GIARDINI, Giovanni
Figlio di Giacomo e Innocenza Guardigli, nacque nel 1646 a Forlì, nella cui chiesa cattedrale venne battezzato il 24 giugno dello stesso anno.
Quarto di sette figli, ma primo dei tre maschi si trasferì non ancora ventenne a Roma, dove dal 1665 al 1668 svolse il canonico periodo di apprendistato presso la bottega del maestro argentiere Marco Gamberucci. Nel 1670 pagò la tassa di registrazione come lavorante e il 9 dic. 1675 ottenne la patente di maestro argentiere: il capo d'opera sulla base del quale venne positivamente giudicato fu un "un piede d'argento fatto a balestra" (Bulgari). Nel 1672-73 risulta abitare nella parrocchia di S. Giovanni dei Fiorentini insieme con il fratello Sebastiano (nato nel 1653 e ugualmente avviato alla professione di argentiere). Nel 1675 fece venire a Roma da Forlì anche il fratello Alessandro, nato nel 1655, che collaborò prima con Gamberucci e poi direttamente con lui fino al 1714.
Il 2 genn. 1676 il G. assunse insieme con Marco Ciucci la responsabilità della bottega di Gamberucci posta di fronte alla chiesa di S. Lucia, nella casa della Ss. Trinità, in via dei Banchi Vecchi. La durata della società venne stabilita in nove anni; e Gamberucci ne rimase socio di capitale versando agli altri due la somma di 5000 scudi. Il 2 giugno 1676 il G. si sottopose a una nuova prova di maestranza, realizzando un campanello d'argento che gli fece ottenere la conferma della patente e, il 12 dello stesso mese, la licenza per aprire bottega "alla chiavica di S. Lucia" (ibid.).
Dal 1677 al 1683 abitò nella casa degli Orfanelli nella strada di S. Stefano (vicolo Calabrache), dove dal 1678 visse anche il socio Marco Ciucci. Nel 1677 risulta avere nella propria bottega quattro lavoranti: Giovan Battista Garroni, Francesco Nori, Pietro Paolo Borsi e Giovan Battista Laio. Nel 1680 venne sciolta la società con Ciucci e Gamberucci, ma quest'ultimo lasciò generosamente la bottega al Giardini. Dal 1684 al 1696 abitò nella casa della Ss. Trinità, di fronte a S. Lucia, dove già dal 1676 risiedeva il fratello Alessandro, che collaborava con lui nella sottostante bottega. Il 14 luglio 1696 depositò il punzone distintivo della propria produzione, raffigurante "un canestrino di fiori" (ibid.), evidentemente allusivo al cognome. Nel 1698 fu nominato fonditore ufficiale del Sacro Palazzo apostolico.
Il G. ricoprì varie cariche all'interno della corporazione orafa: nel 1686 fu eletto quarto console, nel 1687 terzo console, nel 1692 camerlengo, carica questa che rivestì anche nel 1703, nel 1704 (eccezionalmente per conferma) e nel 1716. Il 12 luglio del 1700 si dimise dall'ufficio di bollatore degli argenti, al quale non è però precisato quando fosse stato eletto. Nel novembre 1706 risulta svolgere l'attività di raffinatore di metalli in una casa presa in affitto già dal 1703 dietro le carceri nuove, affidandola però - a causa dei suoi troppi impegni - ai due soci Ludovico Leonetti e Giacomo Vezzani. La società venne peraltro sciolta nell'aprile 1707; nello stesso negozio di raffineria risultano a lui consociati nel maggio dello stesso anno Giuseppe Bucchi e Francesco Canale. Anche questa società entrò però rapidamente in crisi e venne sciolta nel febbraio 1710.
Al 1712 risale un contratto con l'incisore Massimiliano Giuseppe Limpach di Praga, per la pubblicazione a stampa (caso eccezionale nella storia dell'arte orafa in Italia) di un repertorio di modelli per argentieri da lui disegnati. Questi furono editi a Roma una prima volta nel 1714 con il titolo Disegni diversi inventati e delineati da Giovanni Giardini da Forlì… e ristampati nel 1750 nella versione latina di Promptuarium artis argentariae.
Il 7 ott. 1714 venne stilato un atto di concordia con il fratello Alessandro, che pretendeva di essere riconosciuto socio di fatto con la partecipazione alla metà degli utili della sua attività. L'accordo fu raggiunto con il versamento da parte del G. di 3000 scudi al fratello e l'abbuono di denari e mobili di cui questi si era in precedenza impossessato. Alessandro gli premorì nel settembre 1718, lasciandolo suo erede universale.
Il G. morì il 31 dic. 1721, come risulta dall'iscrizione sulla sua tomba nella chiesa di S. Eligio degli Orefici a Roma. La stessa lapide ricorda il suo lascito per l'edificazione nella medesima chiesa di una cappellania laicale legata all'altare dei Re magi.
A seguito del suo decesso venne stilato l'inventario dei beni della sua casa - posta in via Giulia quasi di fronte a palazzo Sacchetti - al cui interno spicca il suo attento gusto di collezionista di stampe, che l'aveva portato a scegliere opere di A. Dürer, S. Della Bella e dei Carracci, nonché la presenza di sculture di altri maestri che certo dovettero ispirare il suo lavoro, come "un basso rilievo di putti del Fiammengo", evidentemente F. Duquesnoy, e "un basso rilievo di cera grande colorito a rame et oro… del Signor Fugini", cioè Giovan Battista Foggini (Grigioni, 1963, pp. 85 s.)
Personaggio di indubbio e notevole prestigio in vita - come testimoniano sia il ruolo di argentiere pontificio sia la reiterata pubblicazione a stampa dei suoi modelli orafi - il G. ha visto un vivace ritorno di attenzione nei confronti della propria opera a partire dal XX secolo, nel contesto della riflessione critica sulla tradizione delle arti decorative italiane. Mentre il corpus dei disegni eseguiti per la pubblicazione a stampa di Limpach si trova più che integro nella Ornamentstischsammlung di Berlino, pochi sono i lavori del G. tuttora conservatisi rispetto alla grande quantità di prestigiose opere documentate in particolare dalle registrazioni del tesoriere del Sacro Palazzo apostolico per il quale l'artista eseguì sia preziose argenterie, sia lavori in bronzo.
Tra le opere più notevoli ricordiamo il reliquiario della S. Croce, realizzato in argento, rame dorato, porfido e cristallo di rocca e oggi conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna; l'oggetto, firmato, è identificabile con quello pagatogli 2400 scudi in data 21 sett. 1711 dal tesoriere del Sacro Palazzo e descritto come un "Tabernacolo di porfido guarnito con cornici di rame dorato, con due angeli anch'essi in rame dorato. Al centro, entro una nicchia, il reliquiario di argento dorato con una croce opera del Gelpi. Urnetta di porfido guarnita di cristalli" (Bulgari). Altra opera di spicco è la mazza pontificia in argento parzialmente dorato, databile al 1696 circa e oggi al Victoria and Albert Museum di Londra. Del 1696 è anche un reliquiario conservato a Gubbio che reca il punzone distintivo della sua produzione, presente anche su una coppa per il balsamo liturgico e relativo cucchiaio conservati nel Tesoro di S. Pietro a Roma, su un'aquila originariamente parte di un lampadario della cattedrale di Todi, su una croce nella chiesa di S. Francesco a Matelica nelle Marche e sul reliquiario di S. Mercuriale a Forlì, datato al 1719-20 dal bollo camerale punzonato insieme con quello della bottega (Faranda). È questa un'opera estrema della sua attività, anche se difficilmente di sua mano, dal momento che nel testamento, steso l'11 marzo 1720, il G. è detto "alquanto indisposto di corpo" (Grigioni, 1963, p. 21 n. 3) e impossibilitato a firmare perché impedito nella mano destra. A questo periodo appartengono anche una croce d'altare e due candelieri in argento e malachite, originariamente destinati alla cappella privata del cardinale Francesco Barberini, firmati e datati Roma 1720, conservati in una collezione privata di Pavia (Lipinsky, 1971, n. 3).
Come bronzista il G. eseguì la "gloria" per il gruppo marmoreo di Giuseppe Mazzuoli raffigurante il Battesimo di Cristo, inviato nel 1703 nella chiesa di S. Giovanni a La Valletta (Malta) e, nel 1700, insieme con il fratello Alessandro, il medaglione con il ritratto di Cristina di Svezia e tutte le parti metalliche che completavano il suo monumento marmoreo in S. Pietro, commissionato da Innocenzo XII a Carlo Fontana. Per le esequie della sovrana realizzò in argento anche la maschera funebre, una corona e uno scettro, scoperti durante la ricognizione della tomba effettuata nel 1965.
Al settembre 1702 risale un "ornamento di rame indorato a foggia di acquasanta guarnita di lapislazzuli con un bassorilievo in mezzo d'argento con l'immagine di S. Maria Egiziaca" (González-Palacios, p. 374 n. 9) donato dal papa Clemente XI a Giovanni Battista Borghese ambasciatore straordinario di Filippo V di Spagna e recentemente pervenuto al Metropolitan Museum di New York a seguito dell'acquisto effettuato, nel 1993, all'asta della collezione Thurn und Taxis. La cattedrale di Forlì conserva invece, ancora in loco, la tribuna in bronzo dorato realizzata a Roma dal G. su commissione del cardinale forlivese Fabrizio Paulucci e collocata a incorniciare la venerata immagine della Madonna del Fuoco il 27 ott. 1707.
Oltre alle opere documentate o firmate sin qui elencate, vengono attribuite al G., su base stilistica, anche un'acquasantiera in argento, bronzo dorato e lapislazzuli ora al Minneapolis Institute of arts (Honour, 1972), un crocifisso in argento senza piedistallo in collezione privata (Lipinsky, 1971) e una spada cerimoniale donata nel 1690 da papa Alessandro VIII al doge Francesco Morosini e conservata a Venezia nel Tesoro di S. Marco (González-Palacios, p. 371).
Tra le opere documentate, ma non conservate o sinora non riconosciute, si ricorda, nel dicembre 1700, una "cucchiara d'argento di carlino fatta a similitudine di una cucchiara da muratore", cioè una di quelle cazzuole rituali utilizzate dai pontefici per la cerimonia di chiusura della porta santa a conclusione degli anni giubilari. Altri lavori, sempre di committenza pontificia, furono "un calamaro grande, con suo polverino, e pennarolo dorato dentro e fuori", una croce d'argento, un calice d'argento completo di patena, una rosa d'oro e le guarnizioni d'argento per la cassa che doveva contenere il dono da inviare a Filippo V per la nascita del suo figlio primogenito. Per il Sacro Palazzo apostolico sono registrati anche interventi definibili di restauro, come quello del marzo 1701 relativo alla rosa d'oro di Innocenzo XII, o gli altri fatturati nel marzo dell'anno successivo, che comprendono il rifacimento di una coppa d'argento "per un calice antico gottico dorato" (González-Palacios, pp. 373-376). Tra gli altri suoi clienti si ha notizia nel 1707 della signora romana Ortensia Veronica Landi vedova di Antonio Lecone, per la quale risulta aver eseguito lavori in rame e in ottone (Grigioni, 1963, pp. 53 s.).
L'attività orafa del G. passò, già prima della sua morte, nelle mani del nipote Giacomo Antonio (nato a Forlì nel 1689 - morto a Roma nel 1739), figlio del fratello Sebastiano. Nel 1717 questi divenne fonditore ufficiale del Sacro Palazzo apostolico al posto dello zio e il 30 nov. 1721 fu ammesso a pieni voti a sostenere l'esame per succedergli nella conduzione della bottega. Giacomo Antonio risulta del resto il beneficiario principale del testamento del G., morto celibe e senza figli
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