SAVOLDO, Giovanni Girolamo
– Non è nota la data di nascita del pittore, che in un atto del 1508 (citato più avanti) si dichiara figlio di un Jacopo, a sua volta figlio di un Piero «de Savoldis de Brescia». Nulla si sa invece della madre. L’origine bresciana trova conferma non solo nelle carte d’archivio e nelle fonti, ma anche negli appellativi «Brixiensis» o «de Brisia» presenti in alcune delle firme autografe dei dipinti dell’artista. Mancano ancora, tuttavia, notizie sicure relative alla formazione di Giovanni Girolamo e al contesto geografico nel quale avvenne, che non è detto sia da riconoscere nella città natale.
Le prime attestazioni documentarie in nostro possesso segnalano infatti la presenza di Savoldo in luoghi eccentrici rispetto all’ambiente bresciano. In base alla più antica di esse sappiamo che nell’ottobre del 1506 l’artista, già ricordato nella circostanza come «magistro», risiedeva a Parma, dove era ospite del pittore locale Alessandro Araldi. Sorprendentemente a Firenze ci conduce invece la seconda testimonianza, risalente al 2 dicembre 1508 e relativa all’iscrizione di Savoldo all’Arte dei medici e degli speziali della città toscana: una decisione che sembrerebbe indicare la volontà di fissare lì la sua dimora (dove non altrimenti indicato, per le notizie documentarie si veda Giovanni Gerolamo Savoldo, 1990, pp. 316-324). Si collega inevitabilmente a questa informazione una lettera scritta a Roma nell’ottobre di quello stesso 1508 da Pietro d’Argenta e indirizzata a Giovansimone Buonarroti, fratello di Michelangelo, residente a Firenze. Nello scritto Pietro fa infatti menzione di un «maestro Ieronimo dipintore da Bressa» (Poggi, 1942, p. 124), evidentemente familiare a Giovansimone, e informa il suo interlocutore come, nonostante le sue sollecitazioni, Michelangelo non avesse dato disposizioni per chiamarlo presso di sé a Roma. L’iscrizione di poco successiva di Giovanni Girolamo all’Arte fiorentina dei medici e degli speziali potrebbe dunque essere intesa come una conseguenza della mancata convocazione romana. Va però precisato che l’identificazione del «maestro Ieronimo» con Savoldo non è del tutto certa, considerato che in quel periodo era attivo a Firenze anche il pittore, nonché frate carmelitano, Girolamo da Brescia.
Non sussistono dubbi di sorta, invece, riguardo alla successiva voce documentaria, riguardante un pagamento che Savoldo ricevé il 2 febbraio 1515 dalla corte di Ferrara, per aver venduto ad Alfonso I d’Este «3 figure» non meglio specificate (Farinella, 2008, pp. 97-100). Il quadro d’insieme discontinuo fornito da queste poche informazioni rende ancora oggi complicato ricostruire l’effettivo andamento della parabola giovanile dell’artista. Le difficoltà sono accentuate dall’assenza di opere agganciabili con certezza a questa stagione iniziale di Giovanni Girolamo, il cui catalogo trova un primo riferimento cronologico sicuro solo all’altezza del 1521, anno in cui Savoldo fu convocato a Treviso per portare a compimento la pala dell’altare maggiore della chiesa domenicana di S. Nicolò, avviata in precedenza dal modesto pittore belliniano fra Marco Pensaben (Fossaluzza, 1985). L’incarico è da mettere in relazione con il fatto che, come si apprende dagli incartamenti trevigiani, a quel tempo il pittore si era ormai trasferito a Venezia, città attorno a cui gravitò di lì in avanti tutta la sua vicenda biografica.
Il tentativo di fare chiarezza sulla fase anteriore al 1521 trova pertanto un unico sostegno nei dati di stile delle opere, che suggeriscono di porre a monte della pala di S. Nicolò un manipolo di dipinti capeggiati dal Compianto del Kunsthistorisches Museum di Vienna e dal pendant composto dal Profeta Elia della National Gallery of art di Washington e dai Ss. Paolo e Antonio eremiti delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (questa tavola presenta una data autografa di problematica interpretazione). Non sembra spettare al pittore, invece, la Crocifissione di collezione privata proposta in tempi più recenti come sua primizia (Gregori, 1999).
Collocabili in prossimità della metà del secondo decennio del Cinquecento o poco oltre, queste opere rivelano una cultura figurativa orientata prevalentemente verso l’ambito milanese (Andrea Solario, Giovanni Antonio Boltraffio, Giovanni Agostino da Lodi: Magnabosco, 1984), ma nutrita anche da pungenti notazioni realistiche di derivazione dureriana. Nessun indizio si scorge, per contro, dei precoci contatti con i contesti di Parma e di Firenze, che non lasciano traccia nemmeno in altri due dipinti di poco successivi, sempre riconducibili a questa stagione ante 1521, vale a dire le Tentazioni di s. Antonio Abate (San Diego, Timken Art Gallery) e la Visione di s. Girolamo (Mosca, Museo Puskhin). Contraddistinte da una regia molto elaborata, le due scene eremitiche presentano citazioni letterali da modelli di Lucas Cranach e Hieronymus Bosch (Jacobsen, 1974), oltre che un rapporto con il paesaggismo visionario di Joachim Patinier: tutte componenti che confermano la predisposizione a confrontarsi con la cultura figurativa nordica. Dà conto però dell’eclettismo di questa fase l’inserimento tra le presenze demoniache del dipinto di Mosca di un esplicito omaggio al gruppo cosiddetto di Enea e Anchise nell’Incendio di Borgo di Raffaello.
Nonostante non si possiedano notizie certe riguardo alla destinazione originaria di questi primi dipinti, numerosi indizi invitano a pensare che al momento della loro realizzazione Savoldo già si fosse trasferito a Venezia, nella cui chiesa di S. Maria dell’Orto si trova una copia antica del Compianto di Vienna. Gli esiti di questo approdo in laguna si colgono bene nella pala di S. Nicolò a Treviso, nella quale l’esteso rifacimento da parte di Savoldo della precedente redazione del Pensaben appare impreziosito da una stesura soffusa e atmosferica, di forte ispirazione tizianesca, che segna uno scarto sensibile rispetto alla condotta più lenticolare delle opere anteriori. La suggestione per il colorismo del maestro cadorino si apprezza anche nei dipinti correttamente collocati da Alessandro Ballarin (1990, 2006, pp. 197-205) negli anni di poco successivi alla pala trevigiana, come il Tobiolo e l’Angelo della Galleria Borghese a Roma e l’Adorazione dei pastori della Galleria Sabauda di Torino.
La constatazione di tali componenti non deve comunque indurre a trascurare la notevole indipendenza stilistica e mentale che, anche in questo momento di maggiore contiguità con il Vecellio, Savoldo sa dimostrare nei confronti del maestro veneto. Ne è prova l’attenzione con cui, tanto nel Tobiolo quanto nell’Adorazione dei pastori, sono analizzati i riflessi di luce e i giochi chiaroscurali sulle vesti, testimonianza di una disciplina naturalistica che consente al pittore di distinguersi nettamente dalle personalità gravitanti nei medesimi anni nell’orbita tizianesca.
Analoghe prerogative si colgono nel coevo Ritratto di giovane in armatura (il cosiddetto Gaston de Foix) del Musée du Louvre, la cui singolare concezione, caratterizzata dalla presenza di grandi specchi che riflettono l’immagine del protagonista, va messa in rapporto con il tema del 'paragone delle arti' (la discussione circa la superiorità di pittura o scultura), molto in voga nella Venezia dei primi decenni del Cinquecento (Martin, 1995).
La propensione di Savoldo a intraprendere una strada autonoma rispetto al magistero coloristico di Tiziano trova conferma nella monumentale pala d’altare con la Madonna in gloria e quattro santi realizzata tra il 1524 e il 1525 per la chiesa di S. Domenico a Pesaro (Milano, Pinacoteca di Brera), da annoverare come secondo punto fermo cronologico del suo catalogo. Il confronto con la tavola del 1521 rivela infatti l’acquisizione di una stesura più asciutta e compatta, in grado di restituire mirabilmente l’ingombro fisico delle colossali figure dei santi. Si tratta di caratteri rintracciabili anche nel contemporaneo Compianto di Cristo con un devoto nel Museum of art di Cleveland, che più volte si è ipotizzato di porre in relazione con l’impresa pesarese, il cui contratto del 15 giugno 1524 prevedeva la realizzazione di una Pietà da collocare sopra la pala. Dal medesimo documento si apprende che Savoldo, definito nell’occasione «habitatorem Venetiarum» (Giovanni Gerolamo Savoldo, 1990, p. 318), si recò personalmente nella città marchigiana per stipulare l’accordo, al quale partecipò in qualità di testimone anche Sebastiano Serlio (Nova, 1990; Olivari, 2002).
Indizio di un rapporto privilegiato con la committenza domenicana, la pala pesarese costituisce un utile termine di riferimento per ancorare in prossimità della metà del terzo decennio o poco di seguito altre opere che ne condividono le predilezioni di stile. Il riferimento riguarda innanzitutto l’Adorazione del Bambino tra s. Francesco e s. Girolamo della Galleria Sabauda di Torino e la tela di identica concezione delle collezioni reali inglesi, nella quale i due santi sono però sostituiti da due devoti. Nella loro intonazione accostante e nella toccante umanità dei protagonisti, le due Adorazioni rivelano la suggestione esercitata in questa fase su Savoldo dalla poetica degli affetti di Lorenzo Lotto, rientrato a Venezia nel 1525 dopo il lungo soggiorno bergamasco. Non a caso le note di Marcantonio Michiel (circa 1521-1543, 1884) relative alle collezioni veneziane di questi anni registrano la presenza di dipinti di Savoldo, oltre che nella raccolta di Francesco Giglio (per il quale il bresciano realizzò prima del 1523 una perduta Lavanda dei piedi), anche in quella di Andrea Odoni, del quale è ben nota la familiarità con Lotto. Dal manoscritto di Michiel, che visitò la collezione Odoni nel 1532, veniamo a sapere che costui possedeva due esemplari di Savoldo: una non meglio precisata Nuda e una Continenza di Scipione, di cui è nota una copia antica.
Questa contiguità con Lotto risulta ancora più marcata nella contemporanea produzione ritrattistica, all’interno della quale spicca il Suonatore di flauto della pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. Nobilitata da una sorprendente sensibilità chiaroscurale, la tela si fa ricordare per la sua intonazione intima e meditativa, da interpretarsi anche sulla scorta degli accertamenti effettuati in ambito musicologico. L’analisi del foglio di partitura appeso alla parete (Slim, 1985) ha permesso infatti di comprendere come il giovane sia raffigurato in atto di suonare un componimento del padovano Francesco Santacroce, databile intorno al 1520, al quale si accompagnava un sonetto anonimo sul tema del dialogo tra amore e morte.
Prerogative iconografiche affatto differenti contraddistinguono, restando in questo frangente cronologico, il Ritratto femminile della Pinacoteca Capitolina a Roma (erroneamente collegato alla committenza Pio di Savoia da Gilbert, 1994, pp. 122-124), nel quale la presenza del drago in basso a sinistra va letta come un’allusione a santa Margherita e invita di conseguenza a riconoscere nella tela un ritratto in figura della santa di Antiochia. Attestata anche da altri esemplari più tardi, riferibili agli anni Trenta del Cinquecento (Ritratto in figura di s. Giorgio, Washington, National Gallery of art; Ritratto in figura di s. Caterina d’Alessandria, coll. privata: Boschetto, 1963, tav. 26), la familiarità con questa particolare tipologia ritrattistica appare indizio della frequentazione di una committenza privata particolarmente motivata sul fronte devozionale. Ne offre una puntuale conferma un perduto Ritratto di suonatore di flauto (da immaginarsi di impostazione simile alla tela oggi a Brescia), ricordato poco dopo la metà del Seicento nella collezione di Antonio Ruffo a Messina da una fitta documentazione che, oltre a registrare la presenza della firma del pittore e la data 1529, segnala come il protagonista, in quel caso, fosse intento a interpretare con il suo strumento le quartine dell’Ave Maris Stella, dunque una preghiera mariana (De Gennaro, 2003).
Si pongono in perfetta sintonia con queste evidenze le non molte informazioni riguardo ai committenti dell’artista a Venezia. Se già l’affiliazione di Giglio e di Odoni alla Scuola di S. Maria della Carità fornisce un segnale significativo, indicazioni più esplicite sono suggerite dalla figura di Gian Paolo Averoldi, nobile bresciano spesso presente a Venezia, che proprio in questa città commissionò a Savoldo un S. Girolamo, consegnando un acconto in casa del pittore il 28 novembre 1527. Ancora in buona parte da esplorare, la figura di Averoldi presenta connotati di notevole interesse che ne segnalano il ruolo di primo piano giocato all’interno del mondo caritativo. Lo suggeriscono i rapporti con Girolamo Miani, futuro fondatore dei somaschi, e la carica di procuratore presso la sede veneziana dell’ospedale degli Incurabili (Frangi, in corso di stampa). Non si possiedono elementi per identificare con certezza il S. Girolamo eseguito per Averoldi: delle due versioni note del soggetto riferibili a Savoldo, quella che si avvicina maggiormente alla data del documento è la tela firmata della National Gallery di Londra.
Per certi aspetti ancora più interessanti si rivelano le informazioni relative a Pietro di Gianruggero Contarini dei Ss. Apostoli, in questo caso un patrizio veneziano, la cui dimestichezza con Savoldo è suffragata dal testamento redatto dal gentiluomo il 30 luglio di quello stesso 1527. Nel documento Contarini dichiarava di destinare alla propria cappella (oggi non più esistente), da edificare nella chiesa veneziana dei Ss. Apostoli, quattro «telleri» di Savoldo dedicati al tema della fuga in Egitto e già di sua proprietà. Colpisce l’assoluta singolarità di un tale insieme di opere dedicato a quel singolo episodio evangelico (per una riflessione sulla questione: Aikema, 1993). Sta di fatto che il soggetto del riposo durante la fuga in Egitto risulta tra i più frequentati da Savoldo, nel cui catalogo si contano cinque versioni della scena, tra le quali l’unica che potrebbe agganciarsi al testamento del 1527 è la spettacolare tela della collezione Castelbarco Albani a Milano. Le notizie in nostro possesso non consentono tuttavia di chiarire la storia antica del dipinto, contraddistinto dalla presenza sulla destra di un’inaspettata veduta della Riva degli Schiavoni, raffigurata con notevole precisione topografica.
Prescindendo dall’impossibilità di avere certezze in merito al piccolo ciclo Contarini, merita di essere segnalato il profilo originale del patrizio lagunare, figura emblematica dell’umanesimo devoto di primo Cinquecento. In rapporto da giovane con Angelo Poliziano e proprietario di una rilevante collezione di marmi antichi, Pietro di Gianruggero dedicò infatti parte della sua maturità alla stesura di un poderoso poema sacro in terza rima dantesca, ambientato intorno al 1515 (Venezia, Biblioteca Marciana; Faini, 2005; Frangi, in corso di stampa). Il titolo Christilogos peregrinorum lascia intendere la particolare struttura narrativa del testo, nel quale si racconta l’immaginario pellegrinaggio in Terrasanta, nei giorni della Natività, e il successivo ritorno nella Venezia contemporanea, di quattro poeti-pastori che in realtà coincidono con lo stesso Contarini e tre suoi sconosciuti amici.
Precede di poco il testamento di Contarini quello redatto dallo stesso Savoldo a Venezia il 17 ottobre 1526 (Giovanni Gerolamo Savoldo, 1985, pp. 13-19), dal quale si apprende che il pittore era sposato con una donna di nome Maria, originaria delle Fiandre, reduce da una precedente unione dalla quale aveva avuto una figlia, Elisabetta, a sua volta madre di almeno due figlie. Proprio la moglie Maria e la figliastra Elisabetta risultano le principali beneficiarie del lascito dell’artista, che nel testamento fa menzione anche di altri personaggi residenti a Brescia e Venezia. Si tratta per lo più di commercianti, artigiani e orefici non altrimenti noti, ai quali si affianca un pittore di scarsa fama (Girolamo Baschenis di Averara): quanto basta per delineare il profilo piuttosto dimesso e circoscritto delle frequentazioni personali dell’artista. Riscatta almeno in parte questa sensazione la successiva lettera scritta nel 1530 a Pesaro da Girolamo Genga e indirizzata a Gian Giacomo Leonardi, emissario a Venezia del duca Francesco Maria della Rovere, nella quale l’artista urbinate menziona Savoldo tra i pittori attivi in laguna presso i quali procurarsi buoni colori e pennelli.
Allo stesso anno risale la prima commissione pubblica in ambito veneziano di cui si abbia notizia, da riconoscere nella decorazione della cappella di Antonio Caresini nella chiesa di S. Domenico di Castello, alla quale vanno ricollegate l’Annunciazione oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia e le due tele con i Ss. Domenico e Antonio abate e i Ss. Vincenzo Ferrer e Veneranda, della collezione PKB Privatbank di Ginevra, una delle quali datata 1530. Oltre a ribadire le relazioni dell’artista con l’ambito domenicano (per il quale Savoldo realizzò con tutta probabilità anche il Martirio di s. Pietro Martire, di incerta provenienza, dell’Art Institute di Chicago; Gilbert, 2003), le tele eseguite per il Caresini rappresentano dunque un ulteriore tassello cronologico nel catalogo del pittore, al quale fa seguito la pala con la Madonna in gloria e quattro santi della chiesa di S. Maria in Organo a Verona, datata 1533 e realizzata su committenza della famiglia Della Torre. Rimanendo nel campo delle opere di destinazione ecclesiastica, ragioni di stile invitano a collocare nei medesimi tempi la grande Trasfigurazione della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, ancora priva di indizi che possano fare luce sulla sua collocazione originaria (una replica autografa di minore formato si conserva presso le Gallerie degli Uffizi).
Per intendere l’evoluzione del linguaggio di Savoldo in queste opere risulta utile analizzare la pala veronese del 1533, nella quale lo schema compositivo della precedente tavola pesarese è riproposto con toni meno monumentali e una spazialità piuttosto stipata, che tende a portare le figure sul primo piano e far prevalere gli effetti di superficie delle masse dei panneggi.
Questo orientamento per una condotta più riassuntiva non pregiudica in ogni caso le ricerche luministiche del pittore, che trovano anzi nel corso degli anni Trenta la loro più compiuta espressione. Lo testimonia innanzitutto l’approfondimento degli studi dei riflessi sulle vesti, che s’impongono, ad esempio, come il motivo figurativo dominante delle quattro celebri variazioni sul tema della Maddalena al sepolcro, collocabili verosimilmente entro il quarto decennio del Cinquecento. La serie è capeggiata dalla versione della National Gallery di Londra, forse realizzata sempre per Gian Paolo Averoldi, la cui raffinata concezione iconografica, che vede la protagonista avvolta in un largo panno argentato colpito da un violento raggio di luce, è stata indagata da Mary Pardo (1989).
Dopo che un documento del 1532 ne aveva confermato la permanenza a Venezia, un improvviso nuovo scenario si aprì nella carriera di Savoldo nel 1534, allorché il pittore venne chiamato a lavorare a Milano presso la corte di Francesco II Sforza. Attestata da una lettera di passo del duca risalente al 9 giugno 1534, la convocazione milanese non ebbe tuttavia le ricadute sperate, a causa della prematura scomparsa di Sforza, avvenuta il 1° novembre dell’anno successivo. È probabile che l’avvenimento costrinse Savoldo a fare ritorno a Venezia, dove è ricordato stabilmente dal giugno del 1537.
Si connettono con ogni probabilità a questa esperienza milanese i «quattro quadri di notte e di fuochi, molti belli» segnalati da Giorgio Vasari (1568, 1984, p. 430) presso la Zecca del capoluogo lombardo e probabilmente eseguiti su commissione di Bernardo Scaccabarozzi (Sacchi, 2005), a quel tempo maestro dell’istituzione. Per quanto i tentativi di identificare questi esemplari non siano finora approdati a esiti conclusivi, vale la pena di sottolineare come proprio nel corso degli anni Trenta Savoldo maturasse una vera e propria specializzazione nel campo del notturno e degli studi di luce locale. Le prove più significative di queste ricerche sono da individuare nel San Matteo e l’angelo del Metropolitan Museum of art di New York e nell’Adorazione dei pastori della National Gallery of art di Washington: due dipinti che da soli valgono a Savoldo una collocazione di primo piano tra i ‘precedenti’ lombardi di Caravaggio, in linea con quanto già aveva intuito a suo tempo Roberto Longhi (1929).
Gli ultimi impegni cronologicamente accertabili dell’attività del pittore sono rappresentati dalla pala con il Compianto di Cristo destinata alla chiesa delle monache di S. Croce a Brescia, da riconoscere nella tela di analogo soggetto andata distrutta a Berlino, e dalle due Adorazioni dei pastori realizzate nel 1540, rispettivamente per la chiesa di S. Barnaba a Brescia, su commissione di Bartolomeo Bargnani (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo), e per la chiesa di S. Giobbe a Venezia (ora nel locale Museo diocesano). Specie questi due ultimi dipinti, il cui assetto compositivo risulta replicato nella pala autografa inviata in Puglia a S. Maria la Nova a Terlizzi, colpiscono per la loro concezione semplificata, quasi ingenua, e per la loro schietta intonazione naturalistica. Considerando le date di esecuzione, sorprende l’assenza in queste opere (così come nel Pastore col flauto del Getty Museum di Los Angeles, da ritenersi eseguito nello stesso momento) di qualsiasi echeggiamento delle istanze manieriste di matrice centritaliana, che pure in quegli anni si stavano affermando con forza anche a Venezia, come attesta la produzione coeva di Tiziano.
Alla luce di queste scelte di stile poco allineate, non stupiscono le allusioni alla condizione di marginalità di Savoldo nel contesto lagunare che affiorano dalle parole spese nel 1548 sul suo conto dall’allievo Paolo Pino. Nel Dialogo di pittura Pino colloca infatti il suo maestro tra i pittori ingiustamente «matrignati dalla sorte», rammaricandosi del «poco pregio del nome suo» di cui l’artista godeva (Pino, 1548, 1960, pp. 99 s.). Nel dicembre di quello stesso anno Pietro Aretino, in una lettera indirizzata a un non meglio noto Gianmaria, anch’egli allievo di Savoldo, si augurava per Giovanni Girolamo, ormai giunto all’età della «decrepitudine» (ed. 2001, p. 107), una notorietà futura più consona ai suoi meriti.
Da registrare come le prime menzioni di rilievo di Savoldo all’interno della tradizione scritta, queste due testimonianze coincidono cronologicamente con l’ultimo documento in nostro possesso relativo alla vicenda biografica di Savoldo, datato 20 aprile 1548. Non è noto a quando risalga la morte del pittore, da immaginarsi avvenuta, comunque, poco oltre quella data.
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