GRILENZONI, Giovanni
Nacque a Reggio nell'Emilia il 6 apr. 1796 dal conte Bernardino, gentiluomo di corte del duca di Modena e discendente di un'antica famiglia che aveva ottenuto il titolo comitale nel 1772, e dalla contessa Claudia Scaruffi. Per ragioni ereditarie il padre, uomo devoto al sovrano e alla Chiesa, aveva aggiunto al proprio cognome quello di Falloppia; con lui il G. entrò presto in conflitto: ne accettò la decisione di iscriverlo al Collegio militare di Modena ma poi, dopo essersi arruolato col grado di luogotenente nel battaglione estense (1814), non tardò a uscirne, attratto dalle organizzazioni settarie che la carboneria stava diffondendo in Italia centrale agli albori della Restaurazione. Affiliato agli adelphi nel 1818, sul finire del 1820, dopo un viaggio di iniziazione nelle Romagne e a Napoli compiuto alla vigilia della rivoluzione, passò ai sublimi maestri perfetti e si diede subito da fare per propagare la setta, forte di una personalità e di un tenore di vita che gli aprivano le porte della società, dove erano molto apprezzati il suo stile disinvolto e le doti di dilettante di musica e canto, che aveva coltivato fino a raggiungere livelli di vera eccellenza.
A conclusione dell'epoca dei primi moti liberali, il 26 febbr. 1822 fu spiccato contro di lui un ordine di arresto a cui riuscì a sottrarsi con la fuga, favorita, sembra, da un canonico che aveva aderenze a corte e che lo avrebbe accompagnato al confine dopo averlo aiutato a travestirsi da prete. Seguì l'11 sett. 1822 la sentenza del tribunale statario di Rubiera che lo condannava a morte in contumacia e all'esecuzione della pena in effigie in quanto reo, oltre che di appartenenza alla carboneria, di avere presenziato nel febbraio 1821 all'affiliazione di altri quattro elementi (uno dei quali era Giovanni Sidoli, marito di Giuditta Bellerio).
Costretto all'esilio, il G. ottenne a Parma un visto per la Svizzera e si rifugiò a Lugano. I primi anni furono abbastanza sereni perché, malgrado la condanna lo avesse privato del godimento dei beni paterni che erano stati affidati in amministrazione a un cugino sulla cui onestà in seguito egli avrebbe espresso più di un dubbio, l'aiuto della famiglia e alcune occupazioni come insegnante privato di matematica gli consentirono di conservare qualche agio e di viaggiare con una certa frequenza visitando la Francia, l'Inghilterra - dove un impresario gli offrì una scrittura come primo tenore, che rifiutò - e, nell'aprile 1823, il Belgio. Carattere espansivo e bonario, legò bene con l'ambiente degli esuli e nel tempo strinse contatti con molti di essi, frequentando il salotto ginevrino di Cristina Trivulzio di Belgioioso e diventando amico, tra gli altri, di C. Ugoni, di A. Gabrini, dei fratelli Ciani e perfino di Luigi Napoleone Bonaparte; non furono meno cordiali i rapporti con la popolazione locale, in cui si inserì gradualmente avviando un commercio di granaglie, dando impulso alla Filarmonica di Lugano e sposando Caterina Battaglini, sorella di un noto avvocato ticinese, più tardi impegnato spesso nella tutela legale degli esuli. La naturalizzazione svizzera, dal G., chiesta e ottenuta nel Cantone d'Argovia (1828), costituì dunque un sicuro punto d'arrivo del suo processo di integrazione.
Alla politica non aveva comunque rinunziato. Staccatosi dalla carboneria, con cui ancora nel 1831, d'accordo con G. Pepe ed E. Misley, aveva ideato un colpo di mano poi abortito su Massa e Carrara, si accostò successivamente alla Giovine Italia partecipando nel 1833 alla preparazione della spedizione di Savoia e conoscendo in quell'occasione G. Mazzini, che fu suo ospite a Lugano e che inizialmente non parve avere grande fiducia nel G., cui era arrivato tramite G. Ciani e che all'inizio del 1835 aveva definito "cospiratore diplomatico, pauroso, incerto", uno che a suo parere "meritava d'essere Carbonaro" (Scritti, X, p. 297). Seguì un lungo periodo di silenzio, nel corso del quale la situazione del G. si fece via via più precaria sotto il profilo economico e comparvero i primi disturbi che ne minarono la salute. Nel novembre 1839 il governo ticinese, sensibile alle pressioni austriache, decretò, con quella di altri esuli, anche la sua espulsione: rifugiatosi in Argovia, il G. attese che il 10 dic. 1839 una rivoluzione portasse al potere in Ticino una classe politica più avanzata per fare ritorno a Lugano. Era entrato però in una fase molto più critica che in passato: come avrebbe spiegato il 10 ott. 1844 a una cugina rimasta in Italia, "la perdita dei beni, il tradimento, la perfidia con cui sono stato assassinato nei miei interessi, l'essere costretto a lavorare come un martire, non per tirare il fiato, ma per vivere con appena onesti comodi, sono cose tutte che fanno a 48 anni comparire un uomo di oltre 60" (A. Cremona-Casoli, p. 9).
A chiudere questo periodo tormentato giunse nel maggio del 1847 la vertenza con la Commissione annonaria del Ticino, alla quale aveva procurato una fornitura di 150 moggia d'orzo per un valore di 5000 lire e che gli era stata protestata perché non corrispondente al campione concordato: vistosi respingere il ricorso da lui presentato, il G. pubblicò un opuscoletto (Conseguenze di una falsa asserzione, Lugano 1847) in cui si tolse almeno la soddisfazione di spiegare le proprie ragioni.
Questa condizione spiega come la rivoluzione del 1848 rappresentasse per lui anche sul piano personale una speranza reale di cambiamento. Il G. vi si tuffò in pieno, tornando a Reggio Emilia e assumendovi il comando della guardia nazionale con il grado di colonnello; ciò che però lo caratterizzò nettamente fu il fatto di opporsi con decisione alla fusione con il Regno di Sardegna, il che, a restaurazione ducale avvenuta, lo riqualificò agli occhi di Mazzini, che da allora ebbe in lui il più fidato e devoto dei collaboratori, e ciò tanto più dopo la prematura scomparsa di G. Lamberti (1851), reggiano anch'egli e già segretario della congrega di Francia della Giovine Italia.
Dalla fine del 1848 Mazzini entrò in regolare corrispondenza col G., che gli rispondeva usando talvolta gli pseudonimi di Fiorini o Reggianini e che per lui si prodigò in un instancabile quanto oscuro lavoro di raccordo con le disperse membra dell'esulato repubblicano, smistando comunicazioni segrete, effettuando qualche puntata in Piemonte, offrendo protezione ai ricercati, raccogliendo e custodendo informazioni, creando qua e là piccoli depositi di armi, tenendo insomma dalla Svizzera le fila di quel vasto lavorio cospirativo che sarebbe poi sfociato nel fallito moto milanese del 6 febbr. 1853. In particolare il ruolo del G., che dal 1848-49 aveva cominciato a gravitare intorno alla Tipografia elvetica di Capolago, si rivelò importante per lo spaccio delle cartelle del Prestito nazionale, lanciato sul finire del 1850 da Mazzini per procurare alla causa i fondi necessari per riprendere la lotta all'Austria: custode scrupoloso quanto oculato dei denari del fondo, il G. divenne e rimase per i venti anni successivi l'amministratore e l'erogatore delle somme raccolte, e lo fece, come attestò Mazzini, "per puro patriottismo, senza utile alcuno" (Scritti, Appendice, VI, p. 569). Non meno delicato fu poi il tentativo che il G. mise in atto per ridare compattezza al fronte democratico, allora spaccato dalle dispute tra federalisti e unitari: cercò infatti di far leva sul patriottismo di C. Cattaneo per convincerlo a entrare in un unico grande partito repubblicano, ma quando si accorse che i suoi sforzi erano vani non esitò a portare sui giornali la polemica antifederalista, diretta a colpire soprattutto G. Ferrari, col risultato di contribuire a esasperare gli attriti piuttosto che a smussarli.
Specialmente nei primi anni in cui riprese a collaborare con Mazzini non mancò tra i due qualche dissenso, in particolare quando il G. manifestò qualche dubbio sulle carenze organizzative e sulle attitudini militari del partito o quando suggerì ad A. Saffi che ci si impegnasse maggiormente nella propaganda scritta ("sono gli stampati in oggi i nostri cannoni", gli scrisse il 26 marzo 1851) e che si rendesse più appetibile il Prestito offrendo ai sottoscrittori un congruo interesse. Poi, tuttavia, fu proprio l'inarrestabile crisi in cui entrò il mazzinianesimo dopo gli insuccessi cospirativi del 1853-54 a rafforzare la sua tenuta ideologica, facendogli avvertire come mai in precedenza il peso di una responsabilità che ora si restringeva più che altro a cercare di frenare l'emorragia di consensi che portava molti degli antichi adepti verso la soluzione monarchica e sabauda.
In questa sua attività di sostegno alle iniziative insurrezionali il G. ebbe a subire ancora qualche noia giudiziaria: il 29 ag. 1853 l'alto tribunale federale di Losanna lo processò, insieme con C. Cassola e L. Clementi, "pel sospetto di avere, in violazione del diritto internazionale, appoggiato (con spedizioni di armi) una rivolta nella Lombardia" (Il processo Clementi…, ne Il Dovere di Locarno, 13 ott. 1923); esattamente un anno dopo la sua casa di Viganello fu sottoposta a un'accurata perquisizione che non diede l'esito sperato e contro la quale il G. protestò con due articoli pubblicati sull'Italia e popolo di Genova del 5 e dell'8 sett. 1854.
I successi diplomatici della politica cavouriana e l'allontanamento ormai definitivo della prospettiva repubblicana ebbero alla lunga sul G. l'effetto di aggravare psicologicamente la sua condizione di esule sempre più malandato in salute. Fu allora che, nella speranza di recuperare i beni lasciatigli dal padre, all'inizio del 1858 egli si risolse a rivolgere a Francesco V di Modena due suppliche con cui chiedeva, senza peraltro compiere alcuna abiura, di essere riammesso in patria anche in considerazione delle due amnistie concesse nel 1848 e da lui non sfruttate. Le suppliche furono entrambe respinte, ma, ritrovate qualche anno dopo negli archivi estensi, servirono a Nicomede Bianchi, che già aveva attaccato il G. in un suo lavoro del 1852, a impiantare una velenosa polemica contro il concittadino, colpevole ai suoi occhi di non avere accettato nel 1848 l'ipoteca dell'annessione del Ducato al Piemonte.
Sempre più risoluto nel suo repubblicanesimo, il G. sembrò trovare nuova lena dopo il compimento dell'Unità. Intanto rivide Reggio Emilia, e subito, il 30 ag. 1859, chiese e ottenne il 21 genn. 1860, insieme con la restituzione dei beni sequestrati, l'annullamento della sentenza del 1822. Scrupoloso esecutore di tutte le istruzioni che Mazzini periodicamente gli inviava, fu lui a convincerlo a completare la stesura dei Doveri dell'uomo, offrendosi di pubblicarglieli in volume, come avvenne infatti con la prima edizione, uscita a Lugano a fine estate del 1860; per parte sua non riluttava dall'intervenire nel dibattito politico con frequenti articoli per l'Unità italiana di Milano e per il Popolo d'Italia di Napoli.
Da allora l'obiettivo che cercò di conseguire con maggior tenacia fu la composizione dell'annoso dissidio tra Mazzini e Garibaldi: come Mazzini, era persuaso che Garibaldi non fosse una testa politica, ma lo riteneva indispensabile per il compimento dell'Unità nazionale, e tale idea provò a far valere nelle vesti pubbliche che via via venne indossando, come vicepresidente della Società operaia di Reggio e come membro dell'Associazione emancipatrice italiana (ruolo, quest'ultimo, che nel 1862 gli permise di incontrare di persona a Genova Garibaldi, con il quale sarebbe poi rimasto in corrispondenza per qualche anno ricevendone rassicurazioni, poi non confermate nei fatti, sulla sua devozione "per quel grande apostolo della Causa Santa del nostro Paese"). Visceralmente avverso al regime monarchico, non rinunziò tuttavia all'idea di proporre riforme che, come il suffragio universale e l'indennità ai deputati, avrebbero potuto favorire la crescita democratica della società italiana (Alcune parole in risposta ad uno scritto intitolato Agli elettori…, Milano 1861); il pensiero di riferimento restava però quello mazziniano, dal quale ricavava anzitutto il concetto che "l'associazione è la parola d'ordine dell'avvenire" e che si dovesse puntare a un innalzamento morale e materiale delle masse con l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, con le imposte progressive, con il credito a basso interesse non per costruire una impossibile eguaglianza ma per inserire anche i ceti umili nel processo di crescita della società (temi, questi, da lui trattati nell'opuscolo Gli operai e la politica, Milano 1861).
Un'altra pista seguita dal G. dopo l'Unità lo portò per breve tempo a sondare la possibilità di un accordo delle forze rivoluzionarie con Vittorio Emanuele II. Già nel 1860, rivedendo per la pubblicazione il testo dei Doveri dell'uomo, aveva persuaso Mazzini a eliminare dalla prefazione alcune espressioni che gli erano parse troppo antimonarchiche; poi, l'8 sett. 1861, riuscì a farsi ricevere dal re in persona, cui recapitò uno scritto di Mazzini ove si sottolineava l'urgenza di sciogliere la questione romana se si voleva evitare all'Italia la guerra civile: "Mi rispose che aveva ferma speranza che in tre settimane tutto sarebbe accomodato col mezzo di Rattazzi che egli aveva spedito a Parigi!!!", raccontava un anno dopo a una sua conoscente (lettera del 24 ag. 1862, Roma, Museo centr. del Risorgimento, b. 97/19), deluso da una piega che di lì a poco avrebbe trovato conferma nei fatti di Aspromonte. Il ritorno a un'opposizione più rigida lo spinse quindi a tentare la via delle elezioni politiche, appoggiato pubblicamente da Garibaldi e sostenuto a spada tratta dal periodico reggiano La Rivoluzione: candidatosi nel 1865 nel collegio di Reggio, fu aspramente combattuto da un foglio moderato locale che lo costrinse a ritirarsi; eletto comunque a Castelnuovo dei Monti (dove pure si era presentato), il 7 nov. 1865 diffuse da Lugano una lettera agli elettori con cui comunicava di aver deciso di rifiutare la rappresentanza per non dover prestare giuramento al re. Fu appunto questo scatto di coerenza mazziniana che fece di lui il bersaglio delle "rivelazioni" di N. Bianchi di cui già si è detto. Mazziniane erano pure le ultime iniziative (diffusione della Falange sacra, raccolta di fondi) in cui egli si impegnò nonostante avesse il fisico prostrato da gravi disturbi cardiaci e il morale reso timoroso dall'età. Da qualche anno M. Quadrio e la famiglia Nathan lo avevano raggiunto a Lugano, dove incontrava talvolta Cattaneo e dove spesso gli faceva visita Mazzini: assistito da loro, si spense il 5 marzo 1868.
Lo commemorarono, tra gli altri, V. Brusco Onnis e I. Pederzolli, e nel 1882 Saffi dettò un'iscrizione per una lapide da apporre sulla sua casa natale. Il 23 sett. 1951, per disposizione dell'amministrazione comunale di Reggio, i suoi resti furono traslati da Lugano e accolti nel famedio del cimitero cittadino.
Fonti e Bibl.: Nel corso della sua vita il G. fu in contatto più o meno a lungo con esponenti grandi e piccoli dello schieramento democratico e repubblicano: sue lettere si conservano, dunque, in molti archivi, a cominciare da quello della Domus Mazziniana di Pisa, dove è presente un fondo di Carte Grilenzoni comprendente tre indirizzi a Vittorio Emanuele II del settembre-ottobre 1861, una lettera a Mazzini e 13 di diversi al G. (il fondo è pubblicato in Comitato per la Domus Mazziniana, Catalogo degli autografi, documenti e cimeli, a cura di A. Mancini - E. Michel - E. Tongiorgi, Pisa 1962, pp. 67-82; nello stesso archivio si conservano altre 16 lettere del G. a G. Dolfi, A. Ghisleri e V. Brusco Onnis); tra le lettere inedite ricorderemo quelle (circa 40) conservate nel Museo centr. del Risorgimento di Roma, le 13 della Raccolta Piancastelli nella Biblioteca com. di Forlì (cfr. Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, XVIII, p. 107), le 10 delle Carte Bertani del Museo del Risorgimento di Milano (cfr. Le carte di Agostino Bertani, Milano 1962, ad indicem), quelle dell'Archivio Macchi nella Biblioteca G. Feltrinelli di Milano (sei delle quali pubblicate da F. Della Peruta, Carlo Cattaneo politico, Milano 2001, pp. 155, 160-167) e quelle del Fondo Dolfin dell'Ist. regionale superiore etnografico di Nuoro (lettere a G. Asproni). Tra le edite, ove prevalgono le lettere dirette a lui, si segnalano quelle numerosissime di G. Mazzini, Edizione naz. degli scritti (per la consultazione si vedano gli Indici, a cura di G. Macchia, Imola 1972, I, ad nomen), di M. Quadrio, Epistolario, I-II, Roma 1879 (il secondo volume raccoglie esclusivamente lettere al G. degli anni 1850-54), di G. Garibaldi, Epistolario, VI-VIII e X, Roma 1983-97, ad indices; sue lettere sono pubblicate da G.E. Curatulo (Il dissidio tra Mazzini e Garibaldi. La storia senza veli, Milano 1928, pp. 375-380), da A. Cremona-Casoli (La vita in esilio del dott. Pietro Umiltà da due lettere ined. del conte G. G., estr. da Studi e documenti. R. Deputaz. di storia patria per l'Emilia e la Romagna. Sez. di Modena, II [1938], 3-4), e da R. Giusti (Lettere ined. di G. G. e di Emma Herwegh, in Annuario dell'Ist. tecnico A. Pitentino, Mantova 1959, pp. 43-57). Poche, concise e datate le biografie del G.: L. Assing, In memoria di G. G., Genova 1868; M. Aldisio Sammito, G. G. e le sue memorie stor. d'Italia dal 1821 al 1868, Licata 1871; R. Marmiroli, Discorso commemorativo, in G. G. patriota reggiano, 1796-1868. In occasione della traslazione delle sue ceneri, Reggio Emilia 1951; più numerosi i lavori su singoli momenti della sua vita: E. Pometta, Il processo Clementi, Cassola e G. nel 1853 a Lugano, 12 puntate in Il Dovere (Locarno), 13 ott. 1923 - 17 marzo 1924; C. Jannaco, Nicomede Bianchi e la questione G., in Rass. stor. del Risorgimento, XXVI (1939), pp. 829-844; R. Marmiroli, La polemica tra Nicomede Bianchi e G. G. al lume di nuovi documenti, ibid., XXXIX (1952), pp. 244-259; Id., Come il conte G. G. e Prospero Pirondi sfuggirono alla mannaia di Francesco IV?, estr. da Il Pescatore reggiano, Reggio Emilia 1953; Id., Grilenzoniana, in L'Emilia storica letteraria, I (1964), 2 e 3; V. Chiesa, Duello mancato per il colonnello Luvini e il conte G., in Arch. stor. ticinese, III (1962), pp. 517-524; R. Finzi, Il processo di "Purgazione di contumacia" chiesto dal conte G. G., istruito e celebrato a Reggio Emilia nel 1859-1860, estr. da Il Pescatore reggiano, Reggio Emilia 1976. Frequenti i riferimenti al G. in opere dedicate alla storia del mazzinianesimo: R. Manzoni, Gli esuli italiani nella Svizzera (da Foscolo a Mazzini), Milano 1922, pp. 94, 163 s.; R. Caddeo, La Tipografia elvetica di Capolago, Milano 1931, ad indicem; F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano 1958, ad indicem; S. Mastellone, Mazzini e la "Giovine Italia" (1831-1834), I-II, Pisa 1960, ad indicem; M. Battistini, Esuli italiani in Belgio (1815-1861), Firenze 1966, pp. 72 s.; N. Rosselli, Mazzini e Bakunin. Dieci anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Torino 1967, pp. 93 n., 100; Mazzini e i repubblicani italiani. Studi in onore di Terenzio Grandi, Torino 1976, ad indicem; G. Monsagrati, Federalismo e unità nell'azione di Enrico Cernuschi (1848-1851), Pisa 1976, ad indicem. Alcune segnalazioni di documenti relativi al soggiorno del G. in Svizzera in Il Cantone subalpino. Omaggio a Giuseppe Martinola, Lugano 1988, ad indicem. Tra i repertori: E. Manzini, Memorie stor. dei reggiani più illustri, Reggio Emilia 1878, pp. 501-504; Dict. historique et biographique de la Suisse, III, s.v. Grillenzoni; Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v.; Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, I, pp. 285 s.; II, pp. 108, 457.