GIANNONE, Giovanni
Figlio naturale di Pietro ed Elisabetta Angela Castelli, nacque a Napoli ai primi di marzo del 1715. Dopo la fuga del padre a Vienna nel 1723, in seguito alla pubblicazione dell'Istoria civile del Regno di Napoli, il G. fu affidato alle cure dello zio paterno, Carlo, mentre la madre e la sorella Carmina Fortunata (nata nel novembre 1721) furono sistemate nel Real Conservatorio di S. Antoniello a Napoli. I rapporti con lo zio furono caratterizzati sin dall'inizio da una conflittualità che si acutizzò negli anni e si concluse solo con la morte di Carlo, il 14 febbr. 1755.
Allontanato dalla casa dello zio, il G. visse per quasi tre anni a Vieste presso la zia paterna Vittoria, sposata con Domenico Tura. Anche durante questo periodo non mancarono i problemi per il G., che fu accusato dal suo tutore di abbandonarsi al vizio. Fece ritorno a Napoli nel marzo del 1733, ma, respinto nuovamente dallo zio Carlo, si recò dalla madre, che provvide a sistemarlo presso due suoi fratelli. Fu in questo periodo che il G. incontrò Francesco Mela, sincero amico del padre, il quale, su richiesta di Pietro, dedicò particolari cure alla sua istruzione. Nell'aprile del 1735 il G. raggiunse il padre a Venezia, dove soggiornò per qualche tempo ospite di Angelo Pisani. Quando Pietro, nel settembre 1735, fu espulso all'improvviso e con la forza dal territorio della Serenissima, il G., informato dal Pisani, dopo qualche giorno si riunì al padre a Modena. Di lì i due, respinti sia da Milano sia da Torino, poterono finalmente trovare accoglienza a Ginevra, dove giunsero nel dicembre 1735; ma, il 24 marzo 1736, attirati con l'inganno a Vésenaz, in territorio sabaudo, furono arrestati e tradotti nelle carceri di Chambéry e subito dopo in quelle di Miolans.
Durante il soggiorno obbligato, che si protrasse per quasi un anno e mezzo, il G. si dedicò a numerose letture (in particolare Tito Livio), compose due discorsi (La religione de' Romani e suoi riti e Il dilatamento de' Romani sulle provincie e regni di tutto il mondo allor conosciuto; e la sapienza e politica ch'ebbero a saperli governare), riveduti e corretti dal padre, e tradusse dal francese alcuni opuscoli (tra i quali il Racconto del diavolo con Lutero sopra le messe private e l'unzioni de' preti, colle riflessioni fatte da' nostri dottori cattolici; il Trattato dell'inganno di un ministro calvinista, il quale dava a credere che la religione della Chiesa greca era simile a quella di Calvino). Dei manoscritti di queste opere - abbandonati nel castello-carcere di Miolans - non si è conservata però traccia.
Il 7 sett. 1737 il G. fu separato dal padre - che venne trasferito nelle carceri di Torino - e rimesso in libertà. Dopo avere viaggiato per qualche tempo, non senza difficoltà, toccando Torino, Milano e Genova, giunse, infine, a Napoli, dove ritrovò il Mela. Fu senza dubbio grazie all'intercessione di quest'ultimo che il G. poté essere ospitato in casa dello zio Carlo, il quale, peraltro, non aveva rinunciato all'idea di disfarsi dello sgradito nipote per godere liberamente dei beni di Pietro. In seguito alle sue continue e interessate esortazioni, il G. decise di arruolarsi come volontario nell'esercito imperiale nella campagna d'Ungheria contro i Turchi e nell'aprile 1738 partì alla volta di Belgrado. Dopo circa tre anni di guerra, nel corso della quale venne anche ferito e scampò alla peste che colpì Belgrado, il 4 apr. 1741 - a seguito della notizia, dimostratasi poi falsa, della morte del padre - tornò a Napoli. Qui cercò dapprima di rientrare in possesso dei beni paterni, senza riuscirvi a causa della forte opposizione dello zio. Poi tentò di essere assunto nella milizia del Regno, ancora senza successo, nonostante una iniziale disponibilità da parte delle autorità competenti. Privo di entrate, il G. decise allora di rivolgersi al presidente del Sacro Regio Consiglio, Vincenzo D'Ippolito, per ottenere la parte di rendita a lui spettante sui beni del padre. La causa fu affidata al consigliere regio Onofrio Scassa che, amico di Carlo, non diede alcun seguito all'istanza. Il successivo tentativo di riappacificazione tra nipote e zio, promosso da alcuni amici comuni, finì per danneggiare ulteriormente il nipote. Egli, infatti, fu addirittura accusato di aver tentato di uccidere Carlo, che lo querelò; incarcerato e processato, venne successivamente liberato dal caporuota del Sacro Regio Consiglio Niccolò Fraggianni.
La vera svolta per il G., tuttavia, si ebbe con l'elezione di Giuseppe Borgia al posto dello Scassa, nominato consultore in Sicilia. Il nuovo consigliere, infatti, costrinse Carlo a una composizione, pena l'intervento d'autorità del Sacro Regio Consiglio, obbligando di fatto il fratello di Pietro al pagamento di un sussidio mensile al nipote. Ottenuto il sussidio, il G. intraprese di nuovo la carriera militare, ancora una volta come volontario, aiutato in ciò da un ufficiale spagnolo. Quindi, ristabiliti i contatti epistolari con il padre e consigliato da alcuni amici, prese l'iniziativa di proporsi per il governo di una città del Regno. Inserito nella terna di candidati per la città di Cisternino, il 15 dic. 1749 venne scelto da Bernardo Tanucci a ricoprire questa carica. Tuttavia, per l'opposizione del padre gesuita Francesco Pepe, la nomina del G., in quanto figlio di Pietro, venne sospesa dal re. A nulla valsero i successivi tentativi del G., sia presso il nunzio apostolico a Napoli, sia presso il pontefice Benedetto XIV, tramite la persona del segretario di Stato, cardinale Silvio Gonzaga Valenti, per essere reintegrato nella carica. Il 17 marzo 1748, intanto, moriva a Torino Pietro, riaprendo così la vecchia disputa, mai sopita, tra il G. e lo zio, circa l'eredità.
La contesa durò per circa quattro anni, investendo della questione sia i tribunali civili nei loro vari gradi, sia il foro ecclesiastico. Carlo giunse perfino a negare che il G. fosse figlio di Pietro. In conclusione, il tribunale del Sacro Regio Consiglio dette ragione al nipote, ma le spese ormai avevano quasi del tutto assorbito l'eredità. Da questo momento in poi, la principale preoccupazione del G. divenne quella di garantire alla sua famiglia la tranquillità economica. Infatti, ottenuta da Bernardo Tanucci, l'8 maggio 1769, una pensione annua di 300 ducati, il 5 giugno 1780 chiese che la stessa fosse versata, dopo la sua morte, al figlio Pietro, alla moglie Maria Giuseppa Pandolfi e alla sorella Carmina Fortunata. Nel 1790 ottenne che la pensione fosse da subito intestata ai suoi familiari.
Il G. morì a Napoli, alla veneranda età di novantuno anni, il 16 febbr. 1806.
Il grande merito del G. consiste nel fondamentale contributo che egli fornì a Lionardo Panzini nella ricostruzione del profilo biografico di Pietro (Vita di Pietro Giannone, Lugano 1837). A lui si deve altresì la raccolta di lettere del padre conservata in due diverse redazioni a Roma, Bibl. nazionale, Fondo Vittorio Emanuele 358, 359, 360, e pubblicata da P. Minervini.
Fonti e Bibl: Illuministi italiani, I, Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971, ad indicem; P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervini, Fasano 1983, pp. 12-15 e ad indicem; C. Caristia, Pietro Giannone e i suoi familiari, in Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, I, Bologna 1953, pp. 311-338; S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1968, pp. 184-213; Pietro Giannone e il suo tempo. Atti del Convegno di studi nel tricentenario della nascita, Foggia-Ischitella… 1976, a cura di R. Ajello, Napoli 1980, ad indicem.