'occasione rappresentata dall'indebolimento del rettore pontificio e passò al fronte milanese, divenendo con Francesco Ordelaffi di Forlì capitano generale delle milizie viscontee in Romagna. In questa veste assediò il legato, asserragliato a Imola, e occupò Bagnara e Bagnacavallo. Convocato ad Avignone per rispondere della ribellione, non andò; ne seguì, il 9 luglio 1352, per il M., per il fratello e per Francesco Ordelaffi, la scomunica. Il "ghibellinismo" d'occasione dei signori romagnoli - vale a dire, a questa data, l'opposizione al rettore papale quando il suo controllo diveniva troppo forte - si fondeva, agli occhi del Papato, con l'eresia e con la protezione offerta a elementi ereticali della Chiesa, come i "fraticelli": così, il papa condannò formalmente i due Manfredi per eresia.
Nel frattempo, la situazione del M. non era tranquilla neppure a Faenza: si ha notizia infatti che nel 1352 (o 1354, secondo Messeri) egli dovette debellare una congiura ordita contro di lui dal cugino Giovanni, del ramo dei signori di Marradi, figlio di quell'Alberghettino che aveva perso la vita nel 1329 per aver congiurato prima contro il padre Francesco, poi contro Bertrand du Poujet.
I rapporti con il cugino di Marradi sarebbero stati a lungo conflittuali: nel 1359, ormai bandito da Faenza, il M. gli contestava diritti su Monte Maggiore e Marradi dinanzi al rettore della provincia di Romagna; nel 1365 citò il congiunto a giudizio per riottenere da lui parte dei propri possedimenti (fra cui proprio Monte Maggiore), occupati da quest'ultimo.
Nel 1353 però gli eventi romagnoli erano alla vigilia di un grande mutamento. Il cardinale Albornoz infatti scese in Italia con il compito di riaffermare le prerogative pontificie e mettere ordine nello Stato della Chiesa: dopo un primo anno trascorso in Italia centrale, alla fine del 1354 il cardinale era in grado di dirigersi nella Marca e in Romagna. Dopo avere risolto quel che per lui era il problema principale, cioè la crescente egemonia malatestiana sulla Romagna orientale, l'Albornoz si volse contro il M. e Francesco Ordelaffi. Il M. tentò di resistere ma, chiusosi a Faenza, subì nell'estate 1356 un disastroso assedio al termine del quale dovette arrendersi, rinunciando alla signoria sulla città e a tutti i suoi territori salvo Solarolo e Bagnacavallo, di cui venne investito dalla S. Sede al censo annuo di 50 fiorini. I figli Francesco e Astorgio furono consegnati come ostaggi ai da Carrara, signori di Padova.
Dal 1356 iniziò per il M. un periodo turbolento e precario: persa Faenza, egli continuò a combattere di volta in volta a fianco dei rettori pontifici o contro di loro, variamente coinvolto nelle diverse leghe viscontee o antiviscontee, nel vano tentativo di recuperare Faenza o di conquistare un'altra base urbana da cui rifondare la propria potenza.
Così nel 1359 fu tra le file degli eserciti pontifici contro l'antico alleato, Francesco Ordelaffi, ultimo dei tiranni romagnoli a cedere all'Albornoz, ma già l'anno dopo complottava con lo stesso Ordelaffi, con l'appoggio di Bernabò Visconti, per rientrare in Faenza. Fallito anche questo tentativo, con l'Ordelaffi e Ramberto Alidosi cercò di scalzare Roberto Alidosi da Imola e passò poi a devastare le terre malatestiane, sempre collegato con il Visconti. Nello schieramento visconteo partecipò nel 1363 alla battaglia di Solara: nelle trattative di pace successive fu riconfermato nei suoi feudi e liberato dalle scomuniche che ancora pendevano su di lui. Apparentemente pacificato e radicato a Bagnacavallo, si recò nel 1368 a Bologna ad accogliere il nuovo legato pontificio, il cardinale Anglic de Grimoard: in realtà complottava contro di lui fidando in un appoggio visconteo.
Lasciato solo, perse tra il 1368 e il 1369 tutti i suoi territori (Bagnacavallo, Solarolo, Brisighella) e, sconfitto definitivamente nel 1371 a Calamello, si ritirò in territorio pistoiese, dove morì nel 1373.
Il M. ebbe dalla moglie Ginevra di Mongardino due figli, Francesco e Astorgio (destinato a succedergli nel 1377 nella signoria di Faenza), e due figlie, Isabella (sposa di Luigi di Alberico di Cunio) e Zeffirina (moglie di Feltrino di Matteo Boiardo di Reggio Emilia). La vita turbolenta e trascorsa per lo più in imprese di guerra gli impedì di dedicarsi a governare la città: l'unico intervento urbanistico che va sotto il suo nome si riferisce all'abbattimento di una fortificazione fuori dalla cinta muraria faentina (il castrum S. Martini Porte Pontis) - edificata dal conte di Romagna Almerico Vallone nel 1347 - quando il M. si apprestava a rafforzare le difese di Faenza nel 1355.
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