MALPAGHINI, Giovanni (Giovanni da Ravenna)
Nacque a Ravenna da Jacopo, probabilmente intorno al 1346. Indicato spesso dai contemporanei come Giovanni da Ravenna, fu a lungo confuso dalla critica moderna con il più noto Giovanni Conversini.
Nel 1363 era a Venezia allievo di Donato Albanzani, presso il quale apprese la retorica e la grammatica. Nell'estate 1364 il M. si trasferì nella casa veneziana di Francesco Petrarca, grazie alla presentazione del suo maestro, grande amico del letterato aretino. I circa tre anni passati al servizio di Petrarca quale segretario e copista sono i più documentati e quelli che gli hanno assicurato maggiore notorietà.
Assai note sono le epistole nelle quali Petrarca traccia un profilo delle abilità manuali e delle capacità intellettuali del giovane M., nonché del complesso nodo di sentimenti innescati dalla loro vicinanza e dal discepolato, così come dalla loro brusca risoluzione. Nella lettera a Giovanni Boccaccio datata 28 ott. 1366 (Fam., XXIII.19) Petrarca, dopo aver fissato alcune date importanti della biografia del M. (quella di nascita: "ortus est Adriae in litore ea ferme etate, nisi fallor, qua tu ibi agebas cum antiquo plage illius domino eius avo qui nunc presidet" e quella del suo arrivo presso Petrarca: "Anno exacto post discessum tuum"), esalta le rare qualità del suo nuovo discepolo: modestia e gravità inusuali in un uomo così giovane; eccezionale memoria (in soli undici giorni imparò l'intero suo Bucolicum carmen); interesse per la poesia coltivata ancora acerbamente, ma sorretto da uno studio intenso dei classici; straordinarie capacità di amanuense.
In effetti il 1366 fu, per il M. copista, un anno gravoso: in giugno fu impegnato nella trascrizione, perduta, della lunga lettera a Urbano V, che da sola costituisce il libro VII delle Senili (come risulta da Sen. XI.8, 1). Della fine di ottobre è invece la testimonianza del laborioso riordinamento - probabilmente iniziato da tempo - e conseguente copia, anch'essa non pervenuta, delle Familiari, come emerge ancora una volta dalla Fam. XXIII.19, 8. Quindi, tra l'ottobre del 1366 e il 21 apr. 1367 (Wilkins) il M. fu intento alla trascrizione dei Rerum vulgarium fragmenta: trascrizione frazionata in quattro diversi spezzoni cronologici parzialmente sovrapponibili e conservata nel manoscritto definitivo dell'opera, il Vat. lat., 3195 della Biblioteca apostolica Vaticana, poi integrato e completato da Petrarca stesso a partire da quella data sino al luglio 1374.
La forbice cronologica relativa all'attività di copia della porzione autografa ascrivibile al M. si restringerebbe, secondo Zamponi, ai soli mesi iniziali del 1367, dunque tra il gennaio e il 21 aprile. Infatti, sulla base delle nuove conoscenze acquisite riguardo le capacità e i tempi di scrittura di copisti professionisti, nonché fondandosi sull'assenza in quel codice di indizi materiali di forti cesure nel procedere complessivo della copia, lo studioso ritiene che uno scriba giovane e abile come il M. potesse trascrivere l'intera sua porzione anche in un solo mese. Si ricorda, tuttavia, che seppure la copia dei Rerum vulgarium fragmenta poggi con ogni probabilità su materiali già predisposti e perciò in qualche modo "antiquati" (come ha dimostrato Petrucci, 2003), essa verosimilmente fu eseguita con interruzioni, non essendo disponibile a monte un antigrafo già pronto e ordinato, e va tenuto conto di pause nella trascrizione. Probabilmente sempre nel 1366, e forse a Venezia, il M. trascrisse anche le Tusculanae di Cicerone (Roma, Biblioteca nazionale, Vitt. Em., 1632), testo poi ampiamente postillato da Petrarca.
Il rapporto con Petrarca si interruppe bruscamente il 21 apr. 1367, quando il M. - così come narrato in modo particolareggiato nella Sen. V.5 ad Albanzani - si presentò a lui, "vultu et corde alio", comunicando in maniera irrevocabile la decisione di lasciare il servizio perché non voleva più scrivere. Nonostante la promessa del maestro di destinarlo a mansioni diverse e le rassicurazioni riguardo il suo talento che avrebbe potuto ancora trarre giovamento dal suo affetto paterno e dal suo magistero, il M. partì, diretto a Napoli, secondo quanto appreso da Petrarca, quando già aveva scritto più della metà della lettera.
Il viaggio finì ben presto. Nella Sen. V.6, sempre indirizzata ad Albanzani e datata 11 luglio, Petrarca racconta di aver trovato, al suo ritorno a Pavia, il M. presso il genero Francescuolo da Brossano e di aver appreso delle varie peripezie affrontate dal M. - che tra l'altro aveva rischiato di affogare nel Taro - e della sua decisione di recarsi a Pavia nella speranza di trovarvi il poeta di ritorno da Venezia. Nel finale della lettera Petrarca non nasconde di temere che, una volta esauritasi la vergogna e in qualche modo sbiaditosi il ricordo dei pericoli corsi, egli vorrà partire di nuovo.
In effetti nella primavera del 1368 - o forse nel dicembre del 1367, come proposto da Dotti - il M. lasciò Petrarca definitivamente. Ne sono testimonianza le Sen. XI. 8 e 9, lettere di raccomandazione indirizzate, la prima, a Francesco Bruni, in quel momento a Roma al seguito della corte papale in qualità di segretario pontificio, l'altra a Ugo Sanseverino perché lo consigliasse su un suo viaggio in Calabria, dove avrebbe voluto studiare il greco.
È in quel breve periodo, tra la prima e la seconda partenza, che con ogni probabilità va collocata la copia della traduzione latina dei poemi omerici (Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds lat., 7880/I-II). Tuttavia il lavoro era iniziato già prima del 21 apr. 1367, se si accetta la ricostruzione proposta a suo tempo da de Nolhac, il quale individua una prima e una seconda fase di trascrizione, nelle quali il copista - da questo studioso per la prima volta riconosciuto come il M. per confronto paleografico con il Vat. lat., 3195 - adottava una littera textualis molto posata in armonia con l'aspetto, nel suo complesso, assai curato di questo manoscritto. Nella copia dell'ultimo canto, invece, notava un forte aumento della corsività e la conseguente adozione di forme di lettere differenti; corsività che de Nolhac spiega con la fretta di terminare il lavoro per allontanarsi definitivamente da Petrarca. Il manoscritto dunque sarebbe stato trascritto nel corso del 1367 o al massimo terminato nella primavera del 1368, poi decorato e infine legato nel 1369, come d'altra parte ben si desume anche dal colophon (di mano di Petrarca): "Domi scriptus. Pataui ceptus. Ticini perfectus. Mediolani illuminatus et ligatus. anno 1369(".
Il M. si recò a Roma presso F. Bruni, dove rimase sino al 1370, per poi seguire, insieme con lui, il papa ad Avignone. È probabile che proprio in questa circostanza abbia conosciuto Coluccio Salutati, al quale forse succedette nella carica di coadiutore privato di Bruni nel marzo 1370. Nella Sen. XV.12, difatti, Petrarca si congratula con lui per aver finalmente trovato dimora fissa, vicino a una persona stimata e si aspetta che la maturità, la riflessione e i buoni consigli degli amici possano domare il suo animo inquieto. L'ultima traccia del M. nell'epistolario petrarchesco è contenuta nella Var. 15, datata 24 maggio 1371, nella quale Petrarca scrive a Bruni di aver riconosciuto, in una lettera papale da lui ricevuta, la mano del M.: "quod [papa] scribat nosti; litteras enim tu dictasti, filius tuus qui et meus est filius, nisi fallor, scripsit".
In effetti la mano del M. doveva essere per Petrarca inconfondibile se, come si ricava implicitamente dalle affermazioni contenute nel suo epistolario, questa può ritenersi il frutto del suo insegnamento, la risposta personale del giovane copista agli ideali grafici, tutto sommato più astratti che concreti, del suo maestro.
Non è noto quale fosse la tipologia grafica usuale appresa dal M. bambino, perché della sua attività grafica rimangono solo tre testimonianze, prodotte durante gli anni passati al servizio di Petrarca e dunque pressoché coeve: si tratta dei già ricordati Vat. lat., 3195, Vitt. Em., 1632 e Fonds lat., 7880/I-II. Tuttavia, in particolare l'esame del manoscritto parigino nel quale, nell'ultima affrettata porzione, il M. introduce elementi di spiccata matrice corsiva, può suggerire che la sua scrittura usuale fosse, come per Petrarca e così come nel caso di molti altri intellettuali trecenteschi, la minuscola cancelleresca. E d'altra parte la successiva carriera al fianco di Bruni all'interno della Curia pontificia non fa che rafforzare tale ipotesi. Quanto alle caratteristiche formali della scrittura libraria del M., lo studio di Zamponi, incentrato su un esame strutturale e funzionale della sua mano nel manoscritto contenente i Rerum vulgarium fragmenta, ha evidenziato soprattutto la congruità della sua esecuzione grafica - in particolare connotata da un altissimo livello esecutivo stabilito da una perfetta omogeneità del modulo, del peso, dell'inchiostrazione - con la littera textualis coeva, così da rendere superflua, a suo parere, la corrente denominazione di "semigotica". Nella norma risultano infatti gli elementi relativi alla struttura grafica, alla morfologia delle singole lettere, al ductus. Divergenti dalla norma sono invece la dilatazione della catena grafica - cioè lo spazio esistente tra lettera e lettera, molto ridotto nel caso della textualis - e l'inserimento di alcune forme maiuscole estranee al sistema della textualis e ricavate dalle scritture distintive usate in codici più antichi in carolina. In entrambi i casi tali divergenze vengono considerate fatti di natura stilistica, ma in quanto tali, si può ritenere, soggettivi e dunque voluti.
In ogni caso va notato che l'esecuzione del Fonds lat., 7880/I-II - e ancor più quella del Vitt. Em., 1632 - si connota come assai più posata di quella eseguita per la copia del Vat. lat., 3195 e soprattutto meno carica di elementi ornamentali costituiti da sottili tratti diagonali a completamento di alcune lettere. Poiché si ritiene che non si possano imputare queste divergenze a un'evoluzione della mano del copista, visto che i tre codici sono stati realizzati nello stesso brevissimo arco cronologico, pare più probabile si possano invece legare a una fine distinzione - sottolineata sul piano puramente grafico - di tipo linguistico e testuale.
Il 25 luglio 1374, da Firenze, Salutati inviò al M. un'affettuosa lettera di risposta dalla quale si deduce che la loro conoscenza era stretta e risaliva certamente a una data più alta, se si parla nel dettaglio di malanni fisici del M.; se il M. lo aveva invitato presso di sé per sfuggire alla pestilenza fiorentina; se, ancora, Salutati a lui si rivolgeva per ottenere manoscritti di classici (Catullo e Properzio). Infine, dopo aver chiuso la lettera, Salutati gli chiedeva conferma della morte di Petrarca, in effetti avvenuta il 18 luglio. Dove in questo momento si trovasse il M. non è possibile accertare, forse a Bologna, città in cui probabilmente insegnava. La risposta del M. al post scriptum di Salutati è contenuta in una breve epistola tramandata isolatamente con il titolo di Conquestus de morte Petrarce (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss., D.93.sup., c. 138v, edita in Foresti, pp. 502-505). Foresti ha dimostrato definitivamente la paternità - negata da Novati - del M. su questo scritto che costituisce, dunque, l'unico testo a lui attribuibile. Al 24 marzo 1375 è datata la successiva epistola di Salutati al M., nella quale si riprendono tutti i temi toccati nel Conquestus, mentre nel paragrafo finale Salutati si rallegra con lui per la decisione di recarsi subito dopo Pasqua a Padova presso gli eredi di Petrarca a vigilare che le sue opere incompiute - e in primis l'Africa - non venissero distrutte, come il mondo intellettuale, fiorentino in particolare, temeva: "Ceterum, quod post pasca te Patavium iturum scribis, letanter accepi, ut tua veneranda presentia illam Petrarce scolam a conceptis incendiis potenter deterreas" (Ep., III, 18).
Mancano notizie sul M. sino al marzo del 1391, anno al quale è possibile assegnare una nuova epistola di Salutati (Ep., XII, 9), dove quest'ultimo cerca di ricomporre il loro rapporto evidentemente raffreddatosi a causa di maldicenze e sfociato nella richiesta intempestiva da parte del M. di restituirgli un manoscritto che Salutati stava ancora facendo copiare. La lettera, oltre a coprire un periodo della vita del M. assai povero di dati, è anche importante per il ritratto che Salutati traccia delle sue facoltà oratorie: "scimus et sciunt omnes, qui te veneramur quique nomen audiverunt tuum, te non modernis solum excellere, sed inter priscos Ciceronem propius accessisse" e, più oltre: "ut, cum in te videam ingentem scientie copiam admirabileque scribendi decus et pondus et infinitis ille carere vitiis, [(], certissime teneas me singulariter te amare". Essa dovette produrre l'effetto sperato se in giugno (Ep., XII, 12) Salutati si felicitava che ogni incomprensione fosse tra loro cessata e se, con ogni probabilità nel settembre del 1393, inviava una lettera di presentazione a Carlo Malatesta signore di Rimini, perché impiegasse il M. presso la sua corte al posto del defunto maestro Giacomo Allegretti.
La raccomandazione non fu probabilmente accolta o il M. decise altrimenti; in ogni caso dal 1394 al 1400 si possono seguire attestazioni sulla sua attività di docente di retorica e autori maggiori presso lo Studio fiorentino. Nel 1401, proprio in considerazione dei tanti anni di insegnamento svolti nella città, la Signoria autorizzò il M. ad acquistare beni immobili in Firenze "prout si esset civis florentinus et de civitate Florentie" (in Statuti, pp. 374 s.), e ciò presuppone che se pure lo Studio rimase, come sembra, chiuso per la pestilenza nel 1400-01, il M. dovette comunque avere l'incarico rinnovato per il 1401-02. Anni difficili furono ugualmente quelli tra 1407 e 1412, durante i quali lo Studio fu nuovamente chiuso; ma nel 1412 il M. ottenne un contratto quinquennale per insegnare retorica, gli autori antichi e Dante, legato anche a un cospicuo aumento retributivo. È probabile che il M. sia morto dopo aver esaurito il suo mandato (1417) o in anni immediatamente successivi.
Non è stato agevole delineare la figura culturale del M. sia per la confusione con l'omonimo e coevo Giovanni Conversini sia, soprattutto, per l'assenza di sue opere superstiti oltre al citato Conquestus. Pertusi ha anche avanzato l'ipotesi, giudicandola però contestualmente poco probabile, che il M. potesse essere stato l'ignoto rielaboratore di una versione latina dell'Odissea discendente dal codice di Leonzio Pilato, poi pervenuto a Petrarca tramite Boccaccio, ma in una tradizione diversa e parallela a quella petrarchesca (la traduzione, oggi a Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. lat., cl. XII, 23 [=3946], non può ritenersi autografa del Malpaghini).
Un migliore ritratto delle capacità del M. si ottiene, dunque, dai giudizi ricavati dagli epistolari di Petrarca e, soprattutto, di Salutati, il quale, come si è visto, ne loda le capacità oratorie e retoriche, in particolare confrontandolo con Cicerone. Sono ugualmente importanti in questa prospettiva il numero e la qualità dei suoi discepoli, così come furono individuati da Biondo Flavio nell'Italia illustrata: Leonardo Bruni, Pietro Paolo Vergerio, Ognibene Scola, Roberto Rosso, Iacopo Angeli, Poggio Bracciolini, Guarino Guarini, Vittorino da Feltre. È proprio attraverso l'opera di questi che si coglierebbe la vittoria ciceroniana come fonte classica di imitazione retorica tipica di questa generazione, a discapito dell'eclettismo degli autori immediatamente precedenti quali in particolare proprio Petrarca.
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