GIANFIGLIAZZI, Giovanni (Vanni)
Nacque negli anni Settanta del sec. XIII, presumibilmente a Firenze, da Rosso di Cafaggio e da Lena Davizzi.
La sua era una delle più ricche e potenti famiglie fiorentine, di antica tradizione guelfa, dedita all'attività bancaria su scala internazionale. A differenza di altre grosse compagnie commerciali operanti all'estero, come i Bardi e i Peruzzi, per i quali l'attività creditizia aveva un ruolo marginale rispetto al commercio, quelle dei Gianfigliazzi vi si dedicarono in maniera esclusiva e anzi si specializzarono nei grossi finanziamenti a signori feudali e alte personalità: specialmente negli ultimi decenni del Duecento essi avevano creato filiali nel Sud della Francia, dove divennero i finanziatori principali dello Studio di Avignone, della famiglia dei La Tour du Pin, signora del Delfinato, e poi dello stesso Carlo II d'Angiò re di Napoli e signore di Provenza. Per esercitare quest'attività i Gianfigliazzi crearono delle piccole società di due-tre membri, scelti quasi esclusivamente tra i componenti della famiglia.
Il padre del G., Rosso, che, a partire dal maggio 1288, fu anche tesoriere pontificio per la diocesi di Vienne, era stato socio dei cugini Gianfigliazzo e Catello, in una società bancaria operante in Provenza, attiva nei primi anni Ottanta del Duecento e sciolta il 31 ott. 1283; sembra che abbia poi continuato l'attività da solo, almeno fino al 1290, anno in cui Carlo d'Angiò scrisse una lettera in sua raccomandazione al "baiulus et iudex civitatis Aptensis"; morì, probabilmente in Provenza, nel 1292.
Alla morte del padre il G., primogenito di cinque tra fratelli e sorelle (oltre a lui, Simone, Bartola, andata sposa a Gherardo Buondelmonti, Dada e Costanza, monaca in S. Bartolomeo a Ripoli) e unico, presumibilmente, ad aver raggiunto l'età adulta, fece ritorno a Firenze: appoggiandosi al banco dei Peruzzi, con i quali era imparentato per il matrimonio del cugino Rossellino di Vanni di Cafaggio con Lapa Peruzzi, egli eseguì le ultime volontà del padre che, com'era costume fra chi praticava l'usura, aveva lasciato cospicui legati al vescovo di Firenze e alla badia di S. Trinita, posta nelle vicinanze delle dimore della famiglia.
I Gianfigliazzi facevano parte dei magnati, cioè di quelle famiglie fiorentine che, per status economico-sociale e per tradizione, erano assimilate alla nobiltà feudale, tanto che, nel 1293, nel periodo del massimo predominio della borghesia artigiana, erano stati colpiti dagli ordinamenti di giustizia che, tra le altre limitazioni, li escludevano dalle massime cariche del Comune: il priorato e il gonfalonierato di Giustizia. Non per questo i magnati rimanevano esclusi dalla vita pubblica, potendo accedere ai Consigli del podestà (non a quelli del capitano), alla Parte guelfa, a uffici esterni, come le ambascerie e agli incarichi podestarili in altri comuni guelfi.
Il primo incarico affidato al G., di cui troviamo notizia, risale al 1307 quando fu eletto capitano di Guerra per il sestiere di Borgo (circoscrizione cittadina in cui i Gianfigliazzi abitavano), in occasione della guerra condotta da Firenze contro altri Comuni della Toscana, tra cui Pistoia. Nel 1310 fu armato cavaliere, dignità di cui i Gianfigliazzi erano fregiati da lungo tempo. Nel 1313, in seguito alla discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII, egli, appartenente a una delle famiglie più in vista dello schieramento guelfo, fu da questo dichiarato ribelle all'Impero, unitamente al fratello Simone e ad altri membri della famiglia. Nel febbraio 1314 prese parte in qualità di feditore alla difesa di Montecatini, castello della Valdinievole minacciato da Uguccione Della Faggiuola, signore di Lucca.
Nei primi mesi del 1314 morì lo zio Giovanni di Cafaggio, che era socio insieme con il fratello Castello di una compagnia bancaria operante ad Avignone e Carpentras, cui presumibilmente era interessato anche il Gianfigliazzi. Questi formò a sua volta con lo zio Castello una società della quale egli era però socio di minoranza, risultando proprietario dei 2/7 del capitale investito, mentre le restanti quote erano detenute da Castello. Questa nuova azienda proseguì nel solco già tracciato dalle precedenti compagnie dei Gianfigliazzi operanti in Provenza, e intensificò i rapporti con la famiglia dei La Tour du Pin - che al momento della liquidazione della compagnia, avvenuta il 1° marzo 1318, risultava debitrice dei Gianfigliazzi per 24.000 fiorini d'oro - e con altri notabili locali. Sciolta la società con lo zio, che morì pochi mesi dopo, il G. continuò per qualche anno gli affari da solo, scontrandosi a più riprese con il cugino Niccolò di Castello, che aveva rilevato l'azienda del padre e che varie volte gli intentò causa davanti al giudice di Avignone. Inoltre il G. intraprese nel 1319 una causa contro Iacopo Bruni, detto Zampaloca, che era stato fattore dell'azienda che il G. aveva condiviso con lo zio Castello, causa che si concluse solo nel 1323 con un lodo arbitrale tra le parti. Tra i testimoni interrogati dal giudice di mercanzia per questa causa figura anche il notaio e poeta stilnovista Lapo Gianni, conoscente e vicino di casa del G., oltre che amico di Dante.
Nel 1325 prese parte, in qualità di feditore alla battaglia di Altopascio, episodio della guerra sostenuta da Firenze contro Castruccio Castracani degli Antelminelli, signore di Lucca. Nel 1331 fu inviato ambasciatore a Colle Val d'Elsa, insieme con Francesco Pazzi e Bonifacio Peruzzi. Nel 1333 sempre in qualità di ambasciatore del Comune di Firenze il G. si recò presso Roberto d'Angiò, capo della Lega guelfa, giunto in Pisa per sottoscrivere un'alleanza con i Della Scala di Verona e i Visconti di Milano, nonché con altri potentati ghibellini, in funzione antimperiale, in quanto si temevano, in entrambi gli schieramenti, sfavorevoli ripercussioni dalla discesa in Italia di Giovanni di Boemia, l'ultimo dei figli di Enrico VII a essergli sopravvissuto. Sempre nell'ambito di questa effimera alleanza tra antichi rivali, il G. fu inviato nel 1334 a Bologna a chiedere il rilascio del cardinale legato Bertrand du Poujet (Del Poggetto), che era stato fatto prigioniero dai Bolognesi. Negli anni successivi fece parte di ambasciate a Verona, a Massa e a Siena.
Nel maggio 1342 il governo del Comune di Firenze, per tentare di porre rimedio al profondo stato di crisi economica, politica e morale in cui versava la città, aveva deliberato di offrirne la signoria a Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, ma il rimedio si era rivelato peggiore del male e presto erano cominciate congiure e macchinazioni volte a liberare la città dal suo dominio. In seguito ai disordini scoppiati a partire dal 26 luglio 1343, il vescovo di Firenze Angelo Acciaiuoli prese saldamente nelle sue mani le sorti della città e nominò una commissione composta da quattordici cittadini, di cui sette magnati e sette popolani, con il compito di adottare le opportune riforme per pacificare la città. Il G. fu uno dei sette rappresentanti dei magnati e la sua elezione, al pari di quella degli altri membri, fu poi ratificata da un generale parlamento riunitosi il 2 ag. 1343, dopo che il giorno prima il duca di Atene era stato costretto a rinunciare alla signoria su Firenze. Questo comitato rappresentò fino alla fine del successivo mese di settembre, quando furono ripristinate le istituzioni e i Consigli esistenti prima del 26 maggio 1342, l'unico organo di governo del Comune di Firenze, ma la sua azione politica scontentò i ceti popolari, soprattutto per l'abolizione degli ordinamenti di giustizia e delle altre misure antimagnatizie e questo provocò il suo scioglimento anticipato.
Mancano quasi del tutto notizie di una sua ulteriore partecipazione alla vita politica fiorentina; nel 1345 quando a Firenze fu consolidato il debito pubblico, mediante la creazione del Monte, il G., come altri magnati, preferì vendere, per un importo pari a 1463 fiorini, parte dei suoi titoli di credito. Nel giugno 1348, mentre a Firenze imperversava la peste, egli fece testamento, lasciando ai figli e ai nipoti l'incarico di costruire una cappella di famiglia nella chiesa di S. Trinita. Egli però scampò all'epidemia e sopravvisse per altri diciotto anni. Nel 1363 fu podestà di Montevettolini.
Morì a Firenze nel 1365.
Dal matrimonio con una certa Sandra aveva avuto almeno tre figli maschi, Rosso, Giannozzo e Matteo, quest'ultimo premorto al padre. Questi e i loro eredi dettero esecuzione nei primi mesi del 1366 alle ultime volontà del G. e, in particolare, alla costruzione e alla dotazione della cappella di famiglia.
Fonti e Bibl.: Firenze, Arch. della Compagnia dei Buonuomini di S. Martino, Fondo Gianfigliazzi, Spoglio di pergamene, c. 274; Arch. di Stato di Firenze, Conventi soppressi, 224, n. 222, doc. 92; Notarile antecosimiano, 5241, cc. 26, 127v, 168; Delizie degli eruditi toscani, XI (1778), pp. 125, 210; XII (1779), pp. 264 s.; C. Paoli, Della signoria di Gualtieri duca d'Atene, in Giorn. stor. degli archivi toscani, VI (1862), pp. 171, 254; A. Grunzweig, Le fonds de la Mercanzia aux Archives d'État de Florence, in Bulletin de l'Institut historique belge de Rome, XIII (1933), p. 96; I libri della ragione bancaria dei Gianfigliazzi, a cura di A. Sapori, Milano 1945, pp. 1, 11, 26, 35, 48, 57, 66, 73, 80, 87 s., 93; F.P. Luiso, Sulle tracce di un usuraio fiorentino del secolo XIII, in Arch. stor. italiano, s. 5, XLII (1908), pp. 29 s.; A. Sapori, Le compagnie bancarie dei Gianfigliazzi, in Id., Studi di storia economica, II, Firenze 1955, pp. 954-960; G. Brucker, Florence: politics and society. 1343-1378, Princeton 1962, p. 20.