GADDI, Giovanni
Figlio di Taddeo di Angelo e di Antonia di Bindo Altoviti, nacque a Firenze il 25 apr. 1493.
La sua famiglia si dedicava con successo all'attività bancaria, con imprese operanti a Firenze e a Roma; soprattutto in quest'ultima città i Gaddi riuscirono, durante il pontificato di Leone X, ad aggiudicarsi affari cospicui, come l'appalto della Tesoreria delle Marche. Nel maggio del 1527, quando ormai si profilava il pericolo dell'invasione di Roma da parte dei lanzichenecchi, il banco Gaddi di Roma sovvenzionò il papa con circa 40.000 scudi, cosa che valse, come ricompensa, la promozione al cardinalato del fratello del G., Niccolò.
Poco sappiamo sulla prima giovinezza del G. tranne che fu legato da consuetudine con Giuliano de' Medici, duca di Nemours: come riporta il Vasari, entrambi erano membri di un sodalizio noto come Compagnia della Cazzuola. In questo ambito il G. promosse l'allestimento di una rappresentazione di "all'Inferno", per le cui scenografie ricorse ad artisti famosi, come Andrea del Sarto, G.F. Rustici e J. Sansovino. A quest'ultimo fu affidata poi anche la ricostruzione della casa romana dei Gaddi nel rione Ponte, da lui trasformata in palazzo gentilizio (ora palazzo Niccolini-Amici in via del Banco di S. Spirito).
Conseguiti gli ordini ecclesiastici, il G. ebbe in commenda l'abbazia di S. Salvatore a Salvamondo o Cornaro, nella diocesi aretina. Sotto il pontificato di Clemente VII ottenne, probabilmente comprandola, la dignità di chierico della Camera apostolica.
I chierici di Camera costituivano un collegio cui erano affidate importanti funzioni amministrative e contabili, come la revisione dei conti dei vari tesorieri provinciali ed esattori di varie imposte e l'istruzione delle pratiche che avevano, anche indirettamente, connessione con la contabilità e con la finanza pontificie; essi costituivano inoltre magna pars del tribunale della Piena Camera, chiamato a giudicare e a deliberare nelle stesse materie finanziarie e contabili. Dei chierici della Camera apostolica il G. divenne ben presto decano, una sorta di primusinter pares che ne convocava le sedute e disciplinava la distribuzione fra loro delle varie pratiche.
Ben presto l'abitazione romana del G., che ospitava anche una ricca biblioteca (ma i preziosi codici ereditati dal nonno e dallo zio Francesco, noto umanista, erano rimasti presumibilmente a Firenze presso il fratello Sinibaldo), divenne luogo di incontro e di riunione di una vasta cerchia di poeti e di letterati, gli stessi che formavano il circolo letterario noto come Società della Virtù; esso comprendeva cultori e studiosi dei classici, come A. Caro e L. Fabbri da Fano, poeti berneschi, come M. Franzesi e G. Boni, petrarchisti di diverso valore come L. Martelli e A. Allegretti.
Ad alcuni di essi il G. passava addirittura un sussidio, in cambio di piccoli servizi, perché potessero dedicarsi con più tranquillità ai loro studi e al loro estro, tanto che nelle fonti contemporanee sono spesso designati come suoi "famigliari"; inoltre la casa romana dei Gaddi costituiva quasi un punto di riferimento obbligato per i fiorentini e i toscani, soprattutto se artisti e letterati, di passaggio a Roma. Tra di essi ci furono B. Cellini, P. Aretino, B. Varchi, J. Sansovino, N. Pericoli detto il Tribolo.
Particolarmente lunga e feconda fu la collaborazione con Annibal Caro. Questi era entrato al servizio della famiglia Gaddi nel 1525 circa come precettore di Lorenzo Lenzi, nipote del G., futuro vescovo di Fermo; passato poi a Roma come segretario verso il 1529, rimase in questo ruolo fino alla morte del suo principale, nonostante alcuni episodici contrasti che non intaccarono sostanzialmente il rapporto di reciproca stima e rispetto.
Per il G., oltre le normali mansioni di segretario, il Caro svolse talvolta incarichi di fiducia, prevalentemente nell'ambito dell'amministrazione dei numerosi benefici ecclesiastici che il G. aveva conseguito soprattutto in conseguenza dell'ascesa al cardinalato del fratello Niccolò. Tali benefici, per lo più dotati di rendite molto consistenti, si trovavano nelle Marche, come l'abbazia di S. Elena di Serra San Quirico, o in Campania come la badia di S. Niccolò di Somma, poi ceduta dal G. a Benedetto Varchi. Per interessamento del G., anche il Caro ottenne un beneficio ecclesiastico, l'abbazia marchigiana di Ss. Filippo e Giacomo a Montegranaro, da lui ceduta al fratello Fabio.
In compagnia del Caro il G. effettuò, nell'ottobre 1532, un breve soggiorno a Tolfa, cittadina dell'alto Lazio, ove si trovavano cave di allume, il cui sfruttamento, dopo la scadenza del contratto con i Chigi nel 1517, era stato affidato da Leone X direttamente ai chierici della Camera apostolica. Il viaggio dette occasione ad alcuni saggi per verificare la presenza in loco di metalli, come argento e rame, da cui il G. si riprometteva di ottenere medaglie, ma sembra che la spedizione avesse esito deludente.
Altro famoso letterato in rapporti molto stretti col G. fu B. Varchi, presumibilmente presentatogli dal Caro, che lo aveva conosciuto nel 1527.
Il G. avrebbe voluto assumere stabilmente il Varchi al proprio servizio; pensava infatti di valersi della sua preparazione giuridica nelle innumerevoli controversie legali in cui era coinvolto, ma costui, che pur aveva accettato un modesto sussidio fisso, solo saltuariamente rimase presso di lui. Era con lui nel 1527, quando, subito dopo il sacco di Roma, il G. trascorse qualche tempo a Venezia. Una volta passato il pericolo, il G. raggiunse in compagnia del Varchi Orvieto e poi Viterbo, ove si trovava papa Clemente VII, al seguito del quale entrambi nell'ottobre del 1528 fecero ritorno a Roma. Ben presto però il Varchi, che pur apprezzava la protezione del G., insofferente tuttavia della vita di corte riprese le sue peregrinazioni.
Godette della benevolenza del G. anche Pietro Aretino, che durante il soggiorno romano approdò nella sua casa e, una volta lasciata Roma per Venezia, continuò a tenere con lui rapporti epistolari, non stancandosi il G. di sollecitarne il ritorno a Roma. Particolare dimestichezza ebbe il G. con Benvenuto Cellini, il quale ne diede tuttavia un giudizio tagliente, scrivendo che il G. "si dilettava di ogni virtù non avendone nessuna" (Autobiografia, p. 64). Rimangono anche alcune lettere del G. a Michelangelo, che suggeriscono una probabile frequentazione tra i due durante il soggiorno romano dell'artista (P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, p. 507; cfr. anche lettera del G. a Michelangelo, 3 genn. 1532, in Il carteggio di Michelangelo, III, a cura di P. Barocchi - R. Ristori, Firenze 1973, pp. 367 s.).
Amico di Antonio Blado - uno fra i più quotati stampatori presenti a Roma nella prima metà del Cinquecento - il G., che già nel 1521 aveva finanziato la stampa a Firenze della Ciropedia di Senofonte, tradotta da P. Bracciolini, finanziò la pubblicazione dei Discorsi di N. Machiavelli, stampati nel 1531, dopo che era stato concesso da papa Clemente VII un privilegio decennale per le opere dello scrittore fiorentino; a quella dei Discorsi fece seguito l'anno successivo la stampa del Principe. Nel 1533 finanziò la stampa delle rime del fiorentino L. Martelli.
Notevole anche il sostegno dato dal G. all'edizione critica di testi classici, mettendo a disposizione i rari manoscritti della sua biblioteca e impegnandosi personalmente con consigli e con verifiche per agevolare il lavoro dei curatori.
In particolare è documentato l'apporto dato dal G. alla pubblicazione della versione critica curata da P. Vettori delle Epistole di Cicerone, di cui egli possedeva nella sua biblioteca ben sei redazioni manoscritte. Il G. contribuì direttamente, insieme con D. Giannotti e L. Fabbri da Fano, alla revisione dei manoscritti: per questo motivo il Vettori premise alla pubblicazione un pubblico ringraziamento per il G., dietro suggerimento del Giannotti, il quale a questo proposito scriveva il 20 sett. 1540 all'amico: "Egli ve ne harà maggior obrigo che se gli donaste una badia di cinquecento ducati di entrata".
Il G. si spense a Roma il 18 ott. 1542.
In occasione della sua morte A. Caro compose il sonetto "Lasso, quanto fioria l'ultima speme", che inviò al nipote del G., Taddeo Gaddi. Ebbe un figlio illegittimo, di nome Niccolò, noto familiarmente come "Giannicchiolo", ricordato da Sinibaldo Gaddi nel suo testamento (Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano 223, c. 291).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Segreteria delle tratte, 117, c. 246; Arch. Mediceo del principato, 343, c. 241; 355, cc. 42, 181; 357, c. 553; 358, c. 267; B. Varchi, Storia fiorentina, I, Firenze 1843, p. 487; D. Giannotti, Lettere a P. Vettori, a cura di R. Ridolfi - C. Roth, Firenze 1932, pp. 20, 58, 71, 74, 76 s., 80, 84, 86, 89, 112, 168, 179; P. Aretino, Lettere, a cura di F. Flora, Milano 1960, pp. 51, 298, 370; A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, Firenze 1957-61, I (cfr. Indici, vol. III); B. Cellini, Vita, Colonia s.d., pp. 64, 113; I. Gaddi, Elogiographus scilicet Elogia omnigena, Florentiae 1638, p. 250; J. Rilli Orsini, Notizie letterarie ed istoriche intorno agli uomini illustri dell'Accademia fiorentina, Firenze 1700, I, pp. 62-64; G. Negri, Storia degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 282.