VERDURA, Giovanni Francesco
– Nacque a Messina in data ignota, presumibilmente agli inizi del XVI secolo, da Pietro, patritius Messanensis, e da una donna il cui nome è sconosciuto.
Studiò legge a Messina e Roma; ottenne però il titolo dottorale in utroque iure solo in tarda età, il 5 maggio 1570 a Pisa. È attestato come canonico del capitolo metropolitano di Messina dal 18 giugno 1527. Nel 1533 fu giudice delegato, in quella città, della Regia Monarchia. Nel 1538, durante la sede vacante per la morte dell’arcivescovo peloritano Antonio De Lignamine (o La Lignamine), fu vicario ebdomadario del capitolo.
Oltre a scalare la carriera ecclesiastica fu esponente dei circoli culturali messinesi dell’epoca (tra cui l’Accademia della Fucina) ed ebbe certamente stretti rapporti con Francesco Maurolico; negli anni Trenta fu autore di epigrammi latini, tra cui un componimento nel De situ insulae Siciliae di Claudio Maria Arezzo (Messina, P. Spira, 1537) dedicato ad Arezzo stesso, e nel 1537 curò l’edizione a stampa dei Consilia pheudalia di Guglielmo Perno (Messina). Negli anni Quaranta fu anche vicario in spiritualibus e in temporalibus dell’archimandrita del SS. Salvatore di Messina Annibale Spatafora. In tale veste l’8 settembre 1547 emanò capitoli e ordinanze da osservare nella terra archimandritale di S. Angelo (di Brolo), ottemperando ai decreti delle prime sessioni del Concilio di Trento.
Almeno dal 1546 fu saltuariamente a Roma, ove con il concittadino Bartolomeo Spatafora (parente dell’archimandrita), di cui era amico, entrò nel circolo degli spirituali di Vittoria Colonna ed ebbe presentato Pietro Carnesecchi, che anni dopo (nel 1557) lo avrebbe definito uno degli ‘eletti’. Verdura aderì quindi al pensiero valdesiano anche attraverso Giulia Gonzaga, che di lui volle sovente informazioni e che gli prestò aiuto quando fu sottoposto alle indagini inquisitoriali. Sempre nella metà degli anni Quaranta Verdura, assieme a Spatafora, all’archimandrita Annibale e ad altri spirituali, fu ammesso nella Compagnia di S. Basilio (detta degli Azzurri) di Messina, che costituiva allora il principale centro propulsore di idee eterodosse nella città dello Stretto. Nel 1547 agì a Roma per conto del Senato di Messina nella ricerca e nella contrattualizzazione di Giovanni Angelo Montorsoli per la realizzazione della fontana detta di Orione, nella piazza antistante la cattedrale di Messina, il cui programma iconografico era stato redatto da Maurolico.
Grazie alla buona rete relazionale che era riuscito a tessere intorno a sé, e soprattutto per i buoni uffici di Spatafora, la cui famiglia aveva rapporti con la Repubblica di Venezia da alcuni anni e il cui zio-suocero Giacomo era console dei veneziani a Messina, Verdura il 7 giugno 1549 fu eletto vescovo di Chirone (o Chersoneso, nell’isola di Creta, allora appunto dominio veneziano), la cui diocesi dal 1543 era unita a quella di Milopotamo e retta da Dionigi Zannettini (detto il Grechetto). Nell’anno dell’elezione all’episcopato Verdura era a Roma ed ebbe modo di instaurare un rapporto di fiducia con Ignazio di Loyola – che lo definì «tanto qualificato et studioso» (Monumenta Ignatiana..., 1904, p. 440, lettera del 21 giugno 1549) – sì da convincerlo a permettere che un gesuita potesse confessare e dirigere spiritualmente le monache cistercensi di S. Maria dell’Alto, ove era badessa Bartolomea Spatafora, zia di Bartolomeo.
Tra il 1551 e il 1552 partecipò alle sessioni XII-XVI del Concilio di Trento. Dopo il decreto di sospensione del concilio nell’estate del 1552 aiutò il cardinale Francesco Pisani nella gestione delle diocesi di Padova e Treviso.
Allo stesso anno risale la prima inchiesta condotta dal S. Uffizio nei suoi confronti: fu denunciato alla Curia romana dall’inquisitore di Sicilia Bartolomeo Sebastian prima del 10 febbraio 1552. Trovandosi a Venezia Verdura fu posto sotto osservazione dal nunzio presso la Serenissima Ludovico Beccadelli, che nel settembre lo trattenne in reclusione nel monastero dei Servi. Tuttavia lo stesso Beccadelli, già segretario di altri spirituali, i cardinali Gasparo Contarini e Reginald Pole, lo difese a più riprese. In una missiva al cardinale Innocenzo Del Monte, favorito di papa Giulio III, riferì come il cardinale Pisani gli avesse segnalato che Verdura era oggetto di una persecuzione orchestrata dal Grechetto, perché questi voleva trattenere a sé le rendite della diocesi di Chirone e impedire al suo successore di muovergli causa per aver alienato molti beni di quella Chiesa, onde l’accusa di eresia.
Il 15 settembre Verdura fu convocato a Roma e partì da Venezia l’8 ottobre; lo stesso giorno Beccadelli scrisse ai cardinali Giovanni Andrea Mercurio, che ben conosceva l’inquisito (essendo suo concittadino, arcivescovo di Messina e come lui già canonico di quel capitolo cattedrale), e Fabio Mignanelli per raccomandare loro il presunto reo. Lo stesso Pisani, poi, si mosse in prima persona presso il cardinale Marcello Cervini (membro dell’Inquisizione e poi papa Marcello II), il quale a sua volta mal sopportava le pressioni ricevute dal nunzio a Venezia (sebbene gli rispondesse che non avrebbe mosso alcun torto a Verdura).
Giunto a Roma Verdura fu interrogato da Girolamo Federici, assessore al S. Uffizio; dopo l’inchiesta repetitiva iniziata in Sicilia il 5 dicembre, il processo si concluse velocemente – forse per intervento di Giulio III che voleva sottrarre un vescovo all’Inquisizione – e il 16 marzo 1553 Verdura tornò in libertà con l’obbligo di ripresentarsi sub poena confessi; la purgazione canonica del 9 maggio gli evitò la condanna.
Tornato in Veneto fu nuovamente a servizio del cardinale Pisani, che lo ebbe come suffraganeo a Treviso continuativamente dal 10 marzo 1554 al 29 dicembre 1556 e occasionalmente negli anni successivi. Tra le azioni compiute nella diocesi trevigiana va ricordato che nell’arco di soli tre mesi Verdura compì la visita pastorale in tutte le parrocchie della diocesi; la indisse il 6 settembre 1554 e la iniziò da Mestre tre giorni dopo.
I sospetti sulla sua vicinanza agli ambienti valdesiani riemersero durante il pontificato di Paolo IV. Verdura fu nuovamente preso di mira dal S. Uffizio nel 1557: alla fine di giugno tentò una fuga da Roma verso Messina, ove sarebbe stato nascosto da Violante Spatafora, moglie di Bartolomeo, che copriva gli amici valdesiani del marito con il lontano supporto di Carnesecchi e di Gonzaga. Verdura era ancora in libertà nel settembre di quell’anno, forse a Messina; tuttavia, nell’agosto del 1558 era già imprigionato nelle carceri di Ripetta a Roma, dove condivise la cella con l’agostiniano Andrea Ghetti da Volterra, anch’egli recluso per eresia (il quale però riusciva a far giungere missive a Gonzaga), e con Spatafora (arrestato nel 1556). Alla morte di Paolo IV, nell’agosto del 1559, il popolo romano assaltò le carceri e liberò i prigionieri, tra cui Verdura.
Tornato in libertà fu rapidamente riabilitato: il 4 febbraio 1560 si aprì l’istruttoria per la sua assoluzione, che giunse il 7 marzo. A prova della sua immediata reintegrazione nei ranghi della gerarchia ecclesiastica il 2 febbraio 1560 ricevette in commenda la parrocchia di S. Giuliano di Messina; già quattro anni prima (luglio 1556) aveva richiesto per il suo sostentamento un priorato nella sua diocesi di origine al cardinale Giovanni Andrea Mercurio, che però allora gli rispose negativamente. Partecipò quindi attivamente alle ultime sessioni del Concilio di Trento, dove arrivò il 9 maggio 1562. Tra il 1567 e il 1570 fu protagonista di una causa, condotta prima in nunziatura a Venezia e quindi a Roma dinanzi al papa, per il recupero delle rendite e dei beni della diocesi di Chirone, che gli erano stati sequestrati (come a tutti gli altri vescovi non residenti) per l’assenza dalla sede diocesana.
Tale procedimento si dilungò prima per il diniego del Grechetto (che era rimasto amministratore di Chirone) a cedere le rendite, finché il 6 dicembre 1567 Pio V ottenne il rilascio dei beni; nel 1568, poi, il papa pretese di confermare una pensione sull’arcidiocesi di Bari, che il re di Napoli aveva assegnato a Verdura (che pur aveva altri benefici, tra cui uno sostanzioso in Calabria), solo se egli avesse rinunciato a Chirone; infine, nel 1569, si dovette attendere che la decisione del 1567 fosse esecutiva.
Verdura rientrò quindi in possesso delle rendite di Chirone nel giugno del 1570; partì quindi verso Creta ma morì, durante il viaggio, il 14 dicembre 1570.
È presumibile che il suo corpo sia stato trasportato a Messina, dove in cattedrale esistette almeno fino alla fine del Cinquecento un sepolcro detto «fossa de li Verduri».
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