FRESCOBALDI, Giovanni
Nacque a Firenze da Lambertuccio di Ghino e da Adimaringa di Orlandino Ruffoli intorno al 1280. Dal matrimonio dei genitori, celebrato nel 1271, nacquero altri tre figli maschi: Lippaccio, Taddeo e Dino, il celebre poeta.
I Frescobaldi erano una famiglia di ricchi banchieri, proprietari di importanti compagnie legate al commercio della lana, con filiali a Roma e a Napoli. Il nonno del F., Ghino, aveva fatto costruire in via Maggio, nel popolo di S. Jacopo sopra Arno, un grande palazzo, chiamato poi palazzo dei Lambertucci, dal nome del padre del Frescobaldi.
Assai scarse sono le notizie relative alla vita del F. che non sembra aver seguito le orme del padre per quel che riguarda la partecipazione all'attività commerciale e politica. Nel 1310 venne indennizzato dal Comune di Firenze per un cavallo morto in battaglia contro gli Aretini. Forse in questo stesso anno sposò Gemma di Pigello Gangalandi da cui ebbe quattro figli: Francesca, Veronica, Lippaccio e Pigello (inoltre il F. aveva una figlia illegittima di nome Caterina). Nel febbraio 1314 il F. risulta iscritto nelle liste delle truppe fiorentine a cavallo, inviate a Pistoia per la difesa di Montecatini. Il 13 marzo 1318, insieme con il fratello Taddeo, contrasse un prestito di 40 fiorini d'oro per sei mesi da Francesco Sassolini che restituì il 14 novembre successivo. In un atto del 19 genn. 1320 rogato dal notaio Tano di Puccio, relativo a una designazione di confini, risulta già morto.
La tomba di un Giovanni Frescobaldi e di sua moglie, di cui non è indicato il nome, si trovava anticamente - secondo un sepoltuario del 1596 copiato da un codice del 1439 - nella piazza antistante la basilica di S. Croce. Visto però che non è specificato il patronimico, potrebbe trattarsi anche della tomba di un omonimo del F., forse dello zio Giovanni di Ghino.
Al pari del padre Lambertuccio e del fratello Dino, uno dei maggiori poeti dello stil novo, il F. si dilettò a comporre rime, senza però raggiungere la stessa notorietà. Nella sua Cronica domestica Donato Velluti lo descrive come un apprezzato suonatore di chitarra, liuto e viola, e come autore di "forti rime".
Sotto il nome del F. sono stati raccolti undici sonetti di argomento diverso, dei quali però soltanto cinque gli possono essere attribuiti con sicurezza. Tre di questi fanno parte di una corrispondenza poetica con ser Ventura Monachi (1290-1348), notaio e cancelliere della Repubblica di Firenze a partire dal 1340. Gli altri due ("Chi vuol vedere una leggiadra donna" e "Della mia mente, ove 'l desio s'informa") trattano il tema dell'amore cortese.
I tre sonetti della corrispondenza con il Monachi costituiscono la risposta a un componimento satirico che quest'ultimo aveva indirizzato al F. durante un suo breve soggiorno a Venezia, dove si era recato probabilmente per questioni di affari. Il Monachi aveva chiesto consiglio all'amico su come comportarsi in una città dove le abitudini e i costumi erano molto diversi da quelli fiorentini, e dove la convivenza civile era dominata, a suo avviso, piuttosto dall'arbitrio del singolo che dalla legge, in modo che nei rapporti di affari era più facile rimetterci che guadagnare. La risposta del F. si articola nei tre sonetti. Nel primo ("Poi che fortuna v'è tanto lunatica") il F. cerca di rincuorare l'amico di fronte alle difficoltà incontrate presso i Veneziani, gente senza regole e leggi, e infidi come gli ebrei. Il consiglio è quello di adeguarsi all'ambiente, per poter trascorrere senza troppa sofferenza quel periodo lontano da Firenze, con l'avvertenza però che, una volta tornato, dovrà abbandonare "ogni nuovo costume" appreso "per vivere meno male co' veneziani". Nel secondo sonetto ("I' veggo, ser Ventura, la matricola") il F. insiste affinché il Monachi abbandoni tutti i savi costumi finora praticati e si adegui alla nuova realtà. Se è generoso sarà ricambiato con onori, è questo il miglior modo per vivere a Venezia. Nel terzo componimento ("Ventura, i' sento di quella panatica") si fa ancora riferimento alla differenza tra i costumi veneziani e quelli fiorentini: i Veneziani vengono definiti gente pazza che segue il vizio e perseguita la virtù. Il Monachi non deve far trasparire - come il monaco dentro la tonaca - i suoi sentimenti, ma seguire sempre la logica e la razionalità. Quando si recherà a Venezia, il F. stesso glielo mostrerà nella pratica.
I sonetti del F. sono pubblicati in M. Pelaez, Rime antiche italiane secondo la lezione del cod. Vaticano 3214 e del cod. Casanatense D.V.5, Bologna 1895, pp. 367 s.; i tre sonetti della corripondenza con il Monachi anche in V. Monachi, Sonetti editi e inediti, a cura di A. Mabellini, Torino 19o3, pp. 41, 45, 48.
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