PANCIROLI, Giovanni Giacomo
PANCIROLI (Panziroli, Panzirolo), Giovanni Giacomo. – Nacque a Roma nel 1587 dal sarto Virginio (o Virgilio), in omaggio al quale volle poi inserire nel suo stemma cardinalizio un panno, e da Prudenza de Alessi (Arch. segreto Vaticano, S.R. Rota, Processus in admissione Auditorum, b. 1, fasc. LXVI).
Virginio, artigiano di buona clientela, allevò il suo unico figlio «quasi alla nobile, che perciò conversò sempre con persone di maggiore conditione della sua» (Biblioteca apost. Vaticana, Chigi B.I.3, c. 23). Panciroli studiò giurisprudenza alla Sapienza, dove si addottorò in utroque sotto la guida di Angelo Luciano (Luciani) probabilmente nel 1602.
Le fonti lo mostrano vicino a Giovanni Battista Pamphili, il futuro Innocenzo X, del quale frequentò lo studio legale e di cui fu auditore, almeno per qualche tempo, nelle nunziature di Napoli (dal 1621) e poi di Spagna (1626). In quel periodo trovò modo di divenire il segretario del cardinale Lorenzo Magalotti, che dal 1624 lo ‘prestò’ a Giulio Sacchetti affinché questi potesse usufruirne in qualità di auditore, quando fu spedito nunzio in Spagna. Magalotti poco dopo cercò di avere ancora Panciroli presso di sé, ma Sacchetti si guardò bene dal privarsi di un uomo capace e di buona cultura, senza il quale si sarebbe trovato «in strettezze» alleggerendolo quello di molte «brighe» (ibid.). Fu a Madrid che ricevette la tonsura, divenendo così chierico, il 14 maggio 1624 (S.R. Rota, Processus in admissione Auditorum, b. 1, cit.).
Esauritasi la nunziatura di Sacchetti, Panciroli tornò a Roma solo per poco tempo. Già nel maggio 1626, infatti, partiva ancora, come si è detto, per il Regno iberico, al seguito di Giovan Battista Pamphili. Attorno al 1627 era però già nell’Urbe, dove si avvicinò ai Barberini e dove Urbano VIII lo fece cameriere d’onore, soprintendente della casa del nipote cardinale Francesco e, nel 1628, nunzio ai principi d’Italia; nel giugno 1628 Panciroli entrò tra i referendari delle due Segnature (Arch. segreto Vaticano, Sec. Brev., Reg., 738, c. 79).
In veste di nunzio prese parte alle trattative che condussero alla pace di Cherasco (aprile 1631). Il ritorno dell’ormai affermato prelato a Roma, nel luglio del 1632, fu caratterizzato da uno scontro con Fabio Chigi a Ferrara per una questione di precedenza. Il vicelegato Fabio Chigi, il futuro papa Alessandro VII, non aveva ceduto in una occasione il passo a Panciroli che sosteneva il suo maggior diritto in quanto nunzio in Italia (Bibl. apost. Vaticana, Chigi A.III.55, cc. 79-82). Il dissidio fu presto sanato e i due mantennero negli anni seguenti un rapporto cordiale e costante, testimoniato da un epistolario (Ibid., Chigi B.I.3, per es. c. 23).
In quello stesso 1632 Panciroli entrò nel collegio degli Auditori di Rota. I testimoni del suo processo d’ammissione in quel Tribunale dichiararono che egli godeva allora di un’entrata annua di 200 ducati di Camera e possedeva per taluni un palazzo, per altri molte «case grandi» nella romana via della Croce che affittava, o almeno così si diceva, per 500 scudi l’anno (Arch. segreto Vaticano, S.R. Rota, Miscellanea, 2, c. 294).
Il suo lungo servizio, le prestigiose aderenze, gli spianarono quindi lo sbocco nella carriera diplomatica, premessa della quale fu la nomina a patriarca di Costantinopoli avvenuta il 16 dicembre 1641. Nel gennaio del 1642 fu consacrato vescovo (e probabilmente solo allora ordinato in sacris), tra gli altri dal suo antico ‘padrone’ Giulio Sacchetti, e fu destinato in Spagna – dove poteva considerarsi ormai di casa – quale nunzio straordinario.
Arrivò a Madrid nel giugno successivo e si trovò a operare in un quadro di estrema drammaticità, caratterizzato in primo luogo dalle tensioni dovute alla guerra con la Francia, dalla rivolta di Catalogna e Portogallo, dal caso del rappresentante portoghese a Roma, Miguel de Portugal vescovo di Lamego, che la Spagna non voleva fosse ricevuto nell’Urbe, come poi invece avvenne, e naturalmente dall’accelerazione della disgrazia del conte-duca Olivares. A margine di ciò erano la questione della contestata provvista regia della sede primaziale di Toledo al cardinale Gaspare Borgia cui il papa non acconsentì, la questione dei benefici ecclesiastici portoghesi destinati a rimanere per lungo tempo vacanti per l’insistenza della monarchia spagnola di volere a essi comunque provvedere anche dopo il distacco di quella nazione, e poi ancora la questione di Castro.
I dispacci, soprattutto quelli cifrati, che egli compose da quelle sede, appaiono assai vivaci e ricchi di commenti talvolta forti e formalmente poco ‘diplomatici’. Lo schietto tratto umano appare ad esempio in una cifra in cui descrive una visita avvenuta «mentre stavo facendomi la barba, et vi erano presenti tre amici miei» (ibid., Barb. Lat. 6132). Da quella sede diplomatica Panciroli seguì con preoccupazione i rovesci del re di Spagna ad opera dei francesi e molte scritture non prive di compiacimento dedicò alla disgrazia di Olivares. Così ad esempio scrisse dell’entrata del re, del suo ministro e di Giuliano (il figlio naturale del conte-duca che avrebbe preso, una volta legittimato, il nome di Enrique Felipe) in Saragozza nell’estate 1643: «Il giorno che S. Maestà entrò in Saragozza, tutto il Popolo andò ad acclamarlo dicendo viva viva il re e mora il conte duca, la sua muletta e don Giuliano suo figliuolo. Stava il figliuolo in carrozza dell’istesso re, però può immaginarsi S.E. se fu la pena plausibile. Il caso fu poi che nessuno voleva alloggiarlo in sua casa et essendo uno forzato a dargli un appartamento dimandò che se gli mettessero guardie intorno alla casa acciò il popolo non gli dasse fuoco» (ibid., c. 12). In altra comunicazione, descrivendo a Roma lo stile della sua nunziatura, azzardò questo inusuale se non sorprendente commento: «alle volte ho rappresentato le cose con tanta libertà che ho havuto scrupolo di scriverlo a Vostra Eminenza, dubbitando che alcuno che l’havesse sentite leggere non le dovesse interamente credere» (Arch. segr. Vaticano, Segreteria di Stato, Spagna, 87, c. 12rv). L’azione del re Filippo IV veniva da lui interpretata con severità: in specie dopo la caduta di Olivares il monarca, «irresoluto e timido», si muoveva alla cieca mentre tutti i ministri cercavano di portarlo dalla loro parte. Le relazioni tra la Santa Sede e quella monarchia erano giudicate assai problematiche.
Nel concistoro del 13 luglio 1643 papa Urbano VIII lo promosse al cardinalato. Della provvista Panciroli si disse sorpreso in una lettera al nipote del papa (Bibl. apost. Vaticana, Barb. Lat. 6132, c. 23v) in cui aggiungeva ch’era «vissuto e viverò con ferma deliberatione di morire huomo honorato e da bene che vuol dire di voler morire vero esempio di gratitudine verso l’E.V. e di tutta l’eccellentissima casa» Barberini. L’anno successivo, alla morte di Urbano VIII, in sede di conclave si adoperò in un primo tempo per il cardinale Sacchetti, poi, fallito il tentativo, si applicò per favorire il successo del suo antico protettore Pamphili. L’adesione di Panciroli a questa candidatura fu determinante, perché egli si era trovato in quel momento, nel gioco tra fazioni, il punto di riferimento dei francesi, che avvicinò così alla causa del futuro Innocenzo X. Il papa eletto (15 settembre 1644), per riconoscenza lo volle suo segretario di Stato, ruolo che per la prima volta si trovò così a essere ricoperto da un cardinale.
Per poco più di due anni svolse la funzione coordinandosi con il cardinale nipote Camillo Pamphili e soprattutto con la madre di questi, Olimpia Maidalchini, vedova del fratello del pontefice. La rinuncia alla porpora, agli inizi del 1647, da parte di Camillo – che contro il volere del papa e probabilmente anche della madre sposò Olimpia Aldobrandini – accrebbe il ruolo di Panciroli, che godette di un’autorevolezza inusitata in Curia per un ministro non consanguineo di papa e pure per un segretario di Stato, carica ancora lontana dall’assumere la rilevanza che avrebbe avuto in seguito. Ciò nonostante, egli dovette spesso esercitare le proprie funzioni all’insegna di un serrato confronto con Olimpia Maidalchini, che aveva acquisito un’influenza straordinaria sul pontefice.
Innocenzo X sembrava non poter far nulla senza averla consultata e niente pareva muoversi nella corte papale senza il suo beneplacito. Il notevole ritratto che di Panciroli fece l’ambasciatore veneziano Alvise Contarini, nel 1648, è proprio centrato sulla triangolazione non sempre agevole tra il papa, la cognata e il cardinale che caratterizzò la Curia in quel tempo (Relazioni, 1879, passim). Il segretario di Stato, scriveva il patrizio veneziano, aveva «tratti manierosi», «ingegno vivace», era «cortese di parole e in apparenza sincero, ma da corteggiani stimato facile nel simulare». Panciroli sapeva nascondere bene i suoi veri intendimenti e, sottolineavano i curiali, aveva «qualità Romanesche, sendo di nascita bassa e plebea». Godeva «intrinsecamente della sua autorità, ma ne fugg[iva] l’apparenza», ossequiava «Donna Olimpia, e sta[va] seco particolarmente unito». Nei confronti del papa Panciroli era abilissimo. Con lui, continuava Contarini, faceva largo uso di motti e facezie e riusciva a condizionarne la volontà frapponendo con abilità impedimenti quando sembrava che il papa stesse per deliberare qualcosa che non «aggradava» al cardinale. La sagacia di Panciroli si rivelava anche nella sua volontà, e capacità, di non svolgere le funzioni tipiche del nipote, nel quadro particolare di una corte dove alla sopravvenuta mancanza di un cardinal nipote-soprintendente dello Stato ecclesiastico sopperiva in modo atipico il ruolo della cognata del papa. Contarini testimonia appunto come Panciroli evitava con scrupolo di «negoziare» per conto del pontefice, a meno di non esserne direttamente incaricato, e di svolgere con ciò la funzione di filtro e di regìa che il consanguineo tradizionalmente svolgeva. Ne derivava l’inconveniente che chi doveva impegnarsi per una qualsiasi causa in Curia doveva rivolgersi direttamente al papa per sostenerla, il che si rivelava spesso «impraticabile» per l’impossibilità di trattare «liberamente» con Innocenzo X dei contenuti dei «negozi» (così sempre Contarini). Ciò Panciroli faceva anche per compiacere Olimpia, la quale desiderava che ad assumere pienamente il ruolo di cardinale nipote-soprintendente dello Stato ecclesiastico fosse un suo nipote, Francesco Maidalchini, che con l’appoggio di Panciroli era riuscito a far promuovere alla porpora a soli 17 anni nel 1647. Maidalchini si rivelò però del tutto inetto. Per Alvise Contarini egli «era incapace di ogni maneggio» e non aveva altre qualità «se non esser nipote di donna Olimpia».
L’intesa tra Panciroli e Olimpia compì un salto di qualità nel giugno del 1649, quando appoggiò Olimpia nella lotta al datario Domenico Cecchini, che aveva cercato di esautorare il sottodatario Francesco Canonici Mascambruni, protetto dalla potente dominatrice della corte e dotato di forti agganci con la familia papale, accusato (e nel 1652 per ciò arrestato e giustiziato) di gravissimi reati legati al ruolo ricoperto in Dataria. Cecchini fu per questo obbligato a offrire le proprie dimissioni al pontefice (che furono accolte solo nel 1652). L’anno successivo, però, l’alleanza tra i due ‘padroni’ della Curia si incrinò gravemente. Panciroli favorì infatti la vertiginosa ascesa di un lontano consanguineo di Olimpia, il trentenne Camillo Astalli – destinato a sopperire all’assoluta incapacità di Francesco Maidalchini – che fu adottato dal pontefice e creato cardinale il 19 settembre 1650. Nel determinare tale scelta, il ruolo di Panciroli fu essenziale: il nuovo nipote, che a lui tutto doveva, nel suo disegno avrebbe accresciuto di molto la sua influenza sul pontefice e limitato l’azione di Olimpia. Ancora, per l’ambasciatore Contarini la strategia del segretario di Stato era proiettata tutta sul futuro conclave: la riconoscenza nei suoi confronti di Astalli nonché l’appoggio dei cardinali legati ai Barberini e di quelli spagnoli avrebbero potuto garantirgli l’affermazione. Non accadde però nulla di quanto aveva auspicato, soprattutto perché Astalli si mostrò da subito non disposto ad accomodarsi alla volontà del cardinale segretario di Stato di cui divenne, in combutta con il riabilitato Camillo Pamphili, il principale nemico in corte. Non solo: donna Olimpia, cui l’assenza di un nipote capace assicurava tanta autorevolezza, reagì subito con durezza all’avanzamento di Astalli interpretando la designazione di questi come «direttamente» tesa «alla depressione della sua autorità» (così l’ambasciatore Contarini) e prese ad accusare Panciroli di tradimento anche in presenza del papa. Si venne a creare una situazione complessa per il cardinale romano: se da un lato l’atteggiamento di Olimpia nei suoi confronti contribuì a provocare la reazione di Innocenzo X, che anche per questo finì con l’allontanarla temporaneamente dalla corte, per altri aspetti, pur continuando a godere della stima incondizionata del papa, Panciroli era ormai divenuto il nemico dei Pamphili e affiliati e al loro attacco non seppe opporre resistenza, specie perché questo si dispiegò con virulenza in un momento di sue precarie condizioni di salute. Fu proprio la debolezza fisica a contribuire alla sua progressiva perdita di autorevolezza in Curia. Il suo tramonto fu rapido.
Morì quasi in disgrazia il 3 settembre 1651. Fu sepolto in San Silvestro al Quirinale. Come segretario di Stato fu nominato Fabio Chigi, che fu poco dopo cardinale e qualche anno più tardi papa. Anche grazie a Panciroli, quel ruolo aveva acquisito importanza nella Curia romana.
Fonti e bibl: Arch. segr. Vaticano, Segreteria di Stato, Spagna, 85-87; S.R. Rota, Processus in admissione Auditorum, b. 1, fasc. LXVI; Miscellanea, 2, c. 294; Sec. Brev., Reg., 738, c. 79; Bibl. apost. Vaticana, Barb. Lat. 6003, cc. 1r-2v, 11rv, 12v, 19, 94v-95v, 128v-135v; 6006-6007; 6132; Chigi A.II.40, c. 7rv; A.II.43-45; A.II.47, cc. 12v, 122v-241v; A.III.55, cc. 79-82; B.I.3, cc. 23-30; R.I.16, cc. 72v (1648), 169rv, 201, 270-274 (1648-50), 285, 378; Vat. Lat. 8193, pt. 1, cc. 367-69v; L. Cardella, Memorie storiche de’ cardinali della Santa Romana Chiesa, VII, Roma 1793, pp. 21-23; G. Moroni, Dizionario d’erudizione storico-ecclesiastica, LI, Venezia 1851, pp. 93 s.; I. Ciampi, Innocenzo X e la sua corte. Storia di Roma dal 1644 al 1655, Roma 1878, pp. 5, 119 s., 136, 146 s., 150 s., 155; Relazioni degli stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, ser. III, Italia, II, Relazioni di Roma, II, Venezia 1879, pp. 52, 71, 72 s., 93-95; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XIV, 1, Roma 1961, pp. 29-34; I. Fosi, All’ombra dei Barberini. Fedeltà e servizio nella Roma barocca, Roma 1997, ad ind.; A. Menniti Ippolito, Il tramonto della Curia nepotista. Papi, nipoti e burocrazia curiale tra XVI e XVII secolo, Roma 1999, ad ind.; O. Poncet, Innocenzo X, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 325 s.; S. Tabacchi, Maidalchini, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXVII, Roma 2007, p. 530; Id., Maidalchini, Olimpia, ibid., pp. 532-534.