GRIMANI, Giovanni
Nasce a Venezia l'8 luglio 1506, concordano, forse ripetitivamente, i genealogisti, laddove, per Paschini, vede la luce attorno al 1500. È figlio di Girolamo (1460 circa - 1515) di Antonio e di Elena di Francesco Priuli.
Sposati nel 1488, Girolamo ed Elena ebbero numerosa prole. Tre i fratelli del G., Marino, Marco, Vittore, e almeno tre le sorelle (Lucia, nel 1512 sposa di Marco Vendramin; Paola, accasata nel 1519 con Stefano Querini; Lucrezia, maritata, nel 1536, con Andrea Contarini e, vedova di questo, rimaritata nel 1559 con Bartolomeo Cappello).
Destinato, sin dalla nascita, alla carriera ecclesiastica - così subito ruolizzato da una "ragion" di casa attenta all'avanzamento complessivo dei Grimani, tutti funzionalizzati a una sorta di strategia dell'occupazione a estendere il perimetro delle familiari pertinenze -, il G., già il 28 marzo 1520, è "administrator" del vescovado cenedese, subentrando in tale veste allo zio cardinale Domenico e tale rimanendo sino al 18 dic. 1530, allorché "administrator" diventa il fratello cardinale Marino. Alla morte di Domenico, nel 1523, il G. diviene, altresì, commendatario dell'abbazia di S. Maria di Sesto al Reghena di cui - ancorché ci sia, nel 1582, una resignazione formale al nipote Antonio, figlio del fratello Vittore - esercita il governo e gode i frutti sino alla morte.
Vale il criterio per cui, nell'avvicendamento, tutto resta in famiglia. Di nuovo vescovo di Ceneda (e questa volta a pieno titolo; evidentemente, nel frattempo, deve avere preso gli ordini sacri) il 20 febbr. 1540, sinché, il 23 genn. 1545, destinato a reggere il patriarcato aquileiese in seguito alla spontanea cessione del fratello cardinale Marino, il quale diventa "administrator" della diocesi di Ceneda, serbando nel contempo di quella aquileiese rendite, titolo, privilegi e giurisdizione in spiritualibus et temporalibus, mentre al G. spetta l'annuo assegno di 1200 ducati prelevabili dalla Camera di Udine. Patriarca, a pieno titolo, a tutti gli effetti, di lì a poco il G., dopo la morte, il 28 sett. 1546, del fratello. Prevedibile, a questo punto, la porpora cardinalizia.
Nipote e fratello di patriarchi di Aquileia entrambi porporati, ora che è insediato nel medesimo patriarcato il G. se l'attende quasi per diritto di successione, quasi sia incorporata nell'asse patrimoniale della famiglia.
Senza effetto, per il momento, la denuncia, ancora del 28 genn. 1546, al cardinale Alessandro Farnese del Grechetto (il cretese Dionisio Zanettini, vescovo di Milopotamo e Chirone) a detta del quale il G., conversando a Venezia - presenti lo stesso Grechetto e l'arcivescovo di Corfù - si sarebbe manifestato fautore della superiorità del concilio sul papa. Ma già bastevole a suscitare sospetti sul G. una rinnovata denuncia, sempre del Grechetto, del 26 apr. 1547, di nuovo al cardinale Farnese, nella quale il delatore non si limita ad attribuire al G. un'opinione ormai eterodossa, ma l'accusa di eresia in toto. Il G., insomma, sarebbe un criptoluterano, da anni nutrirebbe "questa mala et pessima profession" ereticale in cuor suo e nella mente sua non senza esserne attivo fautore con l'ospitare luterani in "casa" propria, con il favorirli "fuora".
Dettagliata la delazione: il G. avrebbe prestato l'appoggio del suo "favor" all'agostiniano Giulio Della Rovere, all'agostiniano Agostino da Treviso allorché predicanti a Venezia nonché allo stesso Bernardino Ochino. E altri eretici o di eresia sospetti li avrebbe addirittura istigati "a dir contro la verità cattolica". Di lui "amicissimi" Giacomo Nacchianti e Pier Paolo Vergerio. Sempre in compagnia del G. Pietro Carnesecchi, nel 1542, a Venezia. Gli abati e i frati "di mala qualità", insiste il denunciante, possono contare sul Grimani. Quanto agli eretici, quanto ai luterani, il patriarca, ribadisce la denuncia, tutti li "favoriva". Suo segretario Gian Battista Susio - un medico nativo di Mirandola, chiamato, appunto, il Mirandolano -, uomo, assicura il Grechetto, di "mala natura". Ma il G. non è solo imputabile per queste sue frequentazioni, per le opinioni eterodosse che pare condividere. È un isterico, è "furioso et pazo", è pericoloso; la "benevolentia" che ostenta per la casa Farnese è falsa; in cuor suo, assicura Zanettini, di questa è "inimicissimo".
È evidente che con quest'ultima precisazione la denuncia mira a danneggiare al massimo il Grimani. Ma, dopo la morte, del 10 nov. 1549, di Paolo III l'essere antifarnesiano può diventare un titolo di merito. Obbiettabile, semmai, al G. l'aver per segretario un uomo che passa per "heretico", come scrive al G., il 25 luglio 1550, per ordine di Giulio III il cardinale Gian Domenico De Cupis. Meglio venga a Roma a dimostrare che tale non è. Immediato, da parte del G., l'accoglimento del suggerimento: fa partire subito Susio per Roma, dove risulta, agli occhi degli inquisitori, innocente. Tutto è "andato benissimo", si affretta, il 29 agosto, ad avvisare il G. lo stesso De Cupis. Calunniatore maligno, in proposito, e inattendibile Zanettini.
La denuncia - a prenderla sul serio - clamorosa del 1547 si sta sgonfiando. Dettata da un rancoroso malanimo va cestinata. Che poi in quella abbia insinuato che il G. "pensa di esser cardinale" non è una gran rivelazione. Lo sa tutta Venezia. D'altronde non c'è patrizio di famiglia di spicco destinato alla carriera ecclesiastica che alla porpora non aspiri. Ridicola l'accusa di luteranesimo. Certo, un po' imprudenti le frequentazioni del Grimani. Innegabili i suoi rapporti con Carnesecchi e Vergerio. Ma non per questo imputabili di connivenza con un'eterodossia non ancora palese. A ogni buon conto, a rimuovere ogni ombra, il G. si acconcia, nel 1551-52, alla "purgatione" a Roma, sortendone deterso dalla caligine su di lui addensatasi a forza di dicerie. E il G., che al cappello cardinalizio punta, si ripromette di non prestare più il fianco ad appunti. D'ora in poi starà attento. Le sue frequentazioni saranno inappuntabili. In fin dei conti De Cupis gli ha fatto un favore: gli ha dato modo di dimostrare, di contro alle chiacchiere dei maligni, che il segretario non è un criptoluterano, che la sua casa non è sospettabile di alcunché, che tutto è limpido, trasparente, che non ci sono sottintesi, pieghe, risvolti, ambiguità.
Chiaro, altresì, che il G. si autocandida con forza alla porpora e che l'autocandidatura è fatta propria dalla stessa Repubblica: sicché il caldeggiarla assurge a impegno pubblico, a richiesta ufficiale del governo. Il 27 genn. 1554, in sede di udienza in Collegio, questa viene formulata a tutte lettere: "l'onore del cardinalato" per il G. è da "tutti", ossia dall'intera classe dirigente, "grandemente" desiderato "per l'onore di questo stato", della Serenissima. A sottolinearlo "chiaramente" vien fatto presente al nunzio Ludovico Beccadelli il proposito del governo di "non domandar altri che questo". Sin ricattatoria la raccomandazione: poiché Venezia non avanza altro nome, il mancato inserimento del G. nella prossima promozione di cardinali suonerebbe offensivo. Il G. è "prelato", a detta della Serenissima, "da bene et virtuoso". Ora che la "gratia" del cardinalato viene chiesta dal governo, l'"officio", spiega Beccadelli, non è più "privato, ma publico", diventa istanza della Repubblica, "causa dello stato", il quale, se accontentato, si sentirà in "obligo" di ricambiare. La promozione del G., insomma, gioverebbe al buon andamento dei rapporti veneto-pontifici.
Fatto presente, nell'udienza del 12 febbr. 1555, a Giulio III dall'oratore veneto Domenico Morosini l'ardente "desiderio di Sua Serenità", del doge Francesco Venier, "chel patriarcha" d'Aquileia "sia promosso al cardinalato". Ma, con sconcerto dell'ambasciatore, il papa un po' eccepisce sulla "qualità della persona". Non che giudichi "per mal homo il patriarcha", non che ritenga "egli habbia voluto esser heretico"; tuttavia, così Giulio III, il G., in passato, "è proceduto incautamente non sapendo tener drento quelle opinioni che gli venivano in fantasia".
Evidentemente il pontefice sta alludendo a qualcosa di preciso che però lascia nel vago; gli basta far capire all'ambasciatore e, per suo tramite, al governo veneto che non è opportuno insistere. E quella "purgatione" antecedente - che il G. e il governo paiono intendere a mo' di lavacro totalmente assolutorio e sin sbiancante - vale, nell'interpretazione del pontefice, a evitare la degradazione, non già a ulteriori avanzamenti. Concesso, insomma, al "purgato" il mantenimento del "grado", non d'"ascender a li maggiori". Già favorito il G. - è questo che Giulio III vuol far capire - perché non rimosso dal patriarcato. Che s'accontenti. Che desista dall'insistere e dal far insistere. Lungi dall'accogliere l'invito il G. si intestardisce.
Il conseguimento del cappello è ormai l'ossessione tormentosa della sua esistenza. E continua ad adoperare tutte le sue aderenze perché il governo continui a sostenere la sua candidatura. E si porta a Roma a sostenerla di persona. E il 21 febbr. 1561 sin accompagna l'ambasciatore veneto Marcantonio Da Mula alla soglia dell'udienza continuando a raccomandarsi, cammin facendo, perché ricordi a Pio IV "la persona sua". Già lo fanno le istruzioni del Senato. Ma il G. personalmente controlla l'ambasciatore vi si attenga scrupolosamente. È a Roma per questo. Obbediente al Senato, assecondante con l'autoperorare del G., Da Mula. Sicché ricorda al pontefice che il G. e, con lui, la Repubblica il cappello cardinalizio lo stanno attendendo da tempo. Alla reiterata richiesta Pio IV ribadisce la propria "volontà di consolar" la Serenissima, sin dove possibile. Purtroppo, nel caso del G., non può far "impeto all'inquisitione". Ci sono "lettere", documenti a questa pervenuti - probabilmente riesumati da elementi ostili al G. a Cividale e fatti arrivare a Roma alla fine del 1560; ma già antecedentemente qualcosa del genere a carico del G. doveva essere trapelato e giunto alle orecchie di Giulio III - di estrema gravità, tali da esigere "almeno una abiuratione".
A nulla vale il richiamo all'antecedente "purgatione canonica" smacchiante definitivamente il Grimani. Se allora "fu assolto", è perché si era ignari del materiale accusatorio ora producibile. Allibito Da Mula, cui Pio IV fa leggere - perché si persuada - "un pezzo" di una lettera del G. dal cardinale Alessandrino, ossia il futuro Pio V Antonio Ghislieri, all'uopo fatto chiamare.
Riesumato un episodio lontano certo ignoto alla Serenissima, forse dimenticato dallo stesso G. o, per lo meno, da lui fatto dimenticare. Fatto sta che la riesumazione, alla vigilia della promozione di nuovi cardinali, è per il G. micidiale. E questa volta non si tratta di malignità più o meno calunniose. È inchiodato a un testo scritto di suo pugno. È ben una sua lettera, del 17 apr. 1549, che il cardinale Alessandrino, su invito del papa, si mette a leggere a Da Mula. È troppo lunga. Basta il "sommario" letto dallo stesso Pio IV all'ambasciatore che poi glielo toglie "di mano" per trasmetterlo a Venezia. Messo così in cruda luce che, nel 1549, allorché un predicatore quaresimale - il domenicano Leonardo Locatelli che, nella "chiesa collegiata di Udine" aveva dal pulpito distinto il "predestinato da Dio" alla salvezza ancorché peccatore dal "prescito", comunque destinato alla dannazione, così suscitando "gran scandolo et romore nel populo" - si era espresso con formulazioni palesemente ereticali, questi aveva trovato nel G. sin protezione e consenso. Denunciato Locatelli dal canonico cividalese Giovan Battista Liliano al vicario patriarcale Giacomo Maracco, il quale immediatamente blocca il prosieguo delle prediche del frate, nel contempo informando il Grimani. E questi - con la lettera del 17 aprile - dà, invece, come riassume impeccabilmente il cardinale Alessandrino, ragione al "ripreso" dal proprio "agente", il vicario - che "forse", riconosce perfido il cardinale Alessandrino, "era cattolico" - mentre, anziché elogiarlo per il suo intervento a troncare le "scandalose et heretiche" prediche di Locatelli, di ciò lo "riprende", evidentemente (deduce l'Alessandrino) così volendo "si predichino" proprio le "false dottrine eretiche".
E ciò non con un secco ordine, ma con una diffusa lettera dottrinale, con la quale il G. - evocando e convocando l'insegnamento dei ss. Paolo, Agostino e Tommaso - argomenta che la tesi del "predicatore" è giusta, che la sua "conclusione", ancorché l'uditorio se ne sia scandalizzato, è "vera e cattolica". Ha un bel dirsi Da Mula trafitto nel "core" alla mera ipotesi che di "un patriarca" del rango del G. - "reputato da tutta Venezia" persona degnissima, assolutamente "da bene" e per di più "fratello d'un cardinale e nipote d'un altro" e inoltre col nonno doge - sia bisbigliabile "che male sentiat de fide". Ciò è inammissibile. "Non è alcuno" - così Da Mula - "del nostro ordine", del ceto ottimatizio marciano, "che sia heretico". Ogni sospetto sul G. è frutto d'invido malanimo. Sono "tutte inventioni di qualcuno che" gli "porta odio". L'odio nei confronti del G. non manca. Solo che questa volta non alimenta maligne dicerie in qualche modo ridimensionabili. La lettera sbandierata dall'Alessandrino non è un'"ombra" vaga, come tenta di minimizzare Da Mula. È un documento a carico del G. redatto dallo stesso G. e tale da confermare il sospetto, già circolato, per cui l'intervento, a Trento, all'inizio del 1547, del vescovo di Terracina Ottaviano Roventa sulla giustificazione ("fide sola nos iustificamus", aveva osato sostenere questi) sarebbe stato ispirato dal G., del quale Roventa sarebbe stato il portavoce. "Mandato da lui", dal G., aveva denunciato il Grechetto il 27 apr. 1547 al cardinale Alessandro Farnese. Comunque il papa sembra più addolorato che scandalizzato, più comprensivo che indignato: condiscendente assicura che il testo rimarrà segreto, che non circolerà a disdoro dello stesso G. e della stessa sua classe d'appartenenza. Solo che non può ignorarlo: "il fare cardinale", così a Da Mula Pio IV, "è fare una persona che possa esser papa".
Appena apprende della lettera rispuntata da Da Mula reduce dall'udienza del 21 febbr. 1561, il G. cerca di correre ai ripari. Il 22 riesce, accompagnato da Da Mula, a farsi ricevere dal papa. Scoppiando in lacrime si proclama vittima dell'astio dei cardinali Ghislieri e Rodolfo Pio di Carpi, i quali, senza motivo, gli sono avversi. Comprensivo il papa con le sue angosce, vede di calmarlo. Quanto alla lettera incriminata, egli - di per sé disposto a chiudere un occhio, a sorvolare - ha "le mani legate". La "scrittura" è pervenuta prima ad altri, non direttamente a lui. Si è perciò avviata una pratica che nemmeno il pontefice può intercettare. "Esaminata", allora, la lettera, soppesata parola per parola, in casa di Girolamo Seripando, da una sorta di qualificato gruppo di valutazione ed esaminato, il 25, lo stesso G. dalla congregazione dell'Inquisizione. Creati, il 26 febbraio, 18 nuovi porporati e tra questi due veneziani - Bernardo Navagero e lo stesso ambasciator Da Mula -, ma nella lista dei promossi assente il Grimani.
Cardinale, par di capire e così intende egli e così intende la Serenissima, in pectore, perché sia effettivamente tale occorre la rimozione delle riserve suscitate dalla lettera spuntata fuori qualche giorno prima d'una promozione data per scontata. È chiaro che la s'è adoperata proprio per sgambettarlo, appena prima dell'elezione dei neoporporati, sì da frapporre la sorpresa, sì da costringere il papa a tenerne conto. La si fosse resa nota mesi prima, forse il G. avrebbe potuto rimediare. Così, invece, è dopo il 26 che si avvia la relativa "causa", che va per le lunghe. Solo il 19 agosto consegnate al G. dal maestro di Palazzo tre pagine "con cose tratte dalla sua lettera", delle quali si giustifica, sempre per iscritto, consegnando, cinque ore dopo, un testo di otto pagine. Con queste si ingegna di minimizzare, rettificare, sfumare, precisare. Da un lato la lettera non può disdirla del tutto, dall'altro cerca di strattonarne il dettato alla volta della compatibilità con l'ortodossia, quanto meno di annebbiare un po' quel che ora - nel 1561 - suonerebbe derogante. Ma così non è che convinca. Se la lettera è stata disapprovata dai teologi, il penso scritto della tentata minimizzazione non convince l'Inquisizione. Occorre, per il G., un esame a fondo. Necessita per il suo caso - ormai palese, ormai chiacchierato - un vero e proprio processo.
Stremato, logorato, esacerbato il G. non se la sente di rimanere a Roma. Preferisce tornare a Venezia, disposto a che il suo caso venga valutato a Trento dov'è in corso il concilio. Indispettito, però, Pio IV del suo partire, a fine settembre, senza autorizzazione. E, allora, si irrigidisce: la "causa" a Roma "cominciata" qui deve arrivare a termine. Inopportuno, per il segretario di Stato cardinal Borromeo, il futuro s. Carlo, che il G. vada a "sturbar la quiete" conciliare mettendola "sottosopra" e in "confusione" con la sua personale disavventura. Veda, piuttosto, senza tante smanie, di "migliorar", con pazienza e umiltà e spirito d'obbedienza, "la condition de la causa sua".
Spedita dal cardinal Borromeo, l'11 apr. 1562, al nunzio pontificio a Venezia Ippolito Capilupi una citazione del G. al S. Uffizio in virtù della quale dovrebbe portarsi a Roma a giustificarsi "personaliter". Ma a questo punto è il governo veneto a opporsi all'"oppressione" di cui il G. sarebbe vittima. "Prelato innocentissimo", a giudizio di tutti i "buoni", ossia della sua classe d'appartenenza, merita l'attenzione dei padri conciliari, non già l'umiliazione d'uno scrutinio malevolo a Roma, da parte di cardinali contro di lui prevenuti: ne va della dignità della stessa Repubblica. È questa a volere che il G. si porti a Trento, dove - ammorbiditosi, nel frattempo, il pontefice sino ad accettare che il G. schivi la citazione a Roma -, in casa del cardinal Giovanni Morone la sua pratica viene esaminata da un'apposita commissione costituita il 19 luglio 1563.
Non imputabile, a detta dei commissari, di eresia vera e propria la lettera del 1549; in questa al più il G. è inciampato in "alcune cose difficili" e non le ha "esattamente trattate e spiegate". Assolutoria, di conseguenza, la sentenza del 5 settembre pubblicata il 17. Ora il G. - che, anticipando l'evento sperato, si fa ritrarre in veste cardinalizia da Tintoretto - pretende diventi esecutiva la nomina in pectore del 26 apr. 1561. D'accordo con lui, oltre alla Repubblica, anche illustri prelati quali il cardinale Carlo di Lorena. Ma non di quest'avviso il papa: "il patriarca non era stato votato cardinale"; perché sia tale necessita "votarlo". Non resta che leggere a palazzo ducale, il 23 ottobre, al nunzio la vibrata richiesta che il G. sia "publicato ed ornato" della dignità cardinalizia. E Pio IV pare accondiscendere: ciò avverrà alla "prima occasione". Solo che tra i 23 nuovi cardinali proclamati il 12 marzo 1565 - e tra questi due i veneziani: Zaccaria Dolfin e Giovanni Francesco Commendone - il G. (al quale non è nemmeno arrivato, intanto, il pallio, che, come metropolita, gli spetta) non figura. Un'esclusione mirata a colpirlo, a umiliarlo. Ma il G. non si dà per vinto. Appreso della morte, del 9 dicembre, di Pio IV parte per Roma determinato a partecipare al conclave in virtù della nomina in pectore. Di fatto il viaggio procede a rilento; evidentemente nessuno l'assicura che questa sua pretesa sarà accolta. E, a evitare l'umiliazione di una non ammissione, Roma non la raggiunge. È eletto, intanto, il 7 genn. 1566, con il nome di Pio V proprio il cardinale Alessandrino suo dichiarato nemico. E tale rimane se il cardinale nipote Michele Bonelli, l'8 giugno, ingiunge al nunzio a Venezia Giovanni Antonio Facchinetti di informare il G. che, a sbloccare il suo "negozio", necessita si sottoponga a un approfondito esame a Roma. Come non valida l'assoluzione trentina. Il G. preferisce attendere la morte di Pio V del 5 maggio 1572 per tornare alla carica. Ancora una volta mobilitata la diplomazia della Serenissima per il "negozio di mons. patriarca d'Aquileia". Da troppo tempo è in sospeso. Ottemperanti alle istruzioni senatorie gli inviati veneti il "negozio" lo ricordano al neopontefice nell'udienza del 27 settembre e in quella del 18 ottobre. Brusco Gregorio XIII prorompe: "non volemo far costui", il G., "cardinale et non volemo dirvi parole, non havendo animo di farlo". Da un lato un rifiuto definitivo, dall'altro una non spiegazione a evitare "parole" che, altrimenti, sarebbero pesanti, ingiuriose per il G. e offensive per chi si ostina ad appoggiarlo. E, ad addolcire il secco diniego, la promessa di "far" cardinali "altri de' vostri", di largheggiare nel promuovere prelati veneti, purché, d'ora in poi, si smetta d'insistere per il Grimani.
Una condizione accolta sin di buon grado a palazzo ducale. Il patrocinio, iniziato nel 1546, delle ambizioni al cardinalato del G. è ormai venuto a noia. Il ruvido scatto del pontefice offre il destro per accantonare un "negozio" ormai incancrenito tacitando il fastidioso persistere delle pretese del G. col rifiuto - finalmente eloquente e senza spiraglio per ulteriori trattative - del pontefice. Al G. non resta che chiudersi nel rimuginio rancoroso un po' consolandosi con le dilette collezioni del suo bel palazzo a S. Maria Formosa nel quale accoglie splendidamente, il 22 luglio 1574, Enrico III di Valois. Un mondanissimo trionfo un po' surrogatorio della porpora negata. Anche per questo e se non altro per questo supponibile Paolo Paruta, ruolizzandolo - nel dialogo Della perfettione della vita politica che, pubblicato a Venezia nel 1579, riproduce una conversazione tra ecclesiastici e politici veneti che si sarebbe svolta, nel 1563, a Trento, in ben tre giorni - quale campione della più assorta contemplazione e del più intransigente disprezzo dei beni terreni, abbia così, maliziosamente, mirato a scalzare le ragioni, di per sé forti, della vita contemplativa affidandole all'argomentare di un uomo a Venezia noto per terrene ambizioni e per terrestri ricchezze.
Certo il G. non brilla - delegando pressoché tutto ai vicari - per zelo pastorale. E se, il 14 ott. 1569, intima al clero del patriarcato di dotarsi del breviario romano entro la prima domenica del prossimo avvento, la confusione liturgica persiste ad Aquileia, se - come riscontra nel 1585 il visitatore apostolico Cesare de Nores - i mansionari recitano l'ufficio secondo l'uso aquileiese, i canonici secondo quello romano. Per di più i "breviari aquileiesi" a stampa si vanno rarefacendo. Non per questo il G. si preoccupa di farne stampare di nuovi. Più che tanto sul versante propriamente religioso il G. non si impegna. Quel che suscita il suo interesse sono le competenze giurisdizionali. E se, nel 1554, valida è la sua mediazione tra Parlamento e contadinanza friulani in merito ai contratti di compravendita cum pacto de retrovertendo, avendo - come lo giudicherà Sarpi - "fisso il pensiero ad acquistar assoluto dominio nelle terre della sua giurisdizione" a tal fine mobilitando "amici e parenti", finisce con lo scontrarsi con la Repubblica, ancorché si finga - è sempre Sarpi a sottolinearlo - "buon cittadino" tutto proteso al "servizio della patria".
Occasionato dalla controversia per la successione del piccolo feudo di Taiedo - Annibale Altan, cui a Venezia non si dà ragione allorché impugna la trasmissione a Elisabetta Altan, si rivolge, con successo, al tribunale patriarcale -, il proclama con il quale, il 29 giugno 1576, il G. vieta ai detentori di feudi in terra patriarcale investiture da lui non provenienti. Così con disdetta clamorosa dei patti del 1445 a dir dei quali la materia feudale non compete al patriarcato. E decisa la reazione del Consiglio dei dieci annullante, il 21 luglio del 1580, un proclama dell'uditore patriarcale Pompeo Pace.
Un "pregiudizio", per la S. Sede, alla Chiesa aquileiese l'intervento dei Dieci. E ordinato al G. di portarsi a Roma "a difendere la ragione de la chiesa sua" di fronte alla congregazione dei cardinali sopra Giurisdizioni vescovili cui è stata affidata la "cognitione" della "causa". Arrivato a Roma il 12 nov. 1580, il G. di fatto vi è sequestrato dal papa che lo vuole cristallizzare nel ruolo di parte lesa nella "causa contro la Signoria di Venetia", non senza poi pretendere che nomini un "procurator" che, avvocato del G., esponga a Gregorio XIII - il quale, il 30 giugno 1583, proclama la questione di propria diretta competenza - le "ragioni" patriarcali. Con il che da un lato il G. diventa nemico della Repubblica, senza dall'altro guadagnarsi le simpatie del pontefice, che non gli concede di tornare a Venezia, perché di lui non si fida, in quanto paventa che faccia marcia indietro. La contesa giurisdizionale Gregorio XIII vuole gestirla in prima persona, adoperando il G. a mo' di pedina da tenere sotto controllo. Ed egli da Ancona - dov'è andato a rimettersi in salute -, il 16 luglio 1583, scrive al Consiglio dei dieci ammettendo che l'"accidente", da lui stesso suscitato, è "uscito fuori oltre ogni mia aspettatione", sì da ritrovarsi spiazzato e usato a mo' di arma contro la Serenissima, della quale continua a dirsi umile e obbediente figlio. Occorre muoia, il 10 apr. 1585, Gregorio XIII, perché, essendo papa Sisto V, il G. possa tornare a Venezia, donando alla quale, il 3 febbr. 1587, le proprie antichità un po' la risarcisce dei tanti fastidi arrecatile e con le smanie cardinalizie e, più ancora, con il suo interventismo giurisdizionale.
A Venezia - fiaccato dal progressivo incrudelire della senescenza - il G. muore, il 3 ott. 1593, appunto, "da vegeza", di vecchiaia, come precisa il necrologio.
Due imprese decorative, realizzate sotto la diretta responsabilità del G., si imposero nel contesto artistico veneziano del XVI secolo: sul versante privato, i lavori compiuti nel palazzo Grimani presso S. Maria Formosa; su quello pubblico, l'apparato decorativo della cappella di famiglia nella chiesa di S. Francesco della Vigna. Il nome del G. è inoltre indissolubilmente legato alla sua formidabile collezione di pezzi classici, che egli in vecchiaia - in linea con l'esempio del cardinale Domenico Grimani - con una decisione eccezionalmente munifica donò alla Repubblica di Venezia, dando vita, sul finire del Cinquecento, a uno dei primi pubblici musei d'arte d'Europa.
Pur dimostrandosi particolarmente attento e aggiornato nella scelta degli artisti ai quali affidare gli impegni legati al suo nome, il G., piuttosto sorprendentemente, non fu attratto dal collezionismo di opere contemporanee. Ciononostante, egli può rientrare appieno nell'esigua classe dei committenti la cui azione è stata capace - attraverso opzioni artistiche rigorose - di promuovere precisi orientamenti di gusto.
Basta scorrere l'elenco dei maggiori pittori che il G. occupò nei suoi cantieri decorativi per rendersi conto dell'originalità e della coerenza delle sue scelte: Giovanni da Udine, Francesco Salviati, Battista Franco, Federico Zuccari, tutti artisti di formazione tosco-romana, legati a vario titolo agli sviluppi della maniera pittorica postraffaellesca e postmichelangiolesca. Sotto la guida del G. il palazzo di famiglia, tra il quarto decennio del secolo e la fine degli anni Sessanta, si trasformò in uno dei laboratori artistici più vivaci di Venezia, e uno snodo primario nella circolazione in area lagunare di quella cultura figurativa manierista che, soprattutto negli anni Quaranta del Cinquecento, avrebbe rappresentato un importante fattore dinamico per la tradizione figurativa locale.
Per quel che concerne gli interventi architettonici, sono state avanzate varie proposte attributive, ma non sono finora emersi riscontri documentari in grado di individuare architetti sicuramente coinvolti nei lavori, e senza che l'analisi stilistica sia pervenuta a un soddisfacente grado di approssimazione. Fu Tommaso Temanza, nel Settecento, ad avanzare per primo il riferimento a Michele Sanmicheli come responsabile della fabbrica, fissando un punto di riferimento che a lungo è stato ritenuto degno della massima considerazione. La paternità del Sanmicheli appare oggi difficilmente sostenibile, se non forse per il maestoso portale sul rio di S. Severo, ma a essa si è sostituita una proliferazione di ipotesi attributive, che hanno chiamato in causa, sempre limitatamente a parti specifiche dell'edificio, i nomi di Sebastiano Serlio (in particolare per il portale d'ingresso e per la loggia, un tempo dipinta, posta su un lato del cortile), Bartolomeo Ammannati (in riferimento alla stupefacente tribuna e al portale su ruga Giuffa), Iacopo Sansovino e Andrea Palladio (soprattutto nella scala a chiocciola, che si richiama a quella progettata dallo stesso Palladio per il convento della Carità). A quest'ultimo, peraltro, negli anni Sessanta il G. commissionò la facciata della chiesa di S. Francesco della Vigna.
Tale superfetazione di riferimenti corrisponde in qualche modo alla varietà, all'eclettismo e alle incoerenze di concezione e di struttura di cui il palazzo offre ampia testimonianza, ferma restando la decisa impostazione classica e monumentale ("Ridotto alla forma romana", disse del palazzo Francesco Sansovino, p. 385), e in particolare l'impronta profonda della cultura architettonica michelangiolesca (sia pur tradotta con abbondanza di licenze). Per ricondurre una trama stilistica tanto composita all'interno di un'unità progettuale, parte della critica si è richiamata alle indicazioni contenute in uno scritto di Muzio Sforza del 1588, Elegie sacre, che loda l'ingegno edificatorio del G. (in Michiel, p. 218). Si è allora ritenuto di attribuire un ruolo particolarmente attivo al G. nella ristrutturazione del palazzo, sino al punto, talora, di considerarlo il vero artefice dell'intera impresa: il che, si direbbe, è assai azzardato.
Man mano che si compivano i lavori architettonici, il G. cominciò a far decorare gli interni del palazzo. La conoscenza profonda e aggiornata del contesto artistico romano lo spinse a trarre ispirazione dai contemporanei edifici patrizi capitolini: la sua scelta cadde così su Giovanni da Udine, collaboratore di primo piano di Raffaello, nonché sommo specialista nella decorazione all'antica e in particolare nello stucco, e Francesco Salviati, artista fiorentino emergente, padrone dei segreti della maniera dei grandi maestri centro-italiani.
Di Giovanni da Udine il G. si valse per decorare i soffitti di due ambienti dallo spiccato carattere antichizzante. In un primo - la stanza di Diana, cosiddetta per il tema delle storie che vi sono raffigurate - la decorazione della volta fu compiuta nel 1539, integralmente in stucchi bianchi (una scelta senza precedenti in ambito lagunare), ancora oggi in ottimo stato di conservazione. I riquadri narrativi sono accompagnati da grottesche e figurazioni geometriche. In un secondo ambiente, la stanza di Apollo, realizzato fra il gennaio e l'agosto del 1540, gli stucchi si combinano con riquadri ad affresco. Al centro del soffitto il bassorilievo con l'Apoteosi del carro del Sole, contornato dalle Storie di Apollo, affrescate da Francesco Salviati. La decorazione pittorica è completata da altri affreschi con uccelli e motivi vegetali, e da una lunetta che rappresenta Episodi della storia di Coriolano, dipinta, circa nel 1555-60, da Battista Franco, un altro dei pittori favoriti dal Grimani. Francesco Salviati era giunto a Venezia nel luglio del 1539, mettendosi subito al servizio dei Grimani. Vasari scrive che "al patriarca, dopo pochi giorni, fece a olio, in un ottangolo di quattro braccia, una bellissima Psiche alla quale, come a Dea, per le sue bellezze sono offerti incensi e voti" (Vasari, VII, p. 18). Il pannello, posto in mezzo alla volta della stanza di Psiche, è oggi perduto, e così pure il resto della decorazione del soffitto. Esso comprendeva quattro riquadri con Storie di Psiche, dipinti a olio da Francesco Menzocchi, pittore forlivese allievo del Genga, nonché festoni e ghirlande opera di Camillo Capelli il Mantovano, attivo in palazzo Grimani anche nella decorazione del soffitto di un'altra stanza, in cui è rappresentato un fitto pergolato. Dell'ottagono di Salviati resta oggi un disegno preparatorio e un'incisione attribuita a Nicolò Vicentino, a testimoniarne la commistione di echi michelangioleschi e suggestioni del Parmigianino. Esso, tra l'altro, fu oggetto di uno dei commenti più spericolati, iperbolici e faziosi pronunciati da Vasari, che lo stimò "la più bell'opera di pittura che sia in tutta Venezia" (ibid., p. 19).
L'ultima impresa pittorica che il G. commissionò per il suo palazzo fu la decorazione ad affresco dello scalone (oggi assai deperita) che, alla maniera romana ma anche sotto l'influsso veneziano della scala d'oro di palazzo ducale e dello scalone della Libreria Marciana, prevedeva di nuovo la coesistenza di pittura e stucco, con gran ricchezza di motivi antiquariali. La scelta del G. cadde anche in questo caso su un pittore del centro Italia di cultura manierista, Federico Zuccari, che quasi certamente compì l'opera nel 1563. Di lì a poco, Zuccari ricevette dal G. l'incarico di completare l'arredo pittorico della cappella Grimani in S. Francesco della Vigna, condotto in precedenza da Battista Franco (morto nel 1561), che vi aveva affrescato la volta con Virtù e Angeli. Zuccari dipinse le due storie ad affresco delle pareti laterali, rispettivamente con la Resurrezione di Lazzaro e con una perduta Conversione della Maddalena, e la pala d'altare, un olio su marmo rappresentante l'Adorazione dei magi, datato 1564, nel quale il pittore si mostrò capace di accogliere qualche suggestione dalla contemporanea pittura veneziana. Concludono la decorazione artistica della cappella due statue in bronzo, ai lati dell'altare maggiore, raffiguranti Giustizia e Fortezza, realizzate da Tiziano Aspetti nel 1592. Nel complesso, non poteva sfuggire il carattere romanizzante e classicista che il G. aveva deciso di imprimere a un ambiente pubblico così rappresentativo.
Il collezionismo di pezzi classici rappresentò per molti versi la principale attività del G. in ambito artistico. Si può fissare l'atto di origine di questa sua passione nel riscatto, per la somma di 3000 ducati d'oro, dei beni del fratello Marino, che a seguito di debiti erano finiti in proprietà di Giulio III. Dopo aver riportato le "anticaglie" di famiglia nel palazzo veneziano, il G. non cessò mai di accrescere la propria raccolta, per la quale investì somme ingenti setacciando, personalmente e attraverso emissari, i più importanti mercati archeologici: Roma e il Veneto, naturalmente, ma anche Aquileia, la Dalmazia, Costantinopoli, Creta, l'Attica e il Peloponneso.
Per molti pezzi importanti della collezione (oggi al Museo archeologico di Venezia) sono state proposte provenienze illustrissime, come Villa Adriana (il frammento di sarcofago attico con Battaglia, la Testa del sacerdote di Iside, l'Erma di filosofo, il Ritratto in basalto), il Pantheon (statue di Marco Agrippa e di Augusto), le terme di Agrippa, l'Iseo Campense. Fu così che la dimora del G. finì col trasformarsi in uno sbalorditivo museo - largamente celebrato nelle fonti dell'epoca - che coinvolgeva il cortile e culminava nell'ambiente della Tribuna.
Francesco Sansovino restituisce efficacemente il fascino e la ricchezza che dovevano sprigionare le collezioni del G.: "Ha fabbricato un luogo celebre e ripieno di bellezze antiche e singolari per quantità e qualità. Perciocché vi si veggono in diverse stanze ch'entrano l'una nell'altra, figure intere e spezzate, torsi, e teste in tanta abbondanza che nulla più, e tutte elette e di pregio. Oltre a ciò lo studio appartato delle medaglie […] con altre cose di gioie, di marmi, e di bronzo […] Alfonso Duca di Ferrara e Enrico Terzo Re di Francia, l'anno 1574 vi stettero tutto un giorno a considerarlo" (Sansovino, p. 372).
Il G. ricercava con particolare alacrità statue, statuette, busti e teste di divinità e figure allegoriche, nonché ritratti di imperatori e patrizi, di manifattura sia romana sia greca. Nutriva una speciale predilezione per l'arte greca, soprattutto del periodo classico, ciò che costituì una peculiarità significativa nel panorama del collezionismo cinquecentesco di antichità. La sua collezione contemplava un gran numero di rilievi, iscrizioni, vasi, basi di candelabro e urne funerarie (materiale per lo più acquisito sul mercato romano), oltre naturalmente a una quantità imponente di cammei, gemme, monete e medaglie, che in buona parte provenivano dalle raccolte di Domenico e Marino Grimani.
Il 7 febbr. 1587 il G. manifestò al Senato la volontà di donare alla Repubblica una parte significativa delle sue collezioni (quasi 200 pezzi), con lo scopo precipuo di costituire un museo pubblico in un luogo degno. Le opere di sua proprietà sarebbero state quivi riunite con quelle provenienti dal lascito del cardinale Domenico Grimani, che erano state rimosse dalla loro collocazione storica nella cosiddetta sala delle Teste, e che egli avrebbe provveduto a far restaurare. I senatori accettarono prontamente il lascito. Nel 1590 il Collegio stabilì come locale destinato all'esposizione l'antisala della Libreria Marciana, che sotto la direzione di Vincenzo Scamozzi sarebbe stata ristrutturata per la circostanza. Finché le forze glielo consentirono, il G. seguì personalmente i lavori di quella che doveva considerare l'impresa alla quale affidare la memoria di sé. La sorte non gli consentì però, di vedere ultimato lo Statuario pubblico, che fu compiuto nel 1596, quasi tre anni dopo la sua morte, sotto le cure del procuratore Federico Contarini.
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