GRADENIGO, Giovanni
Figlio di Marino di Marco, fratello del doge Pietro, e di Maria Dandolo, presunta figlia del doge Giovanni, nacque a Venezia intorno al 1279.
Il padre del G. aveva avuto una rilevante carriera politica e diplomatica; più volte in Minor Consiglio e ripetutamente eletto in Pregadi, fu anche due volte duca di Creta, nel 1278-80 e nel 1282-83, e nell'isola trovò la morte nel 1283; fu sepolto nella chiesa di S. Marco di Candia. Il G. ebbe almeno tre fratelli maschi, Luca, Tommaso e Michele, quanto a eventuali sorelle nulla è dato sapere; le genealogie del Barbaro, come al solito, tacciono a questo riguardo.
Si sposò quasi certamente due volte. La prima moglie sarebbe stata una tal Adriana Borromeo; della seconda, che fu dogaressa, si conosce solo il battesimale, Felipa, ma non il casato. Ebbe almeno nove figli, cinque maschi, Marino, Pietro, Luca, Tommaso, Orso, e quattro femmine, Caterina, Cristina, Angioletta e Marchesina.
I figli del G. non ebbero modo di distinguersi, offuscati forse dalla figura paterna, ovvero penalizzati dal nepotismo dimostrato a suo tempo dal doge Bartolomeo Gradenigo, che aveva eccessivamente favorito e appoggiato le fortune politiche dei propri discendenti, e di conseguenza provocato l'intervento "punitivo" erga omnes del Maggior Consiglio. Luca fu ripetutamente in Consiglio dei dieci e in Minor Consiglio, mentre Marino è ricordato per essere stato più volte in Minor Consiglio, savio agli Ordini, castellano di Corone e Modone nel 1358-59 e per altri incarichi pubblici di minor rilevanza. Non del G., bensì del doge Bartolomeo era invece figlio quel Pietro che il Cappellari vuole conte a Traù nel 1355. L'omonimo figlio del G. premorì anzi al padre, come sembra attestare anche il testamento presentato da quest'ultimo al notaio Vettore Gaffaro il 7 genn. 1353, mentre si apprestava a partire per Capodistria in veste di rettore. Nelle sue ultime volontà il G. istituì infatti quali esecutori testamentari la moglie Felipa, la figlia Caterina e i figli Marino, Orso, Tommaso e Luca, senza fare alcuna menzione di Pietro. Quanto alla contrada di residenza, questa variò da S. Polo a S. Stae, da S. Marco a S. Stefano.
A differenza degli altri due dogi di casa Gradenigo, il G. prima di accedere alla più alta carica dello Stato veneziano aveva percorso a una a una tutte le tappe di una brillante carriera pubblica nella quale, tuttavia, non sempre è possibile distinguere con assoluta certezza il futuro principe dagli omonimi pressoché coevi, Giovanni, figlio del doge Bartolomeo, Giovanni da S. Vidal e Giovanni figlio di Nicolò, più giovane comunque di qualche decennio. Molto spesso, infatti, i soprannomi e l'indicazione delle contrade di residenza non aiutano a sciogliere del tutto i dubbi e le incertezze, mentre le fonti, documentarie e cronachistiche, relative a questo periodo generalmente omettono l'indicazione del patronimico.
Il primo incarico pubblico documentato, ma quasi certamente non il primo in assoluto, fu l'ambasciata alla Comunità di Ferrara sostenuta nel 1319, insieme con Giovanni Valaresso, che diede occasione al G. di mettere in mostra le sue capacità e soprattutto la sua abilità nel condurre in porto anche i negoziati più complessi e apparentemente privi di soluzione. Sufficientemente sicura quindi la sua presenza a Traù nel 1329 nelle vesti di conte. Anche in questa occasione il G. seppe mettere a frutto la sua perizia e la sua non comune preparazione giuridica, riuscendo a comporre la delicata vertenza che aveva messo in contrapposizione il vescovo di Spalato e il locale rettore veneziano.
E fu soprattutto questa non comune padronanza del diritto veneziano ("municipale" dicono le fonti) e comune (o romano) che costituì il presupposto per la presenza altamente qualificata del G. in numerose commissioni di provveditori ovvero di savi - solitamente tre, meno spesso cinque, sei o più - incaricate, prima che raggiungessero stabile e definitiva organizzazione le tre "mani" di savi del Collegio, di esaminare delicate questioni che richiedevano equilibrio, preparazione giuridica anche in ambito internazionale, esperienza politica e amministrativa, e quindi di riferire in Pregadi ed eventualmente di "mettere parte". Il G. fu così chiamato nel marzo e nell'aprile del 1332 a occuparsi, in qualità di savio, assieme con Giovanni Venier, dell'andamento della guerra in Istria, che opponeva Venezia al patriarcato di Aquileia e al re di Ungheria Carlo I d'Angiò.
Il 4 febbr. 1333 fu chiamato a far parte di una commissione di cinque savi incaricata di esaminare sotto il profilo giuridico, e poi riferire in Pregadi, i patti stipulati a suo tempo con Savona e con Genova; e il 17 aprile dello stesso anno fu eletto in una commissione di tre savi deputata a esaminare le scritture trasmesse dal conte di Pola. In Minor Consiglio almeno a far tempo dal successivo mese di luglio, nel mese di novembre fu nominato ambasciatore presso papa Giovanni XXII, ad Avignone, insieme con Andrea Baseggio, che morì durante il viaggio; i diplomatici veneziani, che avrebbero dovuto incontrare anche il re di Francia Filippo VI, avevano il compito di definire con la corte pontificia un'alleanza militare mirata alla riconquista della Terrasanta. In questa occasione gli venne concesso dal Pregadi di farsi accompagnare da un figlio (le fonti non specificano quale), a spese del Comune.
In Quarantia - della quale fu più volte capo - nel 1334, e in Minor Consiglio nel 1335 e nel 1338, fu ancora chiamato a dare il suo apprezzato contributo ai lavori del Pregadi quale savio nel maggio del 1336, nel settembre del 1337, nel maggio del 1349 e nel febbraio del 1352.
Tra l'inverno del 1339 e la primavera dell'anno successivo il G. fu quindi a Costantinopoli, presso l'imperatore d'Oriente Andronico III, nella duplice veste di bailo e di ambasciatore, con il compito di comporre tutte le controversie ancora aperte e di rinnovare la tregua in corso. Doveva anche cercare di ottenere il risarcimento dei numerosi danni inferti dai sudditi dell'imperatore ai Veneziani. Ritornato in patria agli inizi dell'estate del 1340, già nell'autunno dello stesso anno fu eletto rettore di Treviso, città che da poco era entrata a far parte dei domini veneziani di Terraferma. Da Treviso passò, quasi senza soluzione di continuità, a Padova, chiamato da Ubertino da Carrara, al quale lo legavano anche stretti vincoli di parentela, a svolgere le funzioni di podestà.
Dopo essere stato in Minor Consiglio per tutto il primo semestre del 1344, il G. riprese nel 1347 le ormai consuete funzioni diplomatiche, dapprima per recarsi ambasciatore a Giacomo (II) da Carrara, signore di Padova, insieme con Andrea Morosini, "per dolersi delle promesse da lui fatte al re d'Ungheria di concedergli il passo per quel territorio contro le convenzioni tra la Repubblica e lui" (P. Gradenigo, Memorie istorico-cronologiche, c. 329v); e quindi, unitamente a Pietro Trevisan, Marino Grimani, Marco Dandolo, Andrea Soranzo e Tommaso, figlio del fratello Luca, per ossequiare Luigi I d'Angiò re d'Ungheria che attraversava i territori della Repubblica diretto a Napoli. Il 5 febbr. 1349 il G. fu poi chiamato a far parte della rappresentanza diplomatica che doveva esprimere a Giovanni Visconti le condoglianze della Repubblica per la morte del fratello Luchino; in questa occasione lo accompagnarono Giovanni Contarini magnus e Giovanni Mocenigo. Nello stesso anno, insieme con altri cinque colleghi, venne inviato incontro al legato pontificio che da Verona si stava dirigendo verso Venezia, e quindi fu eletto ancora una volta ambasciatore a Luigi d'Ungheria, con Nicolò Pisani e Filippo Orio. Nel marzo del 1350 il G. era anche stato eletto ambasciatore presso papa Clemente VI ad Avignone, ma a causa delle cattive condizioni di salute, imputabili soprattutto all'età avanzata, poté rifiutare l'incarico senza dover pagare alcuna ammenda. E lo stesso successe qualche mese dopo, quando il 18 giugno il Pregadi accettò il suo rifiuto di recarsi in Friuli, dove pure era stato inviato in missione diplomatica.
Rimasto a Venezia, il G. venne eletto nel mese di marzo del 1350 avogador di Comun, portando a termine il suo mandato nel mese di marzo dell'anno successivo. Nel gennaio del 1353 fu eletto podestà di Capodistria, e prima di partire per il centro istriano dettò le sue ultime volontà al notaio Vettore Gaffaro.
Il momento più significativo della vita pubblica del G. arrivò un paio di anni dopo, nel 1355, con la feroce repressione della congiura di Marino Falier, il vecchio doge che, stando ai postulati di una stratificazione cronachistica e storiografica affatto discutibile, avrebbe tentato di farsi signore di Venezia, esacerbato dal rancore e dal risentimento nei confronti dell'establishment; un gruppo di potere, del quale nondimeno il Falier aveva a lungo fatto parte, che non avrebbe punito a dovere chi aveva offeso il suo onore e quello della moglie, Aluica Gradenigo.
Secondo la ricostruzione di Marino Sanuto il G., insieme con Nicolò Lion, fu uno fra i primi a venire a conoscenza del maldestro tentativo insurrezionale del doge. E in effetti le menti della repressione, ammesso ancora una volta che veramente di congiura e non di colossale ingenuità si fosse macchiato il Falier, furono giusto il G. e Nicolò Lion - ai quali si unì in un secondo momento Marco Corner - i quali indirizzarono l'azione inquisitoria del Consiglio dei dieci, dall'interno della zonta istituita soprattutto per loro iniziativa. La posizione del G. era infatti quella della parte politica che aveva deciso di liquidare un doge ormai ingombrante - vera o presunta che fosse la sua partecipazione alla congiura - perché esponente di punta della fazione uscita sconfitta dai torbidi di quella sorda lotta per il predominio cittadino che si stava giusto concludendo al giro di boa di metà secolo, ultimo atto di un violento confronto sociale innescato, guarda caso, dalla riforma costituzionale voluta da Pietro Gradenigo.
Per Marino Falier, ormai avanti negli anni, privo di eredi maschi e affaticato da tutta una vita spesa al servizio dello Stato, in patria e più spesso fuori, erano purtroppo già pronti il carnefice, la coreografia del supplizio, la damnatio memoriae e l'ignominia postuma. Non molti anni dopo che la mannaia del carnefice aveva troncato la sua testa correva infatti indisturbata la voce che la dogaressa, Aluica Gradenigo, parente stretta del G., avesse ripetutamente tradito il marito con alcuni giovani rampolli del patriziato. Questo il casus belli della "congiura" ducale.
Fu proprio il G. ad annunciare al doge che era stato giudicato colpevole di tradimento e condannato alla pena capitale. Insieme con Marino Falier vennero giustiziati tutti gli altri traditori, vittime forse della ragion di Stato, certamente comparse fuori luogo in una tragedia cui non avevano chiesto di partecipare. La resa dei conti poteva ora dirsi veramente chiusa. Mancava solamente l'ultima formalità, la promozione a doge di chi si era fatto parte diligente nel mandare a effetto l'unica vera congiura, quella voluta, organizzata e perpetrata da quel ristrettissimo gruppo dirigente sopravvissuto a mezzo secolo di accurata selezione interna, che aveva visto nei Gradenigo forse gli interpreti più fedeli e i più abili esecutori di un preciso disegno politico, sociale ed economico a un tempo.
Il 21 apr. 1355, nonostante l'età avanzata e la salute alquanto malferma, venne infatti eletto doge proprio il G., uno dei cinque correttori della "promissione" ducale, che fu tra i 41 grandi elettori nell'ultima decisiva votazione. Un compito particolarmente gravoso attendeva il nuovo doge: chiudere in tutta fretta la torbida vicenda della congiura e al tempo stesso rappacificare una città già duramente provata dalla dispendiosa guerra con Genova e con Milano. Represso rapidamente ogni fermento di agitazione interno, come riferisce acutamente il cronista, fu possibile concludere la pace con Genova e con Milano: "Ancora che fosse Zan Gradenigo ditto Nason molto vecchio, el fu però molto diligente et molto sollecito in tutte le fadighe del governo. Et havendo comenzà a rezer il Comun adì 21 avril 1355, la prima cosa el se sforzò et messe cura in estirpar et cavar del tutto le raise tutte della congiura del dose premorto. Et poiché s'havè procedutto con severità et con apparenza d'asprezza contra i primi capi, come zà s'è visto, per pacificar la terra et per ridar il popolo alla quiete et all'amor verso la nobiltà, che con questo tittolo s'haveveno come ho ditto altre volte zà alcuni anni avanti quei del Consiglio comenzadi a chiamar, voltò l'animo alle carezze et all'amorevolezza" (Cronaca veneziana… attribuita a Daniele Barbaro, c. 88r).
Durante il ducato del G., molto breve com'era facilmente prevedibile data l'età avanzata, si aprì tuttavia un nuovo pericolosissimo fronte di guerra con Luigi di Ungheria, opportunamente istigato dal patriarca di Aquileia e da Francesco da Carrara, che portò le truppe nemiche a percorrere in lungo e in largo il territorio trevigiano e ad assediare duramente lo stesso capoluogo. Nonostante le buoni intenzioni del G., si annunciavano i primi turbinosi venti di una guerra lunga ed estremamente disastrosa per le finanze veneziane, alla quale nel 1381 avrebbe posto fine, ancorché in maniera non definitiva, solamente la pace di Torino, quella pace che vide la presenza determinante nelle trattative di un altro Gradenigo, Giovanni figlio di Nicolò. Ogni tentativo di comporre per via diplomatica il confronto militare si rivelò vano. Le assurde pretese del re di Ungheria e le concessioni cui Venezia era disposta ad acconsentire erano infatti troppo distanti. Il vecchio doge, che forse aveva veramente desiderato in cuor suo la pace, morì a Venezia l'8 ag. 1356, proprio mentre i combattimenti incendiavano la Marca trevigiana e gli eserciti nemici si accampavano sul limitare della laguna. Fu sepolto ai Frari, nella sala del capitolo, in un'arca dorata, oggi perduta, a detta del Sanuto molto bella, senza alcuna iscrizione.
Il G. fu soprannominato dai contemporanei Nason, per il naso dalle dimensioni non comuni, e Grando per la statura, o forse piuttosto perché più anziano rispetto a un omonimo coevo, un Giovanni Gradenigo di Matteo, "da S. Vidal", sconosciuto agli Arbori del Barbaro, del quale si conserva tuttavia il testamento redatto il 19 luglio 1346, che conseguì alcuni modesti incarichi politici. Il G. fu famoso ai suoi tempi per la straordinaria memoria, ma anche temuto, e in qualche caso evitato, per il carattere alquanto ostico e i modi burberi e sgarbati. Fu pure tacciato d'avarizia e al tempo stesso riconosciuto come generoso. "Fu Zan Gradenigo reputado huomo molto prudente et de gran memoria, et che haveva grandissima notitia delle leze municipal de Venetia, et voleva con molta diligenza le fusseno osservade" (ibid., c. 88r). Sulla medesima falsariga anche il giudizio del cronista-cancelliere-notaio Rafaino Caresini: "Hic sapientia et aetate maturus, profundissimae memoriae fuit, iuris comunis et municipalis eruditissimus, Rempublicam summe dilexit" (Chronica, p. 11). Non è comunque sufficientemente documentata la notizia, per altro alquanto diffusa, che si fosse addottorato nello Studio patavino.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, cc. 49, 67, 71, 95; 56: Cronaca veneta [veneziana] dall'anno 1280 all'anno 1413 attribuita a Daniele Barbaro, cc. 81v, 88rv, 90r; 63: Elenco dei dogi da Pauluccio ad Andrea Gritti, c. 45v; 74: P. Gradenigo, Memorie istorico-cronologiche spettanti ad ambasciatori della Serenissima Repubblica di Venezia spediti a vari principi, cc. 6r, 60r, 107v, 172v, 306r, 329v; 142: Cronaca Trevisan, cc. 2v, 3v; Misc. codd., III, Codici Soranzo, 21: Historia veneta scritta da Gio. Giacomo Caroldo… in forma di cronica dalla fondazione di Venetia sino l'anno 1361, cc. 283r, 304v, 379r, 383v-384r, 385rv; 32: G.A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, II, cc. 582-584; Archivio notarile, Testamenti, Notaio Rafayno de Caresinis, b. 483 n. 84; Notaio Vettore Gaffaro, b. 540 n. 79; Commemoriali, reg. III, cc. 99r, 100r; Consiglio dei dieci, Deliberazioni miste, reg. 6, cc. 69r, 70r, 74r-76r; Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber Spiritus, c. 110v; Deliberazioni, Liber Novella, c. 38r; Segretario alle Voci, Universi, reg. 1, c. 2v; Senato, Deliberazioni miste, Rubricari, reg. XII, c. 61r; Senato, Deliberazioni miste, regg. (tutti in copia) 15, cc. 2rv, 15r, 24v-25r, 114r, 135v; 16, cc. 11v, 42r, 55r, 60v, 65r, 67v, 86v, 156v, 159r, 197v, 201r, 204r; 17, cc. 107v, 152v, 211r, 216r; 19, cc. 136v, 208v; 22, cc. 21r, 51r-53r, 54rv, 63rv, 81v; 24, c. 204v; 25, cc. 2v-3r, 34r, 115r; 26, cc. 7r, 58r, 88r, 90v, 100v, 103v, 240r; 28, c. 185v; Senato, Sindicati, reg. 1, cc. 26v-27r n. 80; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 2329: Storia delle famiglie venete…, cc. 36v-37r; 3782: G. Priuli, Li pretiosi frutti del Maggior Consiglio…, II, c. 103v; Codd. Gradenigo, 133/I, cc. 30r-31v, 35v, 37v, 71v; Ibid., Bibl. naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 192 (= 8230), Vita del doge Bartolammeo Gradenigo scritta dal n.h. ser Piero Gradenigo qm Giacomo, p. 36; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum Italice scriptae, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 632-634, 636, 641; Raphaynus de Caresinis, Chronica, a cura di E. Pastorello, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XII, 2, p. 11; M. Sanuto, Le vite dei dogi, a cura di G. Monticolo, Ibid., XII, 4, p. 10; I Libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, II, Venezia 1878, pp. 54 n. 321, 57 n. 241; Diplomatarium Veneto-Levantinum, a cura di G.M. Thomas, I, Venezia 1880, pp. 244, 253, 258; II, ibid. 1899, pp. 3, 28, 39 s.; Le deliberazioni del Consiglio dei XL, a cura di A. Lombardo, I, Venezia 1957, pp. 61 s. n. 204; II, ibid. 1958, pp. 47 s. n. 162, 121 n. 396, 136 n. 441; Régestes des délibérations du Sénat de Venise concernant la Romanie, a cura di F. Thiriet, I, Paris 1958, p. 42 n. 98; Le deliberazioni del Consiglio dei rogati, I, a cura di R. Cessi - P. Sambin, Venezia 1960, pp. 255, 399; II, a cura di R. Cessi - M. Brunetti, ibid. 1961, pp. 5 s., 19, 29, 115, 193, 211, 218, 227, 229, 252, 269, 271, 317, 327, 335; Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi - F. Bennato, Venezia 1964, pp. 245, 249, 285, 287, 308, 322; Délibérations des Assemblées vénitiennes concernant la Romanie, a cura di F. Thiriet, I, Paris 1966, p. 194 n. 477; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIII libri, Venetia 1581, p. 570; F. Verdizzotti, De' fatti veneti dall'origine della Repubblica sino all'anno 1504, I, Venezia 1686, p. 267; F. Corner, Creta sacra, II, Venetiis 1755, pp. 286 s.; G.B. Verci, Storia della Marca trevigiana e veronese, XII, 2, Venezia 1789, pp. 9, 12, 15 s., 22 s., 35; XIII, 1, ibid. 1789, pp. 207, 233; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855, pp. 186, 189, 193, 196, 198; V. Lazzarini, Marino Faliero. La congiura, in Nuovo Archivio veneto, XIII (1897), pp. 100, 105, 278 s.; A. Da Mosto, I dogi di Venezia con particolare riguardo alle loro tombe, Venezia 1939, pp. 86-88; V. Lazzarini, Marino Faliero, Firenze 1963, pp. 174 n. 1, 179, 184 n. 4, 187, 189 n. 2, 227 n. 4, 296; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1966, pp. 154-156; G. Pillinini, Marino Faliero e la crisi della metà del '300 a Venezia, in Archivio veneto, s. 5, LXXXIV (1968), p. 67; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1975, p. LIII; G.D. Romanelli, Ritrattistica dogale, in I dogi, a cura di G. Benzoni, Milano 1982, p. 125; G. Gullino, Una famiglia nella storia: i Gradenigo, in Grado, Venezia, i Gradenigo (catal.), a cura di M. Zorzi - S. Marcon, [Venezia] 2001, pp. 138 s., 141; F. Rossi, Quasi una dinastia: i Gradenigo tra XIII e XIV secolo, ibid., pp. 178-182; Id., Gradenigo, Aluica, in Diz. biogr. degli Italiani, sub voce.