GOZZADINI, Giovanni
Nacque a Bologna il 31 dic. 1477 da Bernardino e da Giulia Capelli. Presso lo Studio bolognese l'11 febbr. 1499 conseguì il dottorato in diritto civile con Sigismondo Magnani e in diritto canonico con Giovanni da Sala. Presso lo stesso Studio fu poi lettore dal 1498 al 1502. Subito dopo il dottorato entrò in prelatura e nel 1502-03, nel periodo in cui il padre era perseguitato dai Bentivoglio, si trasferì a Roma, dove intraprese una rapida carriera presso la Corte papale. Fu conclavista del cardinale Giovanni Antonio Sangiorgio alla morte di Alessandro VI, quindi lettore di diritto civile alla Sapienza, e nel 1504 avvocato concistoriale. Fu nominato da Giulio II chierico di camera nel novembre del 1504, e suo referendario e datario il 16 dic. 1505.
In quegli anni di forti tensioni tra il pontefice e Giovanni Bentivoglio, di fatto signore di Bologna, il G. conservò un forte legame con la sua città: nonostante l'ostilità del padre alla famiglia dominante, nell'estate del 1505 il G. sostenne alcune richieste inoltrate presso il papa dalla magistratura dei Sedici riformatori dello Stato di libertà. Il padre fu ucciso a Bologna il 30 sett. 1506 da una folla sobillata dai Bentivoglio. Il G. tornò a Bologna solo dopo la riconquista della città da parte di Giulio II. Proprio in occasione del corteo che l'11 nov. 1506 accompagnò l'entrata del pontefice in città, dopo la fuga dei Bentivoglio, il G. precedette Giulio II in qualità di tesoriere, lanciando al popolo monete d'oro e d'argento. Con una lettera inviata da Urbino l'8 nov. 1506, Pietro Bembo si rallegrò con il G. per la vittoria del papa sui Bentivoglio, rassicurandolo di godere della stima della duchessa Elisabetta Gonzaga, moglie di Guidubaldo da Montefeltro duca di Urbino, e della nobildonna Maria Pio. La fine del predominio dei Bentivoglio consentì al G. di ottenere cariche e privilegi anche a Bologna: il papa gli donò il palazzo Sanuti in via S. Mamolo, di cui si erano impadroniti i Bentivoglio, e gli conferì, con un breve del 3 dic. 1506, il priorato della chiesa di S. Bartolomeo di Porta Ravegnana. Proprio al G. si deve l'iniziativa avviata nel 1515 di riedificare e ampliare questo edificio ecclesiastico, chiedendo e ottenendo dal Senato una porzione di terreno pubblico. Il G. rimase a Bologna per qualche mese in qualità di commissario a fianco del cardinale Antonio Ferreri, nominato il 19 febbr. 1507 legato della città. Sembra che entrambi abusassero del loro ufficio: in particolare il G. era sospettato di aver trasferito alla sua famiglia alcuni beni confiscati ai banditi e ai religiosi che avevano officiato in tempo di interdetto, avvalendosi presso il Senato bolognese di poteri che in realtà non gli erano stati conferiti. Il G. e il legato furono quindi richiamati a Roma, processati e, nel luglio del 1507, rinchiusi a Castel Sant'Angelo. Il Senato bolognese, che più volte aveva trovato nel G. un valido appoggio alle richieste inoltrate al papa, si adoperò, mediante l'ambasciatore a Roma, per scagionarlo dalle accuse. La maggiore magistratura cittadina inviò una lettera a Giulio II chiedendo la reintegrazione del G., ma la richiesta non ebbe successo.
Sul periodo immediatamente successivo della vita del G. non si hanno notizie. Probabilmente fu scarcerato dopo poco tempo, ed è certo che nel 1511 aveva già terminato la stesura di un'opera iniziata qualche anno prima, risultato di uno studio commissionatogli da Giulio II sulla questione dell'elezione del pontefice: De Romani pontificis electione electique eligentium et concilii potestate.
In quest'opera il G., esperto canonista, sosteneva il primato del concilio sul papa, affermando l'immutata validità del decreto approvato dal concilio di Costanza, in base al quale ogni dieci anni doveva essere convocato un concilio ecumenico, alle cui decisioni doveva rimettersi anche il papa. La necessità e l'urgenza di una riforma radicale della Chiesa erano tali che, secondo il G., presto si sarebbe abbattuta su di essa la vendetta divina. Secondo il G. la riforma doveva passare attraverso un concilio ecumenico, cui riteneva dovessero partecipare anche dottori, semplici ecclesiastici e laici esperti, e non solo gli alti prelati, la maggior parte dei quali egli non giudicava all'altezza di un compito tanto importante. Il G. giungeva così a considerare la superiorità del concilio come un articolo di fede. Inoltre, egli affermava come, dal punto di vista canonico, fosse legittimo appellarsi a un concilio contro le decisioni del papa. Considerava, infatti, priva di ogni fondamento giuridico la proibizione di tale facoltà, confermata dalla bolla Suscepti regiminis emanata da Giulio II il 1° luglio 1509, in quanto fondata sul diritto naturale.
L'opera del G. è stata studiata solamente nelle sue ultime tre parti, conservate in un codice mutilo della Biblioteca apostolica Vaticana (Vat. lat. 4144); le pagine mancanti, con le nove parti iniziali, sono state reperite solo da qualche anno tra i manoscritti antichi della Biblioteca capitolare di Milano. Si tratta della copia donata dal G. a Leone X, con una dedica a sé stante, che precede la prefazione rivolta al S. Collegio, destinatario dell'opera originale.
Mentre il G. terminava la stesura della sua opera, nel 1510, la rottura dell'alleanza del papa con la Francia di Luigi XII contro Venezia comportò una serie di iniziative controllate dal sovrano francese, che portarono alla convocazione del concilio di Pisa, davanti al quale il papa fu invitato a presentarsi. A questo concilio, tenutosi tra la fine del 1511 e l'inizio dell'anno successivo, partecipò anche il G., che inaspettatamente si schierò dalla parte del pontefice. Rimane dunque il dubbio sulle ragioni di tale posizione, che appare in contraddizione con quanto egli aveva affermato poco tempo prima nella sua opera, e nella dedica rivolta successivamente a Leone X. Una possibile spiegazione, peraltro non sostenuta da alcuna prova documentaria, potrebbe essere ricercata nella volontà del G. di rientrare nei favori del papa dopo i sospetti di cui era stato oggetto, e conseguentemente di poter aspirare a cariche prestigiose all'interno della Curia.
Nel corso del 1512, alla fine del pontificato di Giulio II, il G. fu investito di incarichi di grande responsabilità. Nell'aprile era stato inviato come nunzio a Firenze, per liberare la città dall'interdetto nel quale era incorsa al tempo del concilio pisano: secondo F. Guicciardini, al G. era stato ordinato di svolgere il suo mandato con "umane" disposizioni. A giugno passò a Bologna in qualità di commissario apostolico e protonotario, dove a nome del papa assunse la custodia delle proprietà di coloro che avevano appoggiato i Bentivoglio, ritornati in città dal 22 marzo 1511 al 10 giugno dell'anno successivo. Infine, il 31 luglio fu nominato governatore di Piacenza, riconquistata allo Stato della Chiesa, dove assunse anche la guida ad interim della diocesi, dopo che il vescovo era fuggito con i Francesi in ritirata. Alla morte di Giulio II Piacenza insorse e il G., con l'aiuto dei familiari e di alcuni cittadini bolognesi, riuscì a fuggire.
Il pontificato di Leone X si aprì sotto i migliori auspici per il G.: oltre alla conferma dei benefici già conferitigli, il priorato di S. Bartolomeo di Porta Ravegnana di Bologna e l'abbazia di S. Maria degli Angeli di Faenza, egli divenne canonico della chiesa della Trinità di Pavia, priore di S. Salvatore di Piacenza e titolare della pievania di Rolven nella diocesi di Brandeburgo. Infine, il 31 luglio 1513, fu nominato governatore di Reggio.
Al suo arrivo il G. trovò la città divisa tra due fazioni caparbiamente contrapposte: la Tvâja (Tovaglia), nella quale militava la famiglia dei Bebbi (favorevole al dominio del Ducato ferrarese), e la Cuséina (Cucina), capeggiata dagli Scaioli e dagli Zoboli, che parteggiava per il dominio di Roma. Di fronte ai numerosi fatti di sangue e alle vendette che ne nascevano, l'atteggiamento moderato del nuovo governatore ebbe l'effetto di portare una relativa calma. Il G. evitò di utilizzare provvedimenti repressivi quali l'espulsione dei responsabili, per non palesare la sua propensione verso una delle parti, cercando nel contempo di promuovere riconciliazioni che venivano solennemente sancite in chiesa. D'altra parte le sue doti personali e le sue capacità culturali dovevano accattivargli le simpatie dei suoi amministrati. Ma dietro queste rivalità locali si celavano gli interessi politici di Alfonso d'Este e Giampiero Gonzaga conte di Novellara, ostile al dominio pontificio e protettore dei Bebbi. L'apparente imparzialità del G. non poté durare a lungo: il suo favore per la parte più moderata, quella della Cuséina, gli costò un'imboscata tesagli come avvertimento. La frequentazione assidua di casa Zoboli, con un'esponente della quale il G. era accusato di avere allacciato una relazione, di certo non favoriva la pacificazione. La situazione precipitò nella primavera del 1517, quando, il 13 aprile, gli Scaioli assalirono e uccisero Giovanni Battista Bebbi. Il G. si trovava a Roma, ma, avvertito dal fratello Camillo, suo procuratore, ritornò subito a Reggio. La sua volontà di accertare le responsabilità dell'omicidio fu interpretata dai Bebbi come un modo per temporeggiare in attesa che si calmassero le acque. Il governatore, per precauzione, intimò loro di deporre pubblicamente le armi, ma ormai essi avevano deciso per lui una vendetta esemplare.
Il G. fu ucciso la mattina del 28 giugno 1517 nella cattedrale di Reggio, colpito al momento dell'ostensione. Il suo corpo fu spogliato degli abiti prelatizi e abbandonato sui gradini dell'altare; solo un mese dopo il fratello Camillo riuscì a farlo trasportare a Bologna, dove fu sepolto nella chiesa di S. Maria della Misericordia.
L'8 luglio il governatorato di Reggio fu assunto da F. Guicciardini, che già amministrava Modena. A questo incarico lo storico fiorentino era stato nominato dal gennaio, sulla base di un giudizio negativo sulla situazione di Reggio sotto il G., che però era riuscito a procrastinare la sospensione.
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