GHERARDI, Giovanni (Giovanni da Prato, Giovanni di Gherardo, Giovanni di Gherardo Gherardi, Johannes Gerardi, Johannes de Prato)
Nacque a Prato, da Gherardo di ser Bartolo e da Giuliana, tra il 1360 e il 1367.
La documentazione disponibile (l'estimo del contado fiorentino del 1394 e le portate al Catasto del 1427, 1430, 1433 e 1442) relativa a "messer Giovanni di Gherardo (o Gherardi) da Prato" fornisce, come spesso accade, indicazioni non univoche: il G. risulta infatti nato, a seconda dei casi, nel 1360, 1361, 1362 o 1367. Secondo l'ipotesi del Novati (accolta poi unanimemente), la data corretta è il 1367, e gli anni 1360-62 sono da scartare, giacché nel Paradiso degli Alberti (ambientato nel 1389) il G. è detto ancora imberbe ("non ancora frondute le guance": II, 71): il che, a suo parere, si addice a un giovane di circa venti anni, non a un uomo sui trenta. Il Novati suppone quindi che nell'estimo del 1394 (in cui il G. risulta avere 34 anni e suo fratello Paolo 25) siano state invertite per errore le età dei due fratelli, in modo che il G., all'incirca venticinquenne nel 1394, sarebbe nato intorno alla fine degli anni Sessanta. Sempre secondo il Novati le portate del 1430, 1433 e 1442 (dalle quali il G. risulta nato, rispettivamente, nel 1360, 1361 e 1362) conterrebbero quindi dati erronei, in quanto compilate non dal G. (che, ormai vecchio, si era ritirato a Prato), ma, per suo conto, da altri. La ricostruzione del Novati è brillante, ma non del tutto convincente: l'attribuzione del Paradiso degli Alberti al G. è infatti congetturale, così come l'assegnazione al 1389 delle conversazioni in esso riferite; per di più, non sembra possibile definire del tutto imberbe un giovane di ventidue o ventitré anni (tanto più che lo stesso G., nel Trattato d'una angelica cosa, afferma come "nell'anno ventiuno comincia la barba"). Dal romanzo parrebbe dunque che il G., meno che ventunenne nel 1389, fosse nato non prima del 1370; ma questa indicazione è contraddetta dall'accenno, contenuto nel Paradiso, agli studi compiuti dall'autore con Biagio Pelacani a Padova, dove il celebre filosofo e matematico insegnò dal 1384 al 1388. In mancanza di elementi più sicuri (ed essendo comunque problematico l'accenno del Paradiso alle guance "non ancora frondute" dell'autore), conviene quindi attenersi prudentemente alle date ricavabili dai documenti d'archivio, tenendo comunque presente che tutti questi (a eccezione della portata al Catasto del 1427, che, unica, respinge al 1367) indicano per il G. una data di nascita compresa tra il 1360 e il 1362.
Il padre del G. era rigattiere; il nonno Bartolo, come dimostra il titolo di "ser", aveva esercitato la professione notarile. Gli estimi e le portate al Catasto assegnano al G. tre fratelli minori: Antonia (che, tuttavia, in alcuni documenti risulta maggiore di Giovanni), Paolo e Piera. "Gherardi" non sembra essere soltanto un patronimico, ma anche un vero e proprio cognome, giacché, nel disegno della cupola di S. Maria del Fiore, da lui eseguito, egli si qualifica come "Giovanni di Gherardo Gherardi".
Nell'estimo del 1394 il G. risulta già insignito del titolo di "dominus"; in effetti, doveva essersi addottorato già da alcuni anni, probabilmente prima del 1392, giacché in quell'anno egli fu incaricato dagli Ufficiali allo Studio fiorentino di recarsi a Bologna, Ferrara, Padova e Venezia alla ricerca di illustri maestri ("ad perquirendum de famosis doctoribus") da condurre allo Studio; per questa missione veniva compensato, il 2 luglio di quell'anno, con la rilevante somma di 12 fiorini d'oro. Il G. conseguì la laurea forse a Padova, dove aveva seguito le lezioni di Biagio Pelacani; o forse a Siena, ove volessimo identificare col G. il "ser Giovanni da Prato" protagonista della novella XIII di Gentile Sermini (dove si afferma che ser Giovanni "era stato in studio" a Siena). L'identificazione, generalmente accolta, non è però certissima: la novella presenta infatti un "ser" Giovanni (mentre il G. è quasi sempre designato coi titoli di "messer" o di "dominus", spettanti ai dottori in legge) e di lui si dice che si dilettava molto di leggere Dante, cosa che non equivale a esporre la Commedia allo Studio fiorentino, come il G. fece tra 1417 e 1425. Il poema Philomena (la paternità gherardiana del quale, però, è anch'essa tutt'altro che sicura) indica quale maestro del G. anche Antonio di Vado (Antonio pievano di S. Martino a Vado, nel Valdarno casentinese, amico di Coluccio Salutati e di Franco Sacchetti), che a Firenze espose privatamente la Commedia nel 1381 e che, nello stesso periodo, fu coadiutore del maestro di grammatica Domenico di Bandino d'Arezzo.
Agli anni degli studi universitari risale la corrispondenza poetica con Franco Sacchetti: a lui "Messer Giovanni di Gherardo da Prato, studente in legge ed in poesì" (la didascalia sembra documentare che il G. attendesse non solo agli studi giuridici, ma anche a quelli di poetica e retorica), indirizzò il sonetto Più e più volte ha infiamato il sole, cui il Sacchetti rispose col sonetto Sempre il prudente cerca degne scole. Nel suo sonetto il G., dopo aver lodato il Sacchetti come l'unico che, nell'"ingrato tempo" attuale, continua a coltivare la poesia, esorta i suoi propri versi a rendergli omaggio; nella replica, il Sacchetti elogia a sua volta il G. per l'impegno che profonde negli studi, ed esprime la speranza che con lui sia finalmente nato un nuovo poeta, capace di consolarlo della scomparsa di Petrarca e Boccaccio.
Tra il 1393 e il 1394 il G. lavorò al servizio del mercante pratese Francesco Datini. Il 14 genn. 1394 il Datini si impegnava a corrispondere 10 fiorini ai pittori Niccolò Gerini e Lorenzo di Niccolò (che per lui avevano eseguito affreschi nel suo palazz0 di Prato e nella chiesa di S. Francesco), come stabilito nel contratto stilato e sottoscritto dal G. (F. Datini, Ricordanze, in Mazzei, II, pp. 395 s.). Lo stesso Datini pagava al G. 2 lire "per copiatura d'uno quaderno di carta de la Vita di Cristo" il 26 febbr. 1394 (ibid., I, p. 79), e altri 10 fiorini, per motivi non precisati, il 6 maggio del medesimo anno (ibid., II, p. 376).
Benché il nome del G. non risulti attestato nei registri dell'arte dei giudici e notai (Martines, p. 313), egli dovette presto intraprendere la professione giuridica. Nella redazione di Antonio Manetti della Novella del Grasso legnaiuolo, ambientata nel 1409 o 1410, egli viene definito "giudice […] non meno per fama d'altra litteratura che di leggi notissimo". Tra il 1414 e il 1416 lavorò alle dipendenze dei Capitani di Orsanmichele, che il 26 sett. 1414 lo assunsero (a partire dal 1° ottobre seguente, con salario mensile di 4 fiorini) "ad faciendum scripturas pertinentes ad dictam societatem" (Arch. di Stato di Firenze, Capitani di Orsanmichele, 22, c. 38; Guasti, 1874, p. 110). Il G. era ancora in servizio un anno dopo, ma con un salario ridotto a 3 fiorini mensili: il 26 sett. 1415, infatti, gli venivano pagati 12 fiorini, corrispondenti allo stipendio dei mesi di giugno, luglio, agosto e settembre (ibid., 22, c. 75r, dove si specifica che egli era addetto "ad faciendum scripturam testamentorum et ultimarum voluntatum"). In questo periodo, inoltre, egli svolgeva il ruolo di consulente giuridico della Compagnia di Orsanmichele, giacché compare più volte in qualità di testimone e rogatore delle deliberazioni dei Capitani (per esempio il 26 ott. 1414; il 6, 21, 22 nov. 1415; il 28 genn. 1416: ibid., 22, cc. 42r, 96r, 97; 23, c. 5r).
Nel 1415 fu convocato in qualità di testimone, da parte di messer Francesco di ser Viviano Franchi, in occasione della definizione dei confini tra l'orto dello spedale di Monticelli e una proprietà dello stesso Francesco. L'episodio documenta i rapporti di amicizia esistenti tra il G. e la casata dei Franchi (o Viviani), in particolare con messer Francesco, anch'egli dottore in leggi, uomo politico di un certo rilievo nei primi decenni del XV secolo, figlio di ser Viviano (notaio delle Riformagioni, collaboratore e amico di Coluccio Salutati morto nel 1414).
Nel 1417 il G. fu incaricato di esporre la Commedia dantesca allo Studio fiorentino. La nomina fu deliberata il 29 maggio e le lezioni ebbero inizio il 18 ottobre; il salario, concesso con deliberazione dei Signori del 13 apr. 1418, era di 72 fiorini annui. La condotta "ad legendum Dantem" fu rinnovata dagli Ufficiali allo Studio il 4 sett. 1422 e, sempre col medesimo stipendio, il 28 luglio 1425; dall'ottobre del 1423, inoltre, egli esponeva, oltre alla Commedia, le canzoni ("cantilenas morales") dello stesso Dante. Ma il 16 genn. 1426, in seguito alla drastica riduzione - imposta dalle spese sostenute dal Comune per la guerra contro Milano - dell'appannaggio destinato allo Studio, la condotta del G. venne soppressa, e l'importo del suo salario fu assegnato "all'uficio e Uficiali del Monte".
Non si può escludere che dietro la rimozione del G. dall'incarico si nascondessero in realtà motivazioni di natura politica. Negli anni Venti, infatti, infuriava a Firenze la lotta tra la fazione oligarchica, guidata da Rinaldo degli Albizzi, e quella dei Medici; proprio a questi ultimi il G. sembra essere stato legato, se, come risulta da una nota presente nell'Inventario di tutte le cose trovate in casa di Giovanni de' Medici nel marzo del 1418 ("Messer Giovanni da Prato mandò la Vita di Dante"), egli si serviva dei libri di Cosimo per preparare le sue lezioni dantesche, allora iniziate da pochi mesi.
Nella citata deliberazione della Signoria del 13 apr. 1418 si afferma che il G., per assolvere all'impegnativo e prestigioso incarico, aveva abbandonato ogni altra attività ("ipsam lecturam [Dantis] est continue prosecutus et prosequitur diligenter, ceteris suis negociis pretermissis"); in realtà, di lì a breve il G. avrebbe cominciato a interessarsi e a collaborare assiduamente alla progettazione della cupola di S. Maria del Fiore, mettendo a frutto le competenze matematiche e scientifiche acquisite alla scuola del Pelacani. Il 27 marzo 1420 i quattro ufficiali alla cupola emanarono un bando per modelli e progetti; al bando rispose anche il G., che ricevette un compenso di 3 fiorini "per disegni fatti e sua fatica durata pe' fatti della cupola grande" (nella stessa circostanza Donatello riscosse un fiorino). Poco dopo, il 16 aprile, fu nominato provveditore supplente alla costruzione della cupola: sarebbe subentrato a chi dei tre provveditori in carica (Filippo Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti, Battista d'Antonio) fosse morto, si fosse dimesso o fosse stato rimosso dall'incarico. La circostanza non si verificò, e la costruzione della cupola ebbe inizio, secondo il progetto del Brunelleschi, il 7 ag. 1420. Tre anni dopo, il G. fu tra coloro che presentarono un progetto per la catena della cupola: il suo "modello di carta di pecora", discusso nel settembre 1423, fu compensato con 2 fiorini nell'aprile 1424. Nel 1425, quando la costruzione della cupola era giunta a poco meno di un terzo, gli Ufficiali richiesero il parere di tre esperti: il pittore Giuliano d'Arrigo detto il Pesello, il matematico Giovanni di Bartolo dell'Abaco, e lo stesso G., che presentò "più disegni e uno modello di terra, a dimostrare el modo di più cose s'avevano a fare nella cupola maggiore". Disegni e modello, esaminati dagli Ufficiali il 4 febbr. 1426, furono compensati, il 28 febbraio, con 10 fiorini.
Uno dei disegni preparati dal G. in questa circostanza è probabilmente da identificare nella pergamena oggi conservata presso l'Archivio di Stato di Firenze (Mostra, 158), unico documento iconografico contemporaneo superstite relativo alla costruzione della cupola. Col disegno, e con l'acclusa illustrazione, il G., rinviando a un suo precedente disegno presentato oltre cinque anni prima, intendeva dimostrare che la cupola, non essendo state costruite ventiquattro finestre sulla cornice, sarebbe risultata "oscura et tenebrosa", e che l'edificio, costruito secondo le direttive del Brunelleschi, correva il rischio di crollare, come era accaduto alcuni decenni prima al nuovo duomo di Siena. Il G., che specifica di essere stato invitato dall'Opera, in questa occasione, "a dire il suo parere intorno al volgere della cupola", critica aspramente il Brunelleschi (pur senza nominarlo), accusandolo di aver apportato tanto arbitrarie quanto rischiose modifiche al progetto originario, "per ignioranza et per presumere di sé", sulla base di certe sue "istrane fantasie sanza fondamento", e afferma di essersi voluto pronunciare "per non avere biasimo" e per essere "scusato" nel caso (a suo parere, più che probabile) in cui quegli inconvenienti (scarsa illuminazione e crollo della cupola) si fossero effettivamente verificati.
Agli stessi anni, e precisamente al periodo 1421-25, risale il polemico scambio di sonetti tra il G. e lo stesso Brunelleschi. Nel suo sonetto O fonte fonda e nissa d'ignoranza, il G. accusa Filippo di volere, con la sua "archimia", "lo 'ncerto altrui mostrar visibile", e afferma che la "plebe" ha "omai perduta" ogni speranza, in quanto "ragion non dà che la cosa impossibile / possibil facci uom sine sustanza"; ma se il Brunelleschi, che "poco sa ordire e vie men tessere" (cioè, che non sa né ideare né tanto meno realizzare), riuscisse a portare a compimento il suo progetto, il G. si dice disposto a rinunciare alla cattedra presso lo Studio e alla sua stessa vita. Il sonetto del G. prende direttamente di mira non il progetto della cupola, come a lungo si credette, bensì quello del battello fluviale per il trasporto delle merci (noto col nomignolo scherzoso di "badalone"), per il quale la Signoria concesse il brevetto a Filippo il 19 giugno 1421; tuttavia, sembra evidente che, sullo sfondo, il bersaglio principale sia costituito proprio dalla cupola, intorno alla quale verteva il più acceso dissenso tra il G. e il Brunelleschi. Questi replicò col sonetto Quando dall'alto ci è dato speranza nel quale ribatteva tutte le accuse del G., definendole "fantasie d'un sine scola".
Lo scambio di accuse tra il G. e il Brunelleschi non deve tuttavia far dimenticare come i due gravitassero nei medesimi ambienti e circoli culturali fiorentini, e come, almeno fino agli anni Venti, quando esplosero i contrasti intorno al "badalone" e alla cupola, il rapporto tra loro fosse, a quanto sembra, di amicizia e di collaborazione: il G. compare come personaggio della Novella del Grasso legnaiuolo (dove coopera, sia pur fortuitamente, alla beffa ordita dal Brunelleschi ai danni del Grasso; la stessa novella, nella redazione del Manetti, informa inoltre che, dopo la burla, il G. fu invitato a cena da Filippo e dai suoi amici in casa di Tommaso Pecori, e che "intendendo chi egli erano, v'andò volentieri"), e risulta autore di diciotto ottave del poemetto Geta e Birria, opera di Ghigo d'Attaviano Brunelleschi, ma da alcuni testimoni attribuito a Filippo (che, in ogni caso, sembra avervi in qualche modo collaborato). Inoltre, il Brunelleschi e il G. erano accomunati dal fatto, peraltro non inusuale, di affiancare competenze letterarie (in particolare, dantesche) e competenze architettoniche, nonché dall'interesse (attestato sia dalla Novella del Grasso, sia dal Paradiso degli Alberti) per il tema filosofico della metamorfosi. Mancano invece elementi per identificare col Brunelleschi il "Filippo" che compare nella Philomena (I, 4: "priega Filippo tuo che m'ami tanto").
Con il ritratto fin qui delineato (che si configura come quello di una personalità di spicco e di prestigio, a più livelli, della Firenze primo-quattrocentesca) contrasta, in modo difficilmente compatibile, la fama di incallito omosessuale che sembra aver accompagnato il G., attirandogli le feroci ironie dei contemporanei. In realtà, questi ultimi (Stefano di Tommaso Finiguerri detto lo Za, nella Buca di Montemorello, I, 69; il Burchiello, nel sonetto Questi ch'hanno studiato il Pecorone, vv. 9-12; e l'autore del poemetto satirico in terzine L'Acquettino) prendono di mira un personaggio soprannominato Acquettino o Acquattino, che era pratese e si chiamava Giovanni, ma che non è mai indicato come "Gherardi" o "di Gherardo". L'ipotesi che si tratti di altra persona è corroborata proprio dal poemetto L'Acquettino, che nel ms. Ricc. 2254 della Bibl. Riccardiana di Firenze è attribuito al G. ("Incomincia il libro composto pel savio et eximo [sic] poeta messere Giovanni da Prato nominato l'Aquettino"). Per risolvere la difficoltà, o meglio l'assurdità costituita da un G. che mette alla berlina se stesso, il Guerri ipotizzò un errore del copista, colpevole, a suo parere, di aver confuso l'autore col soggetto, ossia col bersaglio polemico dell'operetta; ipotesi poi generalmente accolta, al pari dell'identificazione del G. con l'Acquettino (Lanza - 1989, p. 323 - ha indicato il possibile autore del poemetto in Antonio di Meglio, senza però produrre alcuna prova). La congettura del Guerri è scarsamente plausibile, anche perché il Ricc. 2254 è un codice primo-quattrocentesco, copiato presumibilmente in ambiente vicino a quello del G. (contiene, fra l'altro, il Geta e Birria e, di altra mano, la Novella del Grasso). È molto più verosimile che l'omonimia abbia presto indotto copisti e lettori a confondere i due personaggi: ciò spiegherebbe perché i codici attribuiscano talora le rime del G. a "Giovanni Acquettino" o "Acquettini" (in questo secondo caso è evidente che il soprannome del sodomita pratese è stato indebitamente trasformato nel cognome di messer Giovanni di Gherardo). Già il Guasti (1844, pp. 3 s., 110 s.) aveva tenuto distinti il G. e l'Acquettino (definendolo "contemporaneo e amico del Burchiello"), e non osta il fatto che, come si deduce dall'eponimo poemetto, anche l'Acquettino fosse poeta e si applicasse allo studio della Commedia dantesca. In un codice recentemente scoperto in Norvegia (Spikkestat, Coll. privata Schøyen, ms. 900) il poemetto è stato attribuito a Domenico da Prato, altro esponente di spicco del movimento tradizionalistico e a "certi suoi aderenti", tra i quali sarà stato probabilmente lo stesso G. (Lanza, 1998, pp. 205-210). Del resto, nessun documento possediamo intorno all'omosessualità del Gherardi. Le testimonianze che lo riguardano non vi fanno mai cenno: il ser Giovanni da Prato della sopra citata novella del Sercambi non è affatto, come molti affermano, un omosessuale, ma piuttosto un inetto in campo amoroso (giacché, trovatosi solo con l'amata Baldina, egli non sa fare di meglio che leggerle e spiegarle tre canti della Commedia), e come tale è dileggiato nel "mesticcio" (un capitolo quaternario di 89 versi) che segue la breve narrazione. Anzi, alcune opere gherardiane (basti pensare al Giuoco d'amore, con la sua esaltazione e con le sue ardite rappresentazioni del più acceso amore eterosessuale) sembrano smentire decisamente l'omosessualità del loro autore.
Nessun credito ha trovato, inoltre, l'ipotesi del Muscetta (1967, pp. 34 s.) secondo la quale il G. sarebbe satireggiato, "per le sue pretese di prosatore, di poeta e di esperto di storiografia", anche nel Pecorone di ser Giovanni fiorentino; secondo lo stesso Muscetta, tutta quest'opera potrebbe anzi essere interpretata come "una contraffazione burlesca attribuita per "inventiva" a un "ser Giovanni"" da identificare, appunto, con lo stesso Gherardi.
Tra 1425 e 1426, perduto l'incarico allo Studio e frustrato nelle sue ambizioni architettoniche, il G. sembra aver concluso la sua attività professionale. Stando alle portate al Catasto del 1427, 1430, 1433 e 1442, egli si ritirò a Prato, dove visse poveramente, insieme alla sorella Antonia (morta prima del 1442), nella casa paterna, presso porta S. Giovanni; possedeva soltanto, oltre alla casa, un piccolo podere e una vigna nelle vicinanze di Prato, che gli fruttavano modeste rendite, ed era pesantemente indebitato col Comune e con creditori privati, tra cui un usuraio ebreo pratese, tale Salamone. Secondo la Novella del Grasso legnaiuolo, già nel 1409 o 1410 il G. si sarebbe trovato in prigione per debiti. Il Grasso, infatti, incontra in cella un noto giudice, che una redazione della novella, quella del ms. Palatino 51 della Bibl. nazionale di Firenze, identifica esplicitamente col G. ("messer Giovanni da Prato"; le altre redazioni preferiscono tacerne il nome). Che si tratti proprio di lui sembrano dimostrare vari indizi: nella redazione in ottave di Bartolomeo Davanzati si accenna al fatto che il giudice ha "lungamente letto in Istudio" (81, 1-2), mentre in tutte le redazioni si fa riferimento alla cultura e all'attività letteraria del personaggio, che si dimostra particolarmente ferrato in materia di trasformazioni (un tema su cui è incentrato il secondo libro del Paradiso degli Alberti, e in particolare la novella di Melissa). Fra i creditori del G. fu anche Francesco Datini, che, prestatigli 6 fiorini, incaricò nel novembre 1404 il medico Lorenzo Sassoli di recuperarli; il Sassoli, scrivendo al Datini il 12 novembre di quell'anno, gli comunicava che il G., non essendo in grado di saldare il debito, lo autorizzava a vendere il "bacino" da lui lasciato in pegno (Mazzei, II, p. 376); al "bacino" e a una "misciroba", pegni di "messer Giovanni", il Datini accenna anche nelle sue Ricordanze, in data 15 settembre 1407.
Nella portata al Catasto del 1442 (Catasto, 618, c. 297r) il G. risulta "d'età d'anni ottanta, poverissimo e fuori della memoria"; morì a Prato prima del 1446, poiché non compare nel Catasto di quell'anno.
Il G. è autore di una produzione letteraria piuttosto ampia, poetica e prosastica, risalente in gran parte agli anni della sua più intensa attività professionale e culturale (1400-25 circa) e collocabile all'interno del cosiddetto schieramento tradizionalistico. Il G., che scrive esclusivamente in volgare (a eccezione di una epistola latina, peraltro di non certa attribuzione), si mostra ancora fortemente legato alla cultura filosofica e letteraria trecentesca, segnalandosi per il culto delle "tre corone" (e in primo luogo di Dante) e per la tendenza, visibile soprattutto nel Paradiso degli Alberti, allo sfoggio di erudizione mitologica e alla creazione di uno stile e di una lingua tali - nelle intenzioni - da gareggiare col latino quanto a complessità sintattica, ricchezza lessicale, elaborazione retorica.
L'opera principale del G. è Il Paradiso degli Alberti. Trasmesso (adespoto, anepigrafo, acefalo e lacunoso) da un solo manoscritto (il Riccardiano 1280 della Bibl. Riccardiana di Firenze, cc. 19r-113r, autografo, postillato da A.M. Salvini), fu attribuito al G. da A. Wesselofsky, che lo scoprì e che per primo lo pubblicò (Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1389. Romanzo di Giovanni da Prato, a cura di A. Wesselofsky, Bologna 1867). Nel 1796, tuttavia, Gaetano Cioni aveva già utilizzato alcune parti dell'opera (quattro novelle e il proemio al III libro) per confezionare un volume dal titolo Novelle di Giraldo Giraldi fiorentino, ristampato nel 1819, con l'aggiunta di altre quattro novelle tratte dal Paradiso (il falso, già sospettato all'inizio dell'Ottocento, fu dimostrato dallo stesso Wesselofsky). Due le edizioni moderne: Giovanni Gherardi da Prato, Il Paradiso degli Alberti, a cura di A. Lanza, Roma 1975; Giovanni da Prato, Opere complete, I, Il Paradiso degli Alberti, con appendici d'altri autografi, a cura di F. Garilli, Palermo 1976 (i volumi successivi non sono mai usciti). Alcuni excerpta sono stati pubblicati da F. Gaeta, in Prosatori volgari del Quattrocento, a cura di C. Varese, Milano-Napoli 1955, pp. 951-980. L'opera, oggi spesso impropriamente definita come "romanzo", è caratterizzata da uno stile oltre modo elaborato e complesso, talora persino oscuro e involuto (memore, in particolare, della prosa boccacciana dell'Ameto e, soprattutto, del Filocolo), e si divide in cinque libri, l'ultimo dei quali incompiuto (o meglio, appena iniziato; la mutilazione non si deve a caduta di carte, giacché il testo si interrompe poco dopo la metà dell'ultima carta del codice). Il primo libro ha funzione introduttiva (essendo occupato, dopo la preliminare esaltazione del volgare fiorentino, dalla narrazione di un viaggio mistico e allegorico a Cipro compiuto dall'autore in sogno), mentre i successivi riferiscono le conversazioni tenute da una illustre compagnia di uomini politici e di dotti (fra i quali, oltre allo stesso G., Luigi Marsili, Coluccio Salutati, Marsilio da Santa Sofia, Biagio Pelacani, Ludovico Buzzacarini, Francesco Landini, Grazia Castellani, Guido Del Palagio, Carlo dei conti Guidi di Poppi, Antonio degli Alberti) prima nel castello dei conti Guidi a Poppi (II libro) e poi nella villa Il Paradiso, di proprietà degli Alberti, alle porte di Firenze (libri III-V); il titolo attribuito all'opera dal Wesselofsky è dunque almeno in parte improprio, giacché si addice soltanto agli ultimi tre libri. Della brigata fanno parte anche alcune donne, tra le quali un ruolo di spicco ricopre Cosa (ossia Nicolosa), che, nel III libro, interviene brillantemente nella discussione, e alla quale due fanciulle, supportate da Biagio di Sernello, dedicano anche una ballata (Or su, gentili spirti ad amar pronti). I libri II-V alternano discussioni su impegnative questioni filosofiche, storiche, politiche, scientifiche e morali (l'origine della città di Prato, la trasformazione degli uomini in animali, la migliore forma di governo, la generazione e la nascita dell'uomo, il fine e la felicità dell'uomo, se alcuni animali abbiano maggior ingegno di altri, quali siano i modi di guadagnare denaro, l'usura, la fondazione di Firenze) e descrizioni di conviti, danze e giochi, nonché la narrazione di novelle di vario genere e di varia ampiezza: due nel secondo libro (novelle di Melissa e di messer Olfo), due nel terzo (novelle di Marsilio da Carrara e di Dolcibene), cinque nel quarto (novelle di Nofri speziale, di Berto e More, di madonna Ricciarda, di Catellina e Filippello Barile, di Bonifazio Uberti). Rispetto al modello del Decameron risulta qui capovolto il ruolo della cornice, che acquista una spazio e un'importanza preponderanti in rapporto alle novelle; ma, più che sul capolavoro boccacciano (cui rinviano, comunque, oltre all'ambientazione, numerosi particolari, come l'elezione, alla fine di ogni giornata, di un "proposto" incaricato di condurre la conversazione il giorno seguente), il Paradiso degli Alberti sembra esemplato su un'opera latina quale i Saturnalia di Macrobio, dove, allo stesso modo, una compagnia di illustri e altolocati personaggi storici (e non fittizi, come nel Boccaccio) conversa dottamente, per vari giorni consecutivi, sui più diversi argomenti. Le stesse novelle, nel Paradiso, hanno il compito di esemplificare e chiarificare le varie questioni sulle quali la brigata di volta in volta si intrattiene. L'attribuzione dell'opera al G., dimostrata dal Wesselofsky sulla base di considerazioni biografiche, paleografiche e storico-culturali, sembra confermata da vari elementi: i numerosi e stretti punti di contatto col Trattato d'una angelica cosa dello stesso G.; la presenza - tra i componenti della brigata - di personaggi come Alessandro degli Alessandri, Andrea Betti (o Minerbetti) e messer Giovanni de' Ricci, ascendenti di uomini con cui il G. fu in rapporto negli anni Venti: Niccolò d'Ugo degli Alessandri e Giovanni di Andrea Minerbetti furono ufficiali alla cupola negli anni in cui il G. lavorò al progetto; Piero di Giovanni de' Ricci compilò, per conto del G., la sua portata al Catasto del 1427 (va ricordato in questo senso anche Guido Del Palagio, morto nel 1399, che aveva affittato al G. un suo podere a San Martino a Paperino, nei pressi di Prato); l'accenno agli studi di "prospettiva", ossia di ottica (le "demostrazioni utili e leggiadre della dilettevole prespettiva": II, 23), compiuti con Biagio Pelacani, che sono certo alla base delle competenze architettoniche del Gherardi. L'epoca in cui sono ambientate le conversazioni del Paradiso è stata indicata congetturalmente dal Wesselofsky nel 1389; l'ipotesi è stata accolta dalla quasi totalità degli studiosi, ma alcuni, sulla scia di H. Baron (1970, pp. 89 s., 359-365), hanno negato la storicità dei colloqui, che rifletterebbero in parte idee e motivi caratteristici della cultura fiorentina primo-quattrocentesca (in particolare, l'interpretazione repubblicana della storia di Roma e la tesi della fondazione di Firenze da parte dei soldati di Silla) nostalgicamente e arbitrariamente retrodatati dall'autore (il quale, inoltre, sembra conoscere e utilizzare il primo libro delle Historiae di Leonardo Bruni, scritto nel 1415). In effetti, non mancano nell'opera aporie interne, che potrebbero far pensare a più redazioni e a una stesura protratta nel tempo: in un passo, come abbiamo detto, si afferma che l'autore è ancora imberbe (mentre il G., nel 1389, ben difficilmente avrebbe potuto esserlo), e in un altro (III, 54-58, dove l'autore, interrompendo per un momento la finzione narrativa, si rivolge direttamente ai lettori) Biagio Pelacani, morto nel 1416, è detto ancora vivente; subito dopo (III, 59), lo stesso Pelacani è descritto come un vecchio ("sendo il suo capo per vechiezza quasi tutto calvo e picciolo"), mentre, nel 1389, egli aveva da poco superato i quarant'anni. Del resto, il codice autografo (che ancora attende un'autentica e rigorosa edizione critica), è una sorta di brogliaccio, denso di correzioni e aggiunte; ed è probabile che al libro il G. abbia cominciato a lavorare non successivamente al 1425, ossia al suo ritiro dalla vita pubblica (come in genere si ritiene: Baron, 1970, p. 361 fissa la stesura dell'opera all'inverno 1425-26), ma vari anni prima, nel pieno della sua attività professionale e letteraria. È vero che il G., all'inizio dell'opera, accenna alla sua età avanzata ("questo dubiosissimo resto del trascorrimento di mia etade"), ma il primo libro, che male sembra armonizzarsi con i seguenti, potrebbe essere stato composto successivamente agli altri, quando il G., dopo il 1425-26, decise di riorganizzare e rivedere il Paradiso.
Il Trattato d'una angelica cosa, mostrata per una divotissima visione ammaestrandoti come perfettamente la tua vita menare si debbi è un prosimetro che alterna, alle parti prosastiche, tre "orazioni" ("a Dio", "a nostra Donna" "a tutte l'anime sante") in terza rima. È trasmesso da quattro codici fiorentini (Bibl. naz., Panciatichiano 41, cc. 81r-91v e Palatino 30, cc. 86r-103r, adespoto; Bibl. Riccardiana, Ricc. 1689, cc. 45r-74v, e Ricc. 1775, cc. 108r-130v) e pubblicato, sui soli manoscritti riccardiani, dal Wesselofsky (ne Il Paradiso degli Alberti, cit., I, 2, pp. 385-435). L'operetta, scritta in persona di una giovane donna che si rivolge alle sue sorelle, riferisce gli insegnamenti a lei offerti dalla Carità (apparsale in sogno con le sembianze di una bellissima donna) intorno a tre temi principali (tutta l'operetta, anche sul piano delle microstrutture sintattiche, è imperniata sul numero tre e sulla sua simbologia): chi è l'uomo, come e a che fine fu creato, chi è il suo creatore. Numerosi argomenti, come si è detto, tornano, spesso con parole analoghe o identiche, nel Paradiso (benché la prosa del Trattato risulti assai più limpida e lineare): la tripartizione dell'anima, le due nature dell'uomo, la metamorfosi dell'uomo in bestia, la generazione e le età dell'uomo. Non è improbabile che il titolo nasconda il nome della protagonista (e forse dedicataria) dell'opera, Cosa, presente anche nel Paradiso e nel Giuoco d'amore. Il terminus ante quem per la composizione dell'operetta è il gennaio 1427, quando fu ultimata la trascrizione della copia contenuta nel codice Ricc. 1689.
Il giuoco d'amore è un lungo poemetto polimetrico (oltre 1200 versi, con alternanza di sezioni in terzine a canzoni e a lasse dall'andamento di caccia o frottola, e conclusione con due ottave e una decima rima) di argomento erotico, trasmesso nella sua integrità da un solo codice, il II.II.40 della Bibl. nazionale di Firenze, cc.76r-81r; un frammento, con attribuzione ad Antonio di Matteo Bonsignori, si trova nel ms. Ottelio 10 della Bibl. comunale di Udine. È a stampa in C. Mazzotta, Il polimetro tardo-trecentesco "Il giuoco d'amore" di G. G. da Prato, in Studi e problemi di critica testuale, IX (1974), pp. 29-67 (che ritiene incompleto il poemetto) e in Il giuoco d'amore, a cura di A. Lanza, Roma 1996; il frammento del manoscritto udinese era edito già in G. Fabris, Il "Gioco amoroso", caccia in rima del secolo XIV, in Memorie storiche forogiuliesi, IV (1908), pp. 1-16. Mancano elementi per la datazione; l'assegnazione del poemetto alla gioventù del G. (sostenuta da tutti gli studiosi) si fonda esclusivamente su considerazioni di ordine contenutistico ed estetico. Nel finale viene introdotta una donna di nome Cosa, probabilmente da identificare con quella stessa che compare nel Paradiso degli Alberti e, copertamente, nel titolo del Trattato d'una angelica cosa.
L'esiguo manipolo di rime attribuibile al G., trasmesso da vari manoscritti (tra i quali il principale è il Redi 184 della Bibl. Medicea Laurenziana di Firenze, cc. 114r-117r, che accoglie trentadue componimenti), è a stampa (in Lirici toscani del Quattrocento, a cura di A. Lanza, I, Roma 1973, pp. 638-660); per i citati scambi di sonetti col Sacchetti e col Brunelleschi, si vedano anche, rispettivamente, F. Sacchetti, Rime, a cura di F. Ageno, Firenze 1990, pp. 366 s.; e F. Brunelleschi, Sonetti, introduzione di G. Tanturli, nota ai testi di D. De Robertis, Firenze 1977, pp. 5-9, 21 s.; il corpus comprende in tutto 26 sonetti (più i due responsivi del Sacchetti e del Brunelleschi), quattro canzoni, due ballate (ma una di esse, È più bella Dïana giuso in terra, è designata nel ms. Redi 184 come "ballata overo madriale") e una sestina; l'unico componimento di argomento non amoroso (a parte i sonetti di corrispondenza) è la canzone politico-morale Dolce mia patria, non ti incresca udirmi (intitolata, nel ms. Redi 184, Canzona morale di patria e di libertate), che deve essere ricondotta al periodo cruciale della guerra contro Milano, tra la fine del Tre e l'inizio del Quattrocento (epoca cui, su basi puramente stilistiche, viene assegnato di norma l'intero corpus delle rime gherardiane). Non attribuibile al G. sembra invece la corona di sei sonetti in lode di Firenze e di alcuni illustri fiorentini (Dante, Petrarca, Boccaccio, Tommaso Del Garbo, Paolo Dagomari) trasmessa, adespota, dai mss. II.II.40 della Nazionale di Firenze, c. 81v (di seguito al Giuoco d'amore; nell'indice, coevo, il nome dell'autore è lasciato in bianco) e XLI.34 della Laurenziana, cc. 36v-38v (di seguito a due canzoni di Cosimo Aldobrandini e a due sonetti adespoti). Probabilmente ingannato dalla disposizione dei componimenti nel ms. II.II.40, V. Follini (nelle sue annotazioni a questo codice), li attribuì al G., e così fece anche il Wesselofsky, seguito da Lanza, 1971, pp. 255-258. All'Aldobrandini li assegnò invece A.M. Bandini, Catalogus Bibliothecae Mediceae Laurentianae, Florentiae 1778, coll. 148 s.
L'Acquettino è un poemetto satirico in terzine, in quattro capitoli, trasmesso dal codice Ricc. 2254 della Riccardiana, cc. 113v-118v; Garilli (1972, p. 45) afferma, errando, che l'operetta è anche nel Ricc. 1091 della medesima biblioteca; fu pubblicato da Guerri (1931, pp. 149-171). L'opera, che, come abbiamo detto, deve probabilmente essere restituita al G., si scaglia duramente contro il dilagante vizio della sodomia, prendendo di mira tre sodomiti: l'Acquettino, Cogosso e Baldo di Michele, dai quali il narratore cerca (con successo nei primi due casi, senza nel terzo) di difendere un bellissimo giovinetto da lui incontrato per via (giovinetto che il Guerri pensò di identificare con Anselmo Calderoni), mentre si recava a Prato alla festa della "cintola di Maria". Se invece volessimo dar fede alla testimonianza del già ricordato ms. della Coll. Schøyen, in cui il poemetto è intitolato Invettiva fatta per ser Domenico da Prato et suoi aderenti contra all'Aquattino, dovremmo considerare l'opera un lavoro a più mani di vari esponenti della cerchia tradizionalistica, fra cui, con ogni probabilità, anche il Gherardi.
La Philomena, poema in terzine, è trasmesso integralmente dal solo ms. Magl. VII.702 della Bibl. nazionale di Firenze; il secondo libro è anche nel ms. Magl. VII.141 della medesima biblioteca. Sul primo di questi codici si fondano l'edizione curata dal Wesselofsky in Il Paradiso degli Alberti, cit., I, pp. 109-192, e quella (molto scorretta) compresa in C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri, III, Roma 1891, pp. 311-412 (trascrizione di D. Marzi), dove, come inizio del poema, viene erroneamente stampato il sonetto O monti alpestri, o cespugliosi mai, copiato, prima della Philomena, a c. 1r (e per questo attribuito al G.); ma si veda ora l'edizione a cura di M. Ceci, Roma 1996. Si tratta di un poema di stretta imitazione dantesca, imperniato sul motivo del viaggio oltremondano (che l'autore compie con la guida di Costanza, simbolo e personificazione della fortezza, e di Dante stesso) e articolato in due libri suddivisi, rispettivamente, in tredici e in nove canti; ma l'opera è incompiuta, giacché, come documenta l'intitolazione del Magl. VII.141, essa doveva comprendere anche un terzo libro (perduto, o forse mai scritto), dedicato alla trattazione di "come l'uomo debbe essere abituato nella virtù". Lo stesso manoscritto trasmette anche 39 versi di un proemio che, immediatamente precedente l'invocazione alle Muse, risulta, nell'altro codice, intenzionalmente cancellato con una vasta macchia d'inchiostro (lo ha scoperto e pubblicato Bessi, 1991, pp. 332 s.). Il poema è dedicato a messer Biagio Guasconi, da identificare con Biagio di Bonaccio Guasconi, morto nel 1389 (Lanza, 1989, p. 187, pensa al più giovane Biagio di Jacopo, che però non fu miles, ossia cavaliere, come è qualificato il dedicatario nel Magl. VII.702); ma il nome del dedicatario è stato cassato nel Magl. VII.702 e ciò ha fatto pensare che la stesura della Philomena, iniziata prima del 1389, sia stata proseguita e portata a termine dal G. dopo questa data, e che l'autore, morto nel frattempo il Guasconi, ne abbia voluto cancellare il nome dall'intestazione. Negli ultimi versi del secondo libro, del resto, sono menzionati come già defunti Franco Sacchetti (in un verso cassato) e Coluccio Salutati, morti rispettivamente nel 1400 e nel 1406. Va però detto che l'attribuzione al G. del poema è dubbia. In entrambi i codici l'autore è indicato come "Giovanni di Gherardo da Cignano" (nel Magl. VII.702 la lettura non è chiara: forse "Cirignano" o "Cicignano"): si è supposto, fin dal Wesselofsky, che Cignano o Cicignano fosse una piccola località nei pressi di Prato, ma i dizionari storico-geografici non confermano l'ipotesi (il toponimo Cignano è attestato soltanto in Valdichiana, in Mugello e in Valdelsa), né le portate al Catasto del G. documentano l'esistenza di sue proprietà in una località con questo nome (egli possedeva soltanto un podere a Tobbiana e una vigna a Sant'Anna, nei dintorni di Prato). Inoltre, il G. si qualifica sempre, ed è sempre designato, come "da Prato", e mai come "da Cignano" o "da Cicignano". Si potrebbe supporre che il poema debba attribuirsi a un esponente della nota famiglia fiorentina dei da Cignano (o Cignani); tanto più che, nel canto VII del primo libro, si afferma che l'autore fu battezzato a Firenze, in S. Giovanni, e proprio nel quartiere di S. Giovanni, gonfalone Vaio, risiedevano i da Cignano. Bisogna tuttavia ricordare che un Giovanni di Gherardo è assente negli alberi genealogici dei da Cignano (Arch. di Stato di Firenze, Carte Pucci, IV, 56; Carte Ceramelli Papiani, 1521; Carte Dei, XVIII, 19 bis); e che il ms. Magl VII.702, nel quale si riconoscono almeno due mani, risulta in parte copiato dal G. e da lui interamente annotato e corretto. Per di più, alla personalità del G. sembrano ricondurre tanto i caratteri stilistici del poema, quanto l'ambito culturale nel quale esso si inscrive, con la venerazione nei confronti di Dante, Petrarca e Boccaccio, e la celebrazione di letterati tardotrecenteschi quali Fazio degli Uberti, Sacchetti, Salutati; tra gli altri personaggi che il protagonista incontra nell'aldilà si segnalano anche Alessandro dell'Antella e Antonio di Vado, su incoraggiamento del quale l'autore afferma di aver intrapreso e portato avanti la composizione del poema. Per uscire dalla difficoltà si dovrebbe forse indagare sul ramo pratese dei da Cignano, che - come documentano le suddette Carte Ceramelli Papiani, 1521 - risulta annoverare, nel XIV secolo, sia un anonimo rigattiere (tale, si ricordi, era il padre del G.), sia un Giovanni.
Come già aveva visto A.M. Salvini (cfr. Tanturli, 1980, p. 137), al G. si devono diciotto ottave aggiunte al poemetto Geta e Birria; le ha pubblicate Lanza (1971, pp. 303-306) traendole dal codice Ricc. 1592 della Riccardiana.
Presso l'Archivio di Stato di Firenze (segnatura Mostra, 158) si trova la pergamena autografa del disegno per la cupola di S. Maria del Fiore, che comprende tre disegni con la relativa illustrazione dell'autore. È riprodotta in Il Paradiso degli Alberti, a cura di F. Garilli, cit., AppendiceII, e in Battisti, tav. 143; per la trascrizione completa del testo, vedi Ricci, 1983, pp. 53-55 (trascrizione di G. Battista).
Al G. sono attribuite due lettere, una volgare e una latina. Quella volgare, autografa, è conservata presso l'Archivio di Stato di Lucca, Governo di Paolo Guinigi, 28, ed è a stampa in Novati, p. 167, e in Il Paradiso degli Alberti, a cura di F. Garilli, cit., Appendice I (con riproduzione dell'autografo); è scritta da Firenze il 22 agosto di un anno non precisato (ma non successivo al 1420, giacché nel maggio 1421 morì Gino Capponi, ricordato nell'epistola come vivente) ed è indirizzata al cancelliere di Paolo Guinigi, ser Guido Manfredi da Pietrasanta, cui il G. chiede di intervenire a favore di tale Benvenuto da Pisa, mercante di vini e socio di Neri di Gino Capponi, derubato del suo carico da un malfattore allora detenuto a Lucca. La ben più ampia lettera latina, trasmessa dal ms. Gaddi 101 della Laurenziana di Firenze, cc. 32v-33r, fu scoperta e pubblicata dal Wesselofsky (ne Il Paradiso degli Alberti, cit., I, 2, pp. 374-383); priva di data, è scritta "domino Guidoni clarissimo medicinae doctori" da un "Iohannes Gerardi" che lo stesso Wesselofsky identificò col G. sulla base di argomenti invero deboli (certi tratti stilistici, e la contiguità, nel codice, con epistole tardotrecentesche indirizzate a varie personalità pratesi). L'epistola, che sarebbe l'unico scritto latino noto del G., ha carattere morale e verte sullo stolto attaccamento dell'uomo a quei beni terreni cui l'autore dichiara di aver rinunciato per poter condurre un'esistenza quieta e appartata, dedita alle lettere e alla contemplazione; se fosse del G., quindi, la lettera dovrebbe appartenere all'ultimo periodo della sua vita, quello successivo al 1426.
Altre opere sono di dubbia attribuzione. I volgarizzamenti delle due invettive antiumanistiche in latino (gli originali sono andati perduti) di Cino Rinuccini (Invettiva contro a cierti calunniatori di Dante e di messer Francesco Petrarca e di messer Giovanni Boccaci e Risponsiva alla invettiva di messer Antonio Lusco) furono cautamente assegnati al G. da Wesselofsky, I, 2, pp. 52-54, che osservò come la prima di esse si apra, al pari del Paradiso degli Alberti, con un viaggio allegorico: su basi ancora più fragili l'attribuzione è stata ribadita da Lanza (1989, pp. 138 s.). Scarsa fortuna ha avuto inoltre l'idea - proposta primamente da Guerri (pp. 104-148) e recentemente ripresa dal solo Lanza (1971, pp. 396-409) - di un coinvolgimento del G. nella cosiddetta tenzone di Dante con Forese Donati. Secondo i due studiosi, protagonisti della tenzone sarebbero lo stesso G. (col soprannome di "Alaghiero", procuratogli dal suo culto di Dante) e Bicci de' Castellani (menzionato dallo Za e dal Burchiello; il soprannome di "Forese" gli sarebbe derivato dalla sua ingordigia); e i sonetti scambiati tra i due si spiegherebbero sia per la lingua, sia per i luoghi, i fatti e le persone cui in essi si allude, solo nell'ambito e alla luce della poesia burlesca e burchiellesca del primo Quattrocento fiorentino.
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