GIOVANNI GIOCONDO da Verona (Fra Giocondo)
Nacque a Verona o nei dintorni entro il 1434, stando a una lettera di Raffaello il quale nel luglio del 1514 gli attribuisce più di ottanta anni (Brenzoni, p. 63).
Lo stesso G. nel 1506 si dice "de età grandevo" e nel 1514 scriveva di non avere grandi aspettative di vita. Se sulla sua vecchiezza Raffaello non esagerava un po', G. doveva avere energie non comuni per la sua età: negli otto anni precedenti era stato in grado di navigare fino al Peloponneso per ispezionare fortificazioni veneziane, di percorrere in barca e a cavallo per lo stesso compito tutto lo Stato di Terra veneto fino a Cremona e di salire in cima a torri e campanili per esaminare dall'alto il territorio e progettare sistemazioni idrauliche.
Non si conosce il nome della famiglia di G.; né si hanno notizie dirette sul cinquantennio iniziale della sua vita (Ciapponi, 1961, p. 131). Le prime informazioni sul suo conto risalgono al 1489, quando era già rinomato in alcuni degli svariati campi di attività in cui egli eccelleva: gli studi su Vitruvio, quelli epigrafici e antiquari in genere, l'ingegneria e l'architettura, oltre alla matematica e alla filologia. Nella prima centuria delle Miscellaneae (c. 60), pubblicata in quell'anno a Firenze, Angelo Poliziano cita la silloge epigrafica che G. aveva appena inviato a Lorenzo il Magnifico giudicando l'autore diligente più di chiunque altro ed espertissimo nelle ricerche su queste fonti, allora tra le più usate negli studi storici e filologici. G. è ricordato nelle Cedole della Tesoreria aragonese nel dicembre del 1489 quando da Napoli è inviato a Mola (Formia) e Gaeta per esaminare "certa anticaglia" (Percopo, p. 381). In quella occasione o in uno dei tanti sopralluoghi che nel 1492 compì nelle stesse località incontrò il vescovo di Gaeta, l'umanista senese Francesco Patrizi, da decenni studioso di Vitruvio, che gli dedicò un epigramma in cui lo definisce "antiquarius" e "architectus" ed esaltò i suoi studi sul De architectura di Vitruvio (Smith, pp. 103, 120). Con la qualifica di "architectus Ducis Calabriae" (il futuro Alfonso II d'Aragona) G. è indicato in un altro documento napoletano del 3 genn. 1492. Nello stesso periodo Ermolao Barbaro, mentre a Roma tra il 1491 e il 1493 stava preparando le Castigationes Plinianae, consultò G. su un congegno teatrale descritto da Plinio e lo definì "mechanicus" e "architectus nobilis" (Ciapponi, 1961, pp. 143 s.). A partire dagli stessi anni è documentata anche la posizione di religioso di G., per la quale la confusione delle fonti contemporanee ha dato origine a opinioni discordanti. Nei documenti napoletani G. è sempre chiamato frate, così come in quelli francesi, ed egli stesso si firma sempre come tale.
La qualifica di "sacerdos" che gli attribuiscono Ermolao Barbaro e Guillaume Budé deve indicare una condizione di religioso e non di chierico secolare. Quanto alla regola seguita da G. sono stati più numerosi i sostenitori, in primo luogo Vasari, della sua appartenenza all'Ordine dei domenicani; ma, come ha rilevato Lucia Ciapponi (1961, p. 134), i tre unici documenti sicuri lo mostrano francescano. Il primo di questi documenti risale al febbraio 1498 quando G., in Francia al servizio di Carlo VIII, ricevette un consistente compenso annuale per la sua attività; Luca Pacioli fornisce una seconda testimonianza il giorno 11 ag. 1508 quando registra "Frater Jucundus Veronensis antiquarius" tra i frati che a Venezia, a S. Bartolomeo, assistono a una sua lezione su Euclide. Una conferma viene poi dal Libro delle spese del convento di S. Francesco a Treviso, dove nell'aprile 1510 vengono registrati un "Fr. Jocundus cum duobus servitoribus" che vi avevano soggiornato per tre mesi proprio nel periodo in cui è documentato che G. in quella città progettava l'ammodernamento delle strutture difensive. Non si potrebbe escludere che prima degli anni documentati G. fosse stato domenicano o fosse rimasto a lungo allo stato laico; ma è più soddisfacente l'ipotesi che fin da giovane avesse scelto la condizione di religioso che gli consentiva di dedicarsi senza fastidi ai suoi studi. In effetti conosciamo ben pochi episodi della vita di G. legati alla condizione di religioso. Nel 1493 a Napoli ottenne diversi benefici ecclesiastici che peraltro mal si accordavano con il voto di povertà di un francescano; nel 1506 nelle trattative per passare alle dipendenze della Repubblica di Venezia chiese che in seguito il suo salario fosse sostituito da un congruo beneficio dello stesso tipo esente da imposte (Fontana, 1988, pp. 34, 52); infine a Venezia battezzò col nome di Urania una figlia di Giovanni Bembo (ibid., p. 70). Peraltro importanti caratteri e comportamenti di colui che Pietro Summonte nel 1524 definiva il "bono e singulare fra Jocundo da Verona" sono coerenti col suo stato di francescano, sebbene ovviamente si addicano altrettanto a un umanista laico.
Secondo Vasari l'attività di G. iniziò con un lungo soggiorno a Roma, che è parzialmente confermato e precisato da indizi rinvenibili nella prima redazione della sua raccolta epigrafica riguardante testimonianze romane in cui i riferimenti alle abitazioni di privati non sono anteriori al tempo di Sisto IV e si estendono agli anni Ottanta del Quattrocento (ibid., pp. 18 s.).
È possibile che prima, fino all'età di circa trentacinque anni, G. fosse rimasto nel Veneto, dove peraltro le ricerche sull'antichità erano molto avanzate (Nesselrath, p. 407). Fino a pochi anni prima della nascita di G., a Verona aveva insegnato per un decennio Guarino Veronese e vi studiarono lettere classiche gli umanisti Domizio Calderini e Giovanni Antonio Panteo, il secondo autore di un'opera che il frate consulterà nel preparare la propria edizione del De architectura (M. Vitruvius per Iocundum solito castigator factus cum figuris et tabula…, Venetiis 1511). Una formazione veneta, avvenuta quindi in una regione precocemente ricca di studi filologici e antiquari, può dar ragione degli innovativi criteri di edizione critica che G. adottò nella sua silloge epigrafica, criteri equivalenti a quelli che seguì nel lavorare sui codici antichi e nel pubblicarne i testi. Come dichiara nella dedica a Lorenzo il Magnifico, G. si era proposto di distinguere le epigrafi che aveva copiato personalmente da quelle desunte da raccolte altrui, dopo averne confrontato le diverse versioni, e di disporre tutto il materiale in ordine topografico.
La ricerca e la trascrizione di epigrafi portarono naturalmente G. a esaminare molte architetture antiche di cui esse facevano parte. Questo suo interesse nasceva, però, in primo luogo dal lavoro sul trattato di Vitruvio, che doveva aver iniziato da tempo se nel 1489 era già arrivato a risultati apprezzabili. Come dichiara nell'edizione del 1511, il suo lavoro sul De architectura era proceduto con un duplice studio: sul testo dei codici e, appunto, sui "veterum […] ruinarum monumentis" che aveva esaminato in molti luoghi. Per emendare il testo, invece, G. cercava abitualmente il confronto col parere di altri umanisti (Libri de re rustica…, Venetiis, in aedibus Aldi et Andreae soceri, 1514, con dedica a Leone X, c. IV) e perciò è probabile che abbia consultato chi allora a Roma aveva altrettanto interesse per questo trattato, innanzitutto Sulpicio da Veroli che ne curò la prima stampa, pubblicata tra il 1487 e il 1492 e poi il suo mecenate, il cardinale Raffaele Riario. Con l'ambiente dei Riario (e dei Della Rovere) è certo che qualche relazione G. doveva averla, perché più di una nota nella silloge epigrafica mostra che egli aveva accesso al palazzo dei Ss. Apostoli, iniziato da Bessarione e proseguito da Pietro Riario e da Giuliano Della Rovere; ed è verosimile che fosse in rapporto con Raffaele Riario, particolare che farebbe luce sull'attività di G. come architetto prima degli anni Novanta, finora oscura (non ha fondamento la tradizionale attribuzione della loggia del Consiglio a Verona: Newmann), ma più che probabile. Quando Ermolao Barbaro definisce G. "architectus nobilis" non può riferirsi infatti alla sua più conosciuta attività di "ingegniarius" come progettista di macchine, di opere idrauliche, di strutture singolari grazie alla sua conoscenza della letteratura tecnico-scientifica greca e latina, poiché tutto ciò è proprio di un "mechanicus", termine col quale lo indica poco prima. Il riferimento potrebbe essere alla conoscenza che G. aveva di architetture antiche e della teoria vitruviana; ma la qualifica di architetto del duca di Calabria, che ebbe di lì a poco, fa pensare che non si trattasse solo di questo e implica che prima di andare a Napoli egli avesse già acquisito un'esperienza attiva di quest'arte.
A Roma, nel 1489 egli sarebbe stato uno dei consulenti ideali per il progetto del palazzo del cardinale Riario (la Cancelleria) per almeno due motivi. Innanzitutto, la sua conoscenza del De architectura e degli aspetti costruttivi degli edifici antichi doveva essere considerata preziosa per l'edificazione di un palazzo in cui si voleva dichiaratamente ricreare la più ammirata opera muraria romana, l'opus isodomum descritta da Vitruvio. In più, come epigrafista attivo da un ventennio, G. doveva avere già quelle capacità, nate con l'osservazione acuta di molte particolarità delle iscrizioni antiche e della loro collocazione nelle architetture, che mostrerà in un trattatello sulle lettere capitali scritto forse negli ultimi anni della sua vita, di cui è rimasto solo qualche frammento (Ciapponi, 1979; Fontana, 1988, pp. 67 s.). G. vi appare non solo attento al disegno geometrico e al proporzionamento dei caratteri e alla loro disposizione, ma anche in grado di controllare prospetticamente iscrizioni da porre in alto e quindi destinate a essere viste da sotto in su e di correggere il disegno di lettere così collocate considerandone le deformazioni nella veduta. Sarebbe stato quindi particolarmente qualificato per progettare l'iscrizione con grandi caratteri che nel palazzo Riario attraversa da un cantone all'altro tutta la facciata al di sopra del piano nobile. Non vi è alcuna prova, però, che G. fosse uno di quegli "eccellenti architetti" che, secondo Vasari, furono consultati per la Cancelleria, né è decisivo il fatto che venti anni dopo nella sua edizione del De architectura egli abbia dimostrato di avere idee su un palazzo all'antica non lontane da quelle di ispirazione vitruviana che traspaiono in palazzo Riario, per gli ordini sovrapposti di paraste corinzie (M.Vitruvius per Iocundum…, c. 4v) e per i colonnati dei portici sempre conclusi da pilastri angolari (ibid., cc. 4r, 63r, 64v e 66v).Un indizio più consistente di una sua collaborazione al progetto è costituito dalle finestre del piano nobile, le prime nell'architettura rinascimentale che riproducano un tipo antico pertinente, in quanto sono desunte dalle "finestre" dell'ordine superiore di porta Borsari a Verona (S. Valtieri, La fabbrica del palazzo del cardinale Raffaele Riario…, in Quaderni dell'Istituto di storia dell'architettura, XXVII [1982], nn. 169-174, pp. 18 s.), poiché nessuno in quegli anni meglio di un veronese architetto poteva proporne il disegno a Roma.
Dal dicembre 1489 G. risulta essere presente a Napoli (Ciapponi, 1961, p. 141; Fontana, 1988, pp. 23 s.); e qui è nuovamente documentato, dopo un vuoto di notizie nel 1490-91, con regolarità dal 1492 a tutto il 1493. Si suppone che sia rimasto in questa città fino al 1495 e che dopo l'occupazione francese, al pari di un gruppo di artisti già al servizio di Alfonso II, abbia seguito in Francia Carlo VIII, il quale voleva ricreare in patria residenze simili a quelle aragonesi che aveva ammirato a Napoli. Durante il soggiorno napoletano comunque G. era tornato almeno una volta a Roma, dove sicuramente incontrò Ermolao Barbaro, non prima del 1490, anno in cui l'umanista fu inviato come ambasciatore veneziano presso il papa.
L'affermazione di G. Filangieri (Documenti per la storia, le arti… nelle provincie napoletane, III, Napoli 1885, p. 165) che G. era stato chiamato a Napoli per sostituire Giuliano da Maiano, morto il 17 ott. 1490, è insostenibile da quando si è accertato che egli si trovava in questa città quasi da un anno. Diversi personaggi potevano aver presentato G. al duca di Calabria Alfonso d'Aragona introducendolo al suo servizio: Lorenzo il Magnifico, col cui ambiente la dedica della Silloge lo mostra in contatto; Giovanni Pontano; il vescovo di Gaeta Francesco Patrizi, ben introdotto nella corte napoletana (nel caso in cui avesse conosciuto G. a Verona quando nel 1459 vi era stato in esilio oppure a Roma quando nel 1485 vi era stato come "oratore del re di Napoli") e infine il circolo dei Riario e dei Della Rovere, in specie il cardinale Giuliano e suo fratello Giovanni allora in buoni rapporti con gli Aragona.
I compiti di G. al servizio del duca di Calabria erano diversi. Il primo pagamento copre le spese fatte quando Iacopo Sannazzaro aveva accompagnato G. a vedere le "anticaglie" di Pozzuoli. Il 21 dicembre si registra un'altra spesa per un viaggio che G. doveva fare "andando ad Mola et a Gayeta per vedere certa anticaglia" (Percopo, p. 380). Non si deve pensare che G., sovvenzionato dal mecenatismo del duca di Calabria, potesse concentrarsi sui suoi studi antiquari. L'"anticaglia" del secondo viaggio, infatti, doveva essere quella a cui Francesco Patrizi dedicò un epigramma intitolato Presagium imaginis repertae Caietae cum effoderunt aedium fundamenta illustrissimi ducis Calabriae (Smith, p. 135). Doveva trattarsi di una statua importante e, forse, dell'architettura antica in cui essa era stata rinvenuta casualmente durante gli scavi fatti per le fondamenta di una residenza del duca di Calabria. G. appare inviato come esperto per esaminare i ritrovamenti e verosimilmente per provvedere alla nuova costruzione in corso. Nelle stesse località fece numerose visite nell'anno seguente, una volta, il 14 giugno 1492, accompagnato da quattro aiutanti e col programma di fermarsi una settimana. Quando il motivo è specificato si tratta di "faccende […] del duca di Calabria" o di "ordinare certe fabriche vole fare il duca" (De Marinis, II, p. 298), che dovrebbero essere quella stessa architettura civile e poi, verosimilmente, altre militari, divenute urgenti con le crescenti minacce di guerra.
G. aveva quindi il compito di ammodernare le fortificazioni esistenti a Mola e a Gaeta (Fontana, 1988, pp. 30 s., 34) utilizzando le sue conoscenze che nel corso del 1492 si erano accresciute anche in questo campo dell'architettura. Ai primi di giugno di quell'anno, infatti, aveva ricevuto venti pergamene per fare disegni di fortezze "del Reame et altri lochi" (Percopo, p. 380; Fontana, 1988, pp. 30 s.). Il ricco materiale utilizzato fa pensare che si trattasse di una documentazione destinata al duca, probabilmente di copie in pulito di rilievi o vedute di fortezze esistenti o di progetti di Francesco di Giorgio di Mantova (Martini). G. può averle delineate personalmente o, forse, si limitò a curarne l'esecuzione come certamente fece in quel mese in un altro caso. Il 30 giugno, infatti, egli ricevette una somma destinata al pittore Antonello da Capua, il quale a quella data aveva già eseguito centoventisei disegni in due libri "uno de architectura et l'altro dartigliaria et cose apertenenti a guerre" di Francesco di Giorgio Martini. I disegni illustravano una copia, destinata alla biblioteca dei re di Napoli e poi perduta, del trattato del Martini in una redazione anteriore a quella del codice Magliabechiano. G. si era limitato a sovrintendere all'esecuzione dell'opera e quindi non aveva eseguito materialmente i disegni come invece generalmente si afferma (Maltese). Anche in questo modo, comunque, egli aveva avuto occasione di conoscere dal testo del trattato e dalle sue illustrazioni principî e indicazioni di uno dei maggiori esperti del tempo in tema di fortificazioni. Per di più nello stesso mese, nel giugno 1492, se non prima, aveva di certo conosciuto direttamente Francesco di Giorgio quando quest'ultimo era stato chiamato a Napoli per provvedere alla cinta fortificata della città e alle fortezze del Regno. L'incontro tra i due dovette essere proficuo per entrambi. G. forse aiutò Francesco di Giorgio a tradurre dal latino il trattato di Vitruvio (Fontana, 1988, p. 32; Mussini, p. 382), certamente discusse con lui, come era solito fare con gli altri studiosi del De architectura, l'interpretazione di molti passi del trattato. A sua volta il "mechanicus" G. ebbe la possibilità di trarre profitto dalla grande esperienza pratica di costruzioni idrauliche e di macchine di Francesco di Giorgio per integrare le sue conoscenze in questo campo acquisite soprattutto con lo studio di testi scientifici greci e latini. Sempre riguardo alle fortificazioni, G. potrebbe aver conosciuto più tardi anche un altro architetto militare di prim'ordine al servizio del re di Napoli, Baccio Pontelli, il quale nel novembre 1494 lavorava alla fortezza di Reggio e poi era stato chiamato da Alfonso d'Aragona a Sessa Aurunca e a Terracina.
Nei viaggi da Napoli a Gaeta G. naturalmente non poteva non fermarsi a guardare e a disegnare, da Pozzuoli in su, le innumerevoli ville e altre architetture antiche, allora ancora ben conservate, che integravano la sua conoscenza delle antichità veronesi e romane. Ne approfittò per arricchire la propria documentazione epigrafica che comprende appunto testi rilevati a Pozzuoli, Capua, Mola e Gaeta (Ciapponi, 1961, p. 144; Fontana, 1988, p. 49; Koortbojian, pp. 51-54). Tra queste epigrafi G. ne rilevò una sulla gens Vitruvia allora murata nel ponte sul fiume Rialto a Mola e nella stessa località poté vedere il ninfeo della villa detta di Cicerone, scompartito in tre navate di cui quella centrale coperta a botte, che può aver contribuito alla sua restituzione dell'atrio vitruviano in forma di sala basilicale. A Gaeta ottenne poi dal vescovo Patrizi un'epigrafe rilevata ad Assisi.
Tra i letterati con i quali G. era in rapporto nel periodo napoletano, Francesco Patrizi, forse più di Sannazzaro e Pontano dei quali era amico (Ciapponi, 1961, pp. 144 s.), dovette essere il suo principale interlocutore. Con lui dovette discutere sul De architectura, da cui il vescovo di Gaeta aveva tratto numerose indicazioni in tema di assetto della città e di architetture pubbliche e private per i suoi scritti sul buongoverno (Pagliara, 1986, pp. 28-30), e si può immaginare che nascessero da queste riflessioni comuni molte idee per quel grandioso piano di espansione e di riassetto di Napoli ispirato dagli ideali albertiani della città come luogo di elevata vita civile degli individui e della comunità che avrebbe rappresentato una prima applicazione pratica delle loro ricerche su Vitruvio. Il piano, attribuito ad Alfonso II e magnificato in primo luogo da Pietro Summonte che tuttavia tace sui possibili ideatori, potrebbe essere stato elaborato nel 1492-93 quando Alfonso era ancora duca di Calabria, prima quindi del suo travagliato anno di regno (C. De Seta, La struttura urbana di Napoli tra utopia e realtà, in Il Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo, a cura di H. Millon - V. Magnago Lampugnani, Milano 1984, pp. 352-358). La repentina abdicazione e l'arrivo di Carlo VIII fecero cadere l'ambizioso progetto al quale G. poteva aver contribuito, al pari di Francesco di Giorgio, anche con indicazioni per gli impianti di adduzione dell'acqua, fondamentali in una città che si voleva munire di fontane in ogni piazza.
Contrariamente a quanto supposto da Hamberg l'analisi del tessuto urbano della città di Napoli, di fondazione ellenistica, non era indispensabile perché G. potesse arrivare a comprendere correttamente il passo vitruviano sul disegno della città interpretando le plateae come vie larghe anziché come piazze (M. Vitruvius per Iocundum…, c. 12r fig.). Se anche non avesse conosciuto i testi in proposito di Isidoro da Siviglia e Rabano Mauro, è estremamente improbabile che non avesse letto le chiare definizioni di Nicolò Perotti (Cornucopiae, sive Linguae Latinae commentarii…, Venetiis, in aedibus Aldi et Andreae soceri, 1513, col. 381; ed. precedente Venetiis 1499, pp. 240, 343), filologo e grecista morto nel 1480, che quasi di certo G. aveva incontrato a Roma, dato che nella silloge epigrafica riproduce il testo di otto lapidi che aveva visto in casa sua.
Nicolini (p. 172), che pur tace sui possibili ideatori del piano di Alfonso II, cita tra quelli "architecti che più allora erano stimati", chiamati da Alfonso quando era duca di Calabria "per fabbricare lo Poggio Reale", "soprattutto […] il bono e singulare fra Jocundo". Quando G. risulta essere presente a Napoli, però, la costruzione di Poggio Reale era già avanzata e quindi si deve escludere la sua partecipazione al progetto di quell'architettura. Si può invece ammettere, considerando una delle specializzazioni per cui si distinguerà in seguito in Francia e nel Veneto, che egli avesse collaborato a quest'opera per gli impianti che conducevano l'acqua nei giardini e consentivano quei bizzarri giochi di cui scriverà Sebastiano Serlio. L'interesse che G. dichiarò di aver sempre avuto per gli scritti latini sull'agricoltura quando nel 1514 pubblicò questi testi fa poi pensare che possa aver contribuito anche alla sistemazione degli stessi giardini (Fontana, 1988, p. 23). Rimane invece dubbia l'attribuzione a G. della cappella Pontano a Napoli (1490-95), proposta per la sua ispirazione antiquaria e per i rapporti dell'architetto col committente e poi assegnata per motivi stilistici a Francesco di Giorgio (R. Pane, Il Rinascimento nell'Italia meridionale, Milano 1975-77, I, p. 89, e II, pp. 199-202; Fontana, 1988, p. 32).
Il 23 nov. 1493, quando a Napoli sono assegnati a G. consistenti benefici ecclesiastici, questi si fece rappresentare da un procuratore perché è "aliis Illustrissimi domini ducis Calabriae magis arduis negociis occupatus" (Ciapponi, 1961, p. 145). È questo l'ultimo attestato della sua presenza nel Regno, ma i benefici potevano costituire una forma di retribuzione regolare per servizi alla corte aragonese che ovviamente nelle previsioni dovevano protrarsi nel tempo.
La prima notizia successiva al soggiorno napoletano, del febbraio 1498, riguarda la presenza di G. in Francia stipendiato dal re. È ormai generalmente accettata l'ipotesi che egli sia rimasto a Napoli fino al 1495 e da lì sia passato direttamente in Francia (ibid., pp. 146 s.; Fontana, 1988, p. 36).
Nel febbraio 1498 la lista delle retribuzioni corrisposte ad artisti reclutati in Italia da Carlo VIII attesta che G., in qualità di "deviseur des bastiments", riceveva annualmente 520 lire e 10 soldi tornesi, un compenso inferiore solo a quelli di uno scultore e di un orafo, ma molto superiore a quanto percepito da tutti gli altri (Ciapponi, 1961, p. 134).
Il frate veronese conservò questo incarico, equivalente a quello che aveva coperto a Napoli, finché non lasciò la Francia e anche dopo che la Comunità di Parigi gli aveva assegnato una "provisione" di 160 lire annue per la sua collaborazione alla ricostruzione del ponte di Notre-Dame.
Lo attesta Guillaume Budé, il quale definisce G. "architecte royal" negli anni in cui si stava costruendo il ponte ed egli sotto la guida del frate stava studiando Vitruvio, e lo conferma l'ambasciatore veneziano Domenico Morosini in una lettera scritta da Parigi nel 1504 per proporre al Consiglio dei dieci di assumere al servizio della Repubblica G., il quale "ha stipendio da questa magnifica comunità, è homo de grande ingegno; ha provisione de dicta comunità per haverli dato modo de fare un ponte sopra la Sequana; è singulare cosa. Ha etiam provisione dal Christianissimo Re" (Leseur, 1931, pp. 142-144; Brenzoni, p. 26). G. stesso nel 1507, nella relazione sulla Brentella indirizzata al doge, per sottolineare il proprio valore dichiara: "essendo in Francia a provision del Re, mal volantiera mi dete licentia: et similiter havendo provision dali Parisini ne fecero grande instantia che restasse" (Bailo; Brenzoni, p. 150).
Sappiamo ben poco, tuttavia, su cosa G. abbia fatto come architetto del re (Ciapponi, 1961, p. 147; Fontana, 1988, pp. 38-40). Per quanto Morosini lo presenti alla Repubblica come esperto anche in fortificazioni ed egli stesso nella Supplica alla Signoria in cui fissa le proprie richieste dichiari di "haver […] peritia de ordinar forteze cum vari modi et maniere de prevalerse contra ogni impeto de artigliarie et di bataglie da mano", su una sua attività di questo genere svolta in Francia non risulta nulla. L'unica opera regia attestata da più fonti è un acquedotto munito di un doppio sifone costruito per fornire l'acqua, prelevata da uno stagno a quota inferiore, ai giardini del castello di Blois, posti in posizione elevata. Morosini attesta che si tratta di un'opera in corso di completamento nel 1504 (Brenzoni, pp. 26 s.). I lavori, infatti, erano in corso nel 1503 (Leseur, 1931, pp. 130-132). Leonardo da Vinci, forse nel 1516, vide l'impianto e appuntò uno schizzo e una nota sul "giardino di Bles" e "il condoto di Bles fatto in Francia" da G. (J. Guillaume, Léonard et l'architecture, in Léonard de Vinci ingénieur et architecte, Montréal 1987, p. 326 n. 122; Fontana, 1988, p. 40).
Le proposte di attribuire a G. altre architetture civili non hanno trovato conferme né per il castello di Amboise (Fontana, 1988, p. 38) né per quello di Bury assegnato a G. da Geymüller (1882, pp. 53-55) sulla base di un documento successivamente dimostratosi falso (P. Leseur, Le château de Bury et l'architecte Fra' Giocondo, in Gazette des beaux-arts, LXVII [1925], pp. 337 s., 343, 357). Anche per il castello di Gaillon la contabilità dei lavori non conferma l'attribuzione e per sostenerla bisognerebbe pensare a un progetto preparato da G. ed eseguito dal 1508 dopo la sua partenza dalla Francia (Fontana, 1988, p. 39).
È ormai abbastanza chiaro, invece, il ruolo di G. nella ricostruzione del ponte di Notre-Dame, la sua più nota opera ingegneristica che gli ha procurato un posto di rilievo nella storia dell'ingegneria europea del XVI secolo (M. Mislin, Die überbaute Brücke: Pont Notre-Dame, Frankfurt a.M. 1982).
Il precedente ponte di legno era andato distrutto il 25 nov. 1499; e il 28 maggio 1500 si era posta la prima pietra di quello nuovo, che si era deciso di ricostruire di pietra. Esperti chiamati a consulto dalla Comunità di Parigi si riunivano, talvolta con frequenza settimanale, per discutere man mano, in assenza di un progetto definitivo e particolareggiato, le decisioni da prendere sul numero dei piloni e degli archi, sulle dimensioni e le forme di questi, degli speroni e delle rampe (Leseur, 1931, pp. 125-128; Fontana, 1988, pp. 41-44). G. partecipò per la prima volta a una riunione il 6 luglio 1500 per decidere le dimensioni dei piloni e il profilo a tutto sesto degli archi, e fino al 6 novembre di quell'anno intervenne a diverse riunioni importanti, tra le quali alcune sulle fondazioni dei piloni e una sull'altezza degli archi. Ricomparve il 25 nov. 1502, dopo due anni nei quali nulla era stato deliberato. Dopo un altro anno di assenza, nella riunione del 9 marzo 1504 presentò una relazione in latino esaminata il 28 dello stesso mese (Ciapponi, 1988, p. 106). Si decise allora di tendere funi al di sopra dei piloni per verificare le quote previste per i piani carrabili. Il 7 aprile dell'anno seguente si stipulò il contratto per la costruzione delle arcate, completate nel luglio 1507, dopo la partenza di G. dalla Francia.
La memoria del ruolo di G. nella costruzione del ponte, celebrato seppure con esagerazioni e imprecisioni da epigrammi di Sannazzaro e di Giulio Cesare della Scala (Scaligero) e da Vasari, era ancor viva nel 1660 quando il capo dei mercanti che avevano casa e bottega sul ponte fece porre su una di queste un'epigrafe che lo ricordava (Fontana, 1988, p. 45). Gli studi sui rapporti tra G. e Guillaume Budé (Juren, 1974, p. 108, e, in specie per il ponte, Ciapponi, 1988, pp. 105-110) hanno portato a precisare i modi in cui G. ha contribuito alla costruzione del ponte, confermando che egli va considerato a pieno titolo architetto di quell'opera per la quale in precedenza si tendeva a limitare la sua funzione a quella di consulente e ad attribuire la parte principale a Didier de Felin.
Budé fornisce molti indizi in tal senso. Durante i suoi studi sul De architectura, condotti con la guida di G. negli anni in cui erano iniziati i lavori del ponte, in margine al libro X della sua copia del trattato, esemplificando macchine vitruviane per sollevare l'acqua ricorda le "rote aquarie" e un'altra macchina "quibus usi sunt in ponte Parisiensi". Nelle Adnotationes in libros Pandectarum, Parisiis, Robertus Stephanus, 1508, cc. XXIVv e XXVr, l'umanista francese descrive poi gli stessi tipi di macchine idrauliche e tratta di una macchina vitruviana per sollevare blocchi di pietra. Infine descrive le giunzioni a coda di rondine dei legni che formavano le paratie dei cassoni per la fondazione dei piloni in mezzo all'acqua (Ciapponi, 1988, pp. 106 s.), senza menzionare G., ma seguendo nel lessico latino gli emendamenti che questi aveva apportato al testo di Vitruvio. Budé non dice che questa carpenteria sia opera di G.; ma si può dedurre che egli, privo di esperienze tecniche, abbia potuto analizzarne i dettagli proprio perché i lavori erano diretti dal frate, il quale nel cantiere moderno del ponte utilizzava macchine antiche che aveva ricostruito interpretando il testo vitruviano. Con queste macchine idrauliche e con i procedimenti per fondare i piloni nel letto del fiume G. "aveva dato modo de fare" il ponte sulla Senna (Morosini). Il suo contributo, invece, era forse meno indispensabile per le macchine per sollevare pesi, dal momento che queste erano già ampiamente impiegate nei cantieri gotici. Lo stesso Budé giudica chiaramente essenziale il ruolo di G. quando lo definisce "Jucundus […] qui pontem Parrhisiensem architectatus est", confermando così le testimonianze di Morosini e Giovanni Goheri (Ciapponi, 1988, pp. 106 s., 110). Nello stesso tempo le testimonianze di Budé mettono in luce gli intenti pratici per cui G. cercava di rendere nuovamente comprensibile il trattato latino.
L'intensa attività non impedì a G. anche durante il soggiorno francese di dedicare parte del tempo agli studi, alla ricerca di iscrizioni e codici e ai dialoghi con altri letterati (ibid.; Koortbojian, pp. 50 s., 54 s.). Fu più intensa la ricerca di codici, per la quale, stando a quanto egli dichiarerà a consuntivo nel 1513 nel pubblicare i Commentarii di Cesare, era mosso dalla convinzione che in Francia più facilmente che in Italia, dove le guerre frequenti avevano comportato la distruzione di tante biblioteche antiche, si potessero trovare codici vetusti, quindi con testi meno corrotti. Fondata o no che fosse questa considerazione, le sue ricerche furono molto fruttuose. All'inizio del XVI secolo, quando ormai era finito il tempo delle grandi scoperte, G. riuscì ancora a trovare due testi sconosciuti, trasmessi in un unico esemplare (G. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci nei secolo XIV e XV, Firenze 1905, pp. 170 s., 212). Uno è un codice delle epistole di Plinio il Giovane contenente un importante gruppo di lettere, tra le quali la corrispondenza con Traiano, mancante negli esemplari noti fino ad allora, che era stata ricercata inutilmente per tutto il XV secolo; l'altro è il De prodigiis di Giulio Ossequente. G. trovò anche nuovi codici di Nonio Marcello e di Sallustio, cercò in tutta la Francia manoscritti dei Commentarii di Cesare, sulla cui collazione basò l'edizione del 1513.
Il ritrovamento più importante è quello del manoscritto di Plinio il Giovane, che G. rinvenne vicino a Parigi nei pressi di Meaux sicuramente entro il 1500 dal momento che alla fine del 1501 il testo era già stato visto da Giovanni Lascaris il quale ne diede notizia ad Aldo Manuzio. G. si mise subito all'opera. Collazionò il manoscritto ritrovato con precedenti edizioni e ne trascrisse la parte nuova; lavoro che, generosamente divulgato con la grande noncuranza che lo contraddistingueva per tutti gli aspetti legati al riconoscimento delle sue laboriose ricerche, venne in parte "bruciato" nel 1502 da una frettolosa edizione stampata a Verona nella quale si pubblicarono solo quarantasei lettere la cui scoperta venne attribuita a Pietro Leandro. Appena arrivato a Venezia nel 1506, G., che preferiva occuparsi di testi più tecnici, consegnò la trascrizione e sei volumi stampati e collazionati con antichi manoscritti ad Aldo Manuzio, il quale nel 1508 pubblicò un'edizione finalmente completa delle Epistulae di Plinio insieme con il De prodigiis ricevuto ugualmente dal frate veronese.
Un codice-incunabolo (Oxford, Bodleian Library, Auct. L. 4.3), comprendente il primo volume con l'edizione delle lettere di Plinio pubblicate a Bologna nel 1498, un secondo con l'edizione veronese del 1502, due opuscoli estranei al corpus pliniano e una trascrizione delle nuove lettere pliniane mancanti nell'edizione del 1502, induce a considerare più che probabile la possibilità che il testo di Plinio il Giovane sia, come il De architectura, tra quelli che Budé studiò sotto la guida di Giovanni Giocondo. Nei primi due volumi si trovano postille di due mani, una delle quali potrebbe essere di G.; l'altra è sicuramente di Budé, le cui collazioni e note sono fatte o utilizzando l'esemplare del maestro o lavorando direttamente sotto la sua guida (Ciapponi, 1988, pp. 116 s.). Gli insegnamenti di G. a Budé sull'analisi filologica interpretativa di un testo antico sono meglio verificabili nel caso del De architectura, per il quale si può confrontare l'incunabolo fittamente commentato con note e disegni appartenuto all'umanista francese con la più tarda edizione del De architectura pubblicato dal suo maestro. Budé stesso dà testimonianza di una notevole modalità degli insegnamenti ricevuti (ibid., p. 102). G., che per agevolare la comprensione del testo assegnò nello stampare il trattato un ruolo essenziale alle illustrazioni, dieci anni prima usava allo stesso scopo i suoi disegni preparatori nelle lezioni vitruviane. L'uso che Budé ben presto fece autonomamente del metodo appreso nel De asse e nelle Adnotationes in libros Pandectarum mostra che G. gli aveva trasmesso a pieno i procedimenti che egli stesso aveva seguito nel suo pluridecennale lavoro sul De architectura. In anni in cui la filologia, sviluppatasi nel XV secolo in Italia, si avviava a essere superata da quella d'Oltralpe, l'insegnamento di G. rappresenta un ultimo episodio di alto livello della scuola italiana e dà un avvio fecondo di risultati agli studi vitruviani in Francia (Jaren, 1974, pp. 101-103; Ciapponi, 1988, p. 118). L'insegnamento di G. a Parigi sul De architectura non è limitato a Budé: ne trassero profitto anche Giovanni Lascaris, Filiberto Naturelli, legato imperiale a Parigi, e numerosi umanisti cui G. leggeva e commentava Vitruvio (ibid., pp. 101, 104, 113).
Negli ultimi mesi trascorsi in Francia G. potrebbe aver elaborato due progetti per architetture italiane: uno per il veneziano fondaco dei Tedeschi e l'altro per il nuovo S. Pietro a Roma.
Pietro Contarini dichiara ripetutamente, la prima volta nel 1517, che G. è l'architetto del fondaco dei Tedeschi mentre i documenti danno notizia solo di un progetto di Giorgio Spavento e di uno di Girolamo Tedesco, il secondo approvato il 10 giugno 1505. G. allora era ancora in Francia ma poiché è difficile assegnare ad altri che a lui questa architettura si dovrebbe supporre che egli avesse inviato un progetto. Il fondaco, infatti, appare ispirato all'antico nel cortile quadrato al modo di un vitruviano foro greco cinto da un quadruplice ordine di arcate su pilastri di altezza decrescente. Nell'impianto e nella struttura di portici e logge traspare una razionalità pari a quella dell'architettura gotica di cui G., vivendo per un decennio al di là delle Alpi, doveva aver colto a pieno e apprezzato lo spirito. I pilastri a pianta quadrata ricordano invece molte architetture di Francesco di Giorgio; e G. poteva conoscere questo elemento del linguaggio martiniano quanto meno attraverso le illustrazioni del trattato del senese. Le basi dei pilastri, semplificate man mano che si sale da un ordine all'altro, appaiono affini a quelle ridotte al minimo, un plinto o una modanatura a quarto di cerchio, di alcune immagini del dorico nel De architectura edito da G. (Tafuri, pp. 57-59; Fontana, 1988, pp. 63-65).
La pianta del Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi di Firenze (Arch. 6) per S. Pietro, che una nota di Antonio da Sangallo il Giovane attribuisce a G., deve essere anteriore all'inizio dei lavori nell'aprile 1506 perché non è in alcun modo condizionata da quanto Donato Bramante aveva cominciato a costruire. Nel 1505, nella fase iniziale della progettazione, Giulio II, francescano all'inizio della sua carriera, doveva aver chiamato a Roma G., appartenente allo stesso Ordine, già famoso per la costruzione in corso del ponte sulla Senna e che forse conosceva dal tempo del suo primo soggiorno romano. La pianta per molti aspetti prescinde dalla situazione esistente intorno alla vecchia basilica. Non conoscendo esattamente la data di trasferimento di G. a Venezia, si può ipotizzare che egli abbia inviato il progetto da lì; ma è altrettanto possibile che la trasmissione sia avvenuta ancora da Parigi dove gli era arrivata la richiesta papale. Gli ovvi riferimenti del progetto ai tratti fondamentali di S. Marco, infatti, non presuppongono necessariamente che avesse riguardato di recente la basilica di cui nel progetto G. rielabora il motivo spaziale fondamentale, la cupola contornata da volte a botte di profondità ridotta, replicandolo cinque volte sull'asse longitudinale e tre su quello trasversale. Questo tema bizantino si combina con un altro motivo veneto, quello del coro con deambulatorio e cappelle radiali della basilica padovana di S. Antonio. Il tipo del deambulatorio era da tempo familiare a G. per varie ragioni: come francescano poteva conoscerne l'uso in chiese del suo Ordine nell'Italia settentrionale (le chiese di S. Francesco a Bologna e a Piacenza), di certo aveva ritrovato questa soluzione a Napoli in chiese angioine come S. Lorenzo, e naturalmente ne aveva visto e apprezzato gli innumerevoli esempi francesi, a partire da Notre-Dame. G., uno dei pochi architetti italiani del Rinascimento maturo passato per una ricca esperienza della costruzione gotica e formatosi in primo luogo come ingegnere, doveva aver apprezzato la razionalità degli organismi architettonici gotici. La mentalità di ingegnere dà ragione della sua efficace attenzione per gli aspetti distributivi e funzionali che è uno dei pregi maggiori della pianta degli Uffizi; mentre l'esperienza del gotico traspare nella logica concatenazione delle strutture e nella proiezione sui fianchi e sulla fronte dell'articolazione dell'interno.
La pianta di G. ebbe effetti notevoli non solo sui progetti di S. Pietro. Di certo influì sull'introduzione del deambulatorio in successive piante di Bramante; Antonio da Sangallo riprese un paio di volte l'alternanza di cupole e volte a botte sulla navata principale e questo motivo ispirò anche l'architettura dipinta da Raffaello nella Cacciata di Eliodoro. Il tema principale dell'articolazione spaziale si ritrova in modi e per ragioni diverse a Venezia, nel S. Salvatore progettato da Giorgio Spavento prima dell'agosto 1506, e più tardi, nel 1513, nel S. Sepolcro di Alessio Tramello a Piacenza (Tafuri).
Arrivato a Venezia entro la primavera del 1506, G. indirizzò una gustosa supplica alla Signoria definendo le sue condizioni nella trattativa per la sua assunzione. Mise in rilievo con chiara coscienza del proprio valore l'esperienza che possedeva, chiese un compenso consistente che gli consentisse di svolgere bene il suo servizio e gli garantisse quelle comodità che sono indispensabili per l'attività di un anziano; considerava giusto che dagli emolumenti per il suo ingegno dovesse ottenere quanto era necessario per comprare libri e fabbricare strumenti e fece presente che doveva farsi spedire da Parigi dodici casse di libri e di "altri inzegni", cioè gli strumenti di precisione che progettava e impiegava per i suoi rilievi. Preoccupato della trasmissione delle sue conoscenze si offrì di addestrare degli aiutanti che potessero continuare la sua opera al servizio della Repubblica.
Il 28 maggio i capi del Consiglio dei dieci deliberarono di assumere G. (Brenzoni, pp. 28 s.; Fontana, 1988, p. 54), il quale, assegnato allo "Stato di Mar", prima del 5 giugno insieme con Lattanzio da Bergamo, un militare con pratica di fortificazioni che era stato al servizio di Federico da Montefeltro, fu inviato a ispezionare le fortezze di Corfù, Cefalonia, Zante, nonché di Napoli (Nauplia) e Malvasia nel Peloponneso (Priuli, p. 419; Brenzoni, p. 43). A Corfù G. rilevò il recinto fortificato e lasciò indicazioni scritte per rafforzarne un tratto troppo debole. È improbabile che dopo aver adempiuto ai propri compiti a Nauplia egli rinunciasse a girare per l'Argolide per guardare architetture antiche; ma non si hanno certezze in proposito. Alcune illustrazioni della sua edizione di Vitruvio (M. Vitruvius per Iocundum…), per esempio la colonna dorica quasi priva di base della c. 34r, che sembrerebbero suggerire la sua conoscenza diretta dell'architettura greca, in realtà si giustificano a sufficienza con la sola conoscenza di architetture veronesi. Comunque sia dopo quattro mesi G. era già rientrato a Venezia e l'8 ottobre riferì al Consiglio sul risultato dei suoi sopralluoghi. Venne poi incaricato di studiare la questione della deviazione del Brenta, decisa per arrestare l'interramento della laguna e avviata seguendo un progetto, presentato nell'agosto 1503, dell'ingegnere bergamasco Alessio Agliardi il Vecchio, da tempo al servizio della Repubblica. A questi problemi G. dedicò quattro relazioni stese tra la fine del 1506 e la primavera del 1507.
Le relazioni lo mostrano puntigliosamente preciso, disposto a fidarsi solo di quanto vedeva con i propri occhi e, quando ciò non gli fosse possibile, attento a vagliare informazioni e pareri altrui. Perlustrò meticolosamente paludi e lagune e quando i fondali troppo bassi lo obbligavano ad abbandonare la barca si addentrava a piedi nei canneti, percorrendo instancabile fossi, argini e ghiaioni. Con i raffinati strumenti di precisione che aveva inventato eseguì accurate livellazioni del vecchio percorso del fiume ed effettuò confronti con le proposte di Agliardi sulla base di dati misurati scientificamente. Criticò quindi il percorso lungo, tortuoso e senza pendenze del progetto e propose un'alternativa più breve che prevedeva lo sbocco in mare nel porto di Chioggia. Nelle sue scelte apparve contrario a forzare gli andamenti naturali facendo affidamento sulle grandi dimensioni delle opere e, invece, attento a valutare i meriti dei predecessori e a utilizzare tratti esistenti di canali naturali. Infine chiese che anche Agliardi esponesse per iscritto i propri argomenti, cosa che avvenne il 17 apr. 1507. G. non riuscì a persuadere il Consiglio, il quale, convinto che solo l'esperienza pratica potesse dirimere la controversia, il 27 maggio 1507 deliberò di mettere in funzione a pieno regime il canale di Agliardi (B. Zendrini, Memorie storiche dello stato antico e moderno delle lagune di Venezia, Padova 1811-14, II, pp. 247-290).
Non ebbe maggior successo la soluzione elaborata da G. per un canale che attingesse acqua dal Piave per irrigare le campagne trevigiane e di Castelfranco ed esposta in un'altra relazione redatta sicuramente dopo il maggio 1507 poiché vi traspare l'amarezza per la scelte del Consiglio dei dieci sulla deviazione del Brenta (Brenzoni, pp. 150-156; Fontana, 1988, pp. 61-63).
Il 26 ott. 1508 il Consiglio di Verona unanime, rinnovando richieste ripetute da anni per consolidare l'antico ponte della Pietra da tempo bisognoso di restauri, supplicò le autorità veneziane affinché "nobis concedant Rev.dum Fratrem Jucundum architectorem qui praesit ipsi operi". Il 6 novembre da Venezia si rispose ribadendo l'ordine di predisporre tutti i materiali necessari e promettendo l'invio del "venerabile Fra Jocundo inzignier" nel momento in cui tutto fosse pronto. Nel parapetto del ponte, distrutto nel 1944, un'epigrafe nella quale non compariva il nome di G. attestava che i lavori erano stati compiuti nel 1520. Vasari nel 1568 (V, pp. 263 s.) racconta che, secondo testimoni oculari, "dovendosi rifondare la pila di mezzo, la quale molte volte per avanti era rovinata, Fra Iocondo diede il modo di fondarla" fasciandola "di doppie travi lunghe e fitte nell'acqua d'ogni intorno acciò la difendessino in modo che il fiume non la potesse cavare sotto" e aggiunge che la soluzione era stata efficace perché l'opera "è durata e dura, senza aver mai mostrato un pelo". Ma le sue informazioni erano inesatte o non aggiornate. Il 10 febbr. 1561, infatti, i rettori di Verona rinnovarono la richiesta di contributi veneziani perché tre piloni del ponte erano stati di nuovo scalzati dalla corrente. Se ne deve concludere che i lavori terminati nel 1520, forse senza la consulenza iniziale di G., non erano stati risolutivi e si può dubitare che il pilone centrale cinquecentesco con un ampio occhialone per dare sfogo alle piene, esaminabile in molte foto (P. Gazzola, Ponti romani, I, Ponte Pietra a Verona, Firenze 1963, tav. 32), sia stato ricostruito in quel modo prima del 1561 (Brenzoni, pp. 45-51).
Dal 1509 all'agosto 1511, durante la guerra contro la Lega di Cambrai, G. fu impiegato senza soste nell'apprestamento di strutture difensive e in lavori idraulici a queste strettamente connessi. Il 18 febbr. 1509 riferì al Consiglio sulle ispezioni fatte alle fortificazioni di Padova, Treviso e Monselice, soffermandosi soprattutto su Padova e sul bastione di Codalunga. Qui propose di costruire moderni bastioni angolati: "voria far li muri a cantoni, per più sicurtà etc. Et tamen, era stà terminato prima farli dreti" (Sanuto, IX, col. 543). In marzo, insieme con Lattanzio da Bergamo, fu inviato a Cremona e compì sopralluoghi a Crema, Legnago e forse a Peschiera (Fiocco, p. 33). Il 25 aprile si decise di mandarlo a Legnago per aumentare le difese della fortezza allagando i terreni circostanti con le acque dell'Adige del quale si volevano tagliare gli argini. Il progetto però dovette essere abbandonato: il fiume era in magra e i contadini "comandati" si rifiutarono di compiere un lavoro che avrebbe portato ad allagare i loro campi (Sanuto, VIII, coll. 130, 306, 354; Brenzoni, pp. 35 s.). A fine maggio G. era di nuovo a Legnago, non è chiaro se dopo aver riferito a Venezia. In seguito all'avanzata dell'esercito francese, che il 14 maggio aveva sconfitto i Veneziani ad Agnadello e che conquistò anche Legnago, G. si aggregò alla ritirata dell'esercito della Serenissima e, passando forse per Padova, tornò a Venezia. Qui, in vista di un probabile assedio, si mobilitarono diversi ingegneri per aumentare le capacità di macinare grano; e G. pensò di sfruttare il moto delle maree per azionare due mulini che a metà giugno fece installare a Murano (Sanuto, VII, col. 403). Il tentativo risultò fallimentare perché le ruote girarono soltanto un paio di ore al giorno e l'idea di azionarle per mezzo della marea suscitò il sarcasmo di Leonardo (Brenzoni, p. 35). Il 17 luglio i Veneziani riconquistarono Padova, dove la concentrazione della popolazione delle campagne e dell'esercito portò gli abitanti a 80.000 (Fontana, 1988, p. 72), un numero che aggravava la minaccia degli Imperiali di prendere la città per sete riducendo i flussi del Brenta e del Bacchiglione. Per far fronte a questo pericolo furono particolarmente utili le competenze di G. che, chiamato ripetutamente, arrivò in città il 1° agosto. Già nel 1506 G. aveva colto l'importanza della chiusa di Limena, che controllava il flusso del Brenta a monte di Padova, e pertanto suggerì subito di rinforzare con un nuovo bastione il castello di quella località (Lenci, pp. 101-103) che tuttavia fu espugnato il 13 agosto, prima che si arrivasse a completarne le difese. Il successivo tentativo di attacco dell'esercito nemico alla città avvenne proprio dal bastione di Codalunga che G. aveva individuato come punto debole del sistema difensivo. Per aumentare le difese in poco tempo e con poca spesa il frate consigliò, da Padova stessa il giorno 17 ottobre, di allargare e approfondire le fosse iniziando dai tratti di cortina più esposti (Brenzoni, pp. 69 s.). Per Vicenza, invece, dove era atteso, forse invano, in dicembre, G. consigliò per iscritto di approntare una rapida difesa con terrapieni (ibid., p. 36). Nell'aprile 1510 presentò al Consiglio un progetto per Limena (Sanuto, X, col. 149) e riferì su un progetto per Legnago, nel frattempo riconquistata dai Veneziani, ma che ricadde in mano degli Imperiali durante i lavori.
La fortificazione più impegnativa e consistente che G. portò a buon punto fu quella di Treviso, di cui si occupò a pieno nei primi mesi del 1510 e poi con rari sopralluoghi fino all'agosto 1511. Già nel novembre 1509 fu in questa città per alcuni mesi, fino all'aprile 1510 (ibid., col. 169; Ciapponi, 1961, pp. 134 s.), durante i quali verosimilmente mise a punto il progetto e seguì con continuità l'avvio dei lavori (Brenzoni, pp. 37 s.).
Il progetto prevedeva un grande "guasto", che comportava la distruzione di borghi consistenti tutti intorno alla cinta muraria per un'ampiezza di mezzo miglio per lasciare campo aperto ai tiri delle bocche da fuoco (P. Bembo, Della historia vinitiana…, Venezia, Gualtero Scotto, 1551, p. 151). La cinta muraria venne rinnovata, munita di baluardi e fronteggiata da un fosso ampio e profondo. Forte delle esperienze di Padova e Legnago, G. aveva studiato il modo di trattenere l'acqua del Sile in città per condurla rapidamente nei fossati (ibid.). L'opera fortificata di G. a Treviso diede buona prova quando nell'ottobre 1511 gli Imperiali circondarono la città, ma rinunciarono ad attaccarla (Fontana, 1988, p. 74); fu ammirata da Pietro Bembo e, insieme con quella di Padova, fu considerata positivamente dagli storici moderni dell'architettura militare (H. De La Croix, Military considerations in city planning: fortifications, New York 1972, p. 43; S. Pepper - N. Adams, Fire arms and fortifications, Chigago-London 1986, pp. 21, 28). Il "guasto", però, aveva suscitato reazioni negative di gran parte della popolazione; e anche i capi militari di Treviso accolsero come una liberazione la partenza di G. dalla città.
Il Consiglio dei dieci, che aveva deliberato dall'inizio di far durare l'incarico a G. a proprio piacimento, lo licenziò all'istante facendogli "un gran rebufo a via mal fato" (Sanuto, XII, col. 342). Dall'agosto 1511 fino al maggio 1514 a Venezia G. ebbe finalmente un periodo di otium in cui poté dedicarsi al perfezionamento di molti suoi studi pluridecennali e alla conclusione editoriale di lunghe ricerche. Nel 1508 Manuzio aveva già pubblicato le Epistulae di Plinio insieme con il De prodigiis di Giulio Ossequente e, nel 1509, l'edizione di Sallustio basata su due manoscritti che gli avevano dato G. e Giovanni Lascaris, due opere che G. non curò forse perché preso dalle attività belliche (Ciapponi, 1961, p. 153). Persino in periodo di guerra, però, non smise di lavorare su Vitruvio.
Il 20 maggio 1511 l'editore Giovanni Tacuino chiese un privilegio per stampare varie opere tra cui il De architectura, uscito il giorno seguente, l'unica opera che G. non pubblicò con Aldo Manuzio e che dedicò a Giulio II in funzione di un trasferimento a Roma a cui cominciava a pensare.
L'obiettivo di G. era stato quello di emendare il testo affinché lo si potesse capire e utilizzare nella pratica. A tal fine aveva cercato codici meno corrotti e aveva emendato il testo anche in modo congetturale, confrontando diversi brani del trattato tra loro o con brani di altri autori. Anche le illustrazioni, che per la prima volta corredavano un'edizione di quel trattato, furono introdotte per agevolare la comprensione del testo e i loro soggetti furono scelti pensando ai temi più utili per l'architettura del tempo: la casa, i diversi tipi di edifici antichi tra cui il teatro, le tecniche costruttive, macchine di ogni genere con strumenti per misurare e quelli che poi furono chiamati "ordini". L'edizione di G. conseguì lo scopo di agevolare la comprensione del trattato anche da parte di architetti che non conoscessero il latino. Le interpretazioni grafiche proposte influirono profondamente sull'architettura del Cinquecento. Per esempio, la concezione dell'atrio come sala a forma di basilica con tre navate sarà ripresa da Antonio da Sangallo in palazzo Farnese, da Raffaello a villa Madama e più tardi da Michele Sanmicheli.
Il 28 giugno 1512 G. presentò una supplica alla Signoria chiedendo il privilegio per alcuni libri che di fatto furono stampati nei due anni seguenti: Columella e altri scritti di agricoltura, i Commentarii di Cesare e Nonio Marcello.
Nel 1513 pubblicò una nuova edizione del De architectura dedicata a Giuliano de' Medici, in ottavo, con figure un po' semplificate e l'aggiunta di qualche illustrazione nuova, unendovi il De aqueductibus urbis Romae (Florentiae, Philippus de Giunta, 1513), un testo collegato alle materie di Vitruvio e all'attività professionale dello stesso Giovanni Giocondo. Sempre nel 1513 (Venetiis, in aedibus Aldi et Andreae soceri) pubblicò i Commentarii di Cesare dedicando anche questo a Giuliano, fratello del papa, in vista di un ormai imminente trasferimento a Roma al servizio di Leone X. L'edizione è corredata da una mappa della Gallia commentata da Aldo Manuzio e, al modo del De architectura, da cinque figure tecniche una delle quali illustra il ponte di legno sul Reno.
Nel novembre 1513 Aldo Manuzio pubblicò nei Nonii Marcelli Compendia… un altro dei manoscritti trovati in Francia da G., che ne curò l'edizione. Infine nel maggio 1514 furono pubblicati, sempre da Aldo, i Libri de re rustica, che G. dedicò a Leone X. È l'ultima opera curata da G. e fissa anche un termine per la sua partenza da Venezia. Nell'epistola G. dichiara di essersi sempre dilettato dello studio di questa materia senza mai saziarsene.
Nominato architetto di S. Pietro dal 1° nov. 1513, nei primi mesi dell'anno seguente, in cui rimase a Venezia, G. ebbe l'occasione di presentare un ultimo progetto per questa città, uno dei pochi che, come quello per S. Pietro, riguardi un'architettura vera e propria e non un'opera di ingegneria. In gennaio un incendio aveva distrutto il ponte di legno di Rialto e alcuni edifici dell'attiguo mercato che subito si era deciso di ricostruire. I sette progetti presentati, uno dei quali opera di G., furono esaminati una prima volta il 5 marzo e poi rivisti in seguito; G. a differenza dei concorrenti non si presentò a illustrare il proprio progetto. Alla fine venne preferita la proposta di Antonio Scarpagnino. Il modello o il disegno di G., che non si era conservato, è descritto da Vasari, che doveva averlo visto direttamente o averne avuto notizia da qualcuno che lo aveva visto, e pare fosse ispirato come il fondaco dei Tedeschi dall'idea del "foro" greco a pianta quadrata (Fontana, 1988, pp. 77 s.).
Nel giugno 1514 G. arrivò e Roma e subito Leone X gli assegnò la posizione principale nella Fabbrica di S. Pietro. Quanto ai motivi che possono aver indotto il papa a scegliere G. si sono proposte due ipotesi, entrambe basate sulla sua notorietà come grande ingegnere. O che si pensasse alla necessità di consolidare le fondazioni bramantesche, come di fatto sarebbe avvenuto, o all'esecuzione della cupola prevista da Bramante.
La prima ipotesi è confermata, fra l'altro, dalla contabilità dei lavori e dal racconto di Vasari. G., in effetti, intento a collegare i piloni della cupola a quelli attigui non si limitò a svolgere il ruolo di consolidatore: preparò, infatti, due modelli e modificò la costruzione del transetto meridionale con l'aggiunta di una nicchia che prenderà poi il suo nome.
Nonostante il papa chiamasse ogni giorno sia G. sia Raffaello per discutere con loro della nuova costruzione, nell'anno in cui G. rimase a capo della Fabbrica prevalsero sempre le sue scelte. Raffaello si accostò con venerazione e con la speranza di apprenderne i segreti dell'architettura all'anziano frate. Nell'anno di collaborazione questi ebbe modo di trasmettergli molte delle sue esperienze e delle sue conoscenze sul trattato di Vitruvio, su diversi tipi di edifici antichi, come le domus e i teatri, sul modo di studiare l'antichità raffrontando le rovine con i testi letterari. Per quanto Raffaello avesse come pittore una grande capacità di valutare l'effetto dei particolari architettonici in funzione della loro posizione rispetto all'osservatore, le considerazioni che G. aveva fatto in questo campo analizzando epigrafi in posizione elevata erano preziose anche per lui, che presto mostrerà di averne fatto tesoro. Infine il modo di lavorare di G. sui testi può aver aiutato Raffaello a elaborare quell'embrione di critica stilistica dell'architettura antica di cui si sarebbe mostrato capace pochi anni dopo.
Il 2 ag. 1514 G. scrisse compiaciuto all'amico Manuzio dell'accoglienza ricevuta a Roma: il papa gli aveva messo a disposizione una casa vicino a S. Pietro con giardini e logge, gli aveva assegnato un lauto stipendio e gli aveva regalato persino una botte di vino bianco e una di vino rosso. G. godette per poco tempo di queste cortesie che lo compensavano delle amarezze veneziane. Morì infatti prima del 2 luglio 1515, data in cui Sanuto ricevette notizia della sua morte e la registrò nel proprio diario (XX, col. 363).
È probabile che G. avesse portato con sé a Roma le tante casse di libri e strumenti che aveva a Parigi. Dopo la sua morte la biblioteca venne confiscata dalla Camera apostolica per recuperare un anticipo sul suo stipendio (Frey, p. 30; Fontana, 1988, p. 87) e comunque risulta essere in possesso di Leone X nel 1518.
Alcuni scritti arrivarono nelle mani di Angelo Colocci, l'amico con cui G. condivideva l'interesse per la metrologia antica (Fanelli, 1979; Günther, pp. 59, 279; I.D. Rowland, Raphael, Angelo Colocci and the genesis of the architectural orders, in The Art Bulletin, LXXIX [1994], pp. 85-87), il quale aggiunse una nota nella raccolta autografa di testi matematici medievali del Vat. lat. 4539 (Fanelli, 1979, pp. 61-62; Pagliara, 1984; Ciapponi 1984, p. 183; Fontana, 1988, pp. 85 s.). Il medesimo deve aver posseduto anche i frammenti del De litteris che, insieme con la copia colocciana del De architectura tradotto da Marco Fabio Calvo, fanno parte del Cod. It. 37 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (Ciapponi, 1979; Rowland, 1994, p. 87, e Id., The culture…, 1998, pp. 224 s.).
Il codice Laurenziano Plut. 29, 43 comprende testi di matematica, geometria e di problemi tecnici, in parte di mano di due copisti francesi; è completato e annotato da G. che vi delineò tutti i disegni.
I codici della Biblioteca apost. Vaticana e della Biblioteca Medicea-Laurenziana di Firenze fanno parte degli scritti ai quali G. accenna nell'epistula del De architectura: "scripsi tamen de architectura et de mathematicarum disciplinarum usu ac tractatione: multa sed nondum elaborata nondumque satis perpolita".
Il corpus consistente di disegni, che Geymüller (1882) aveva attribuito a G. e che Ferri aveva ampliato, è stato drasticamente ridimensionato. Dei disegni agli Uffizi, quelli riguardanti le antichità romane pubblicati da Bartoli sono stati posti in dubbio o respinti (Günther, 1988, pp. 10, 203), alcuni sono riproposti dubitativamente da Fontana (1988, pp. 83-85); ma, secondo Ciapponi (1984, p. 193) solo quelli di geometria sono assegnabili con sicurezza a G. (Arch. 3936-43).
Per gli album Destailleur conservati all'Ermitage di San Pietroburgo l'attribuzione proposta da Geymüller è respinta già da Bartoli. Per alcuni fogli di questa raccolta A. Nesselrath (Codex Coner…, in Cassiano Dal Pozzo's paper museum [Atti del Convegno…, Londra… 1989], II, Milano 1992, pp. 159 s.) ha proposto nuove convincenti attribuzioni. La tesi di dottorato di M. Mikhailova sui tre album, scritta negli anni Sessanta, è rimasta inedita; gli album sono parzialmente illustrati dalla stessa autrice (Bridges of ancient Rome: drawings in the Hermitage ascribed to Fra' Giocondo, in The Art Bulletin, LII [1970], pp. 250-264) e da M.A. Gukovskj (Ritrovamento dei tre volumi di disegni attribuiti a Fra Giocondo, in Italia medievale ed umanistica, VI [1963], pp. 263-269). Alcuni dei soggetti, ponti e antichità della Campania, farebbero supporre che qualche disegno sia quanto meno una copia derivante da originali di Giovanni Giocondo.
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Galleria degli Uffizi, Roma 1885, pp. XXVI s.; H. De Geymüller, Trois albums de dessins de Fra' Giocondo, in Mélanges d'archéologie et d'histoire de l'École française de Rome, XI (1891), pp. 159-178; I. Carini, Sul codice epigrafico di Fra' Giocondo recentemente acquistato dalla Biblioteca Vaticana, in Dissertazioni della Pontificia Accademia romana di archeologia, s. 2, V (1894), pp. 221 s.; E. Percopo, Nuovi documenti sugli scritti ed artisti dei tempi aragonesi…, in Arch. stor. per le provincie napoletane, XIX (1894), pp. 380-382; R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, I, Roma 1902, pp. 96-126 (in partic. p. 104); A. Serena, Fra' Giocondo e il canale della Brentella, Treviso 1907; K. Frey, Zur Baugeschichte des St. Peter, in Jahrbuch der Preussischen Kunst-sammlungen, XXXI (1911), Suppl., pp. 30, 50, 66; A. Bartoli, I monumenti antichi di Roma nei disegni degli Uffizi in Firenze, I, Roma 1914, tavv. XXV-LX; G. 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