RAO, Giovanni Francesco
RAO, Giovanni Francesco. – Nacque a Taormina nel 1533 da Francesco, dottore in legge di origini messinesi, e da Antonia Grugno, nobile di Taormina dalla cui famiglia Rao ricevette per donazione (nel 1577) le terre allodiali di San Filippo e Marzacchina.
Le ascendenze familiari, soprattutto nel ramo paterno, indirizzarono gli studi e la carriera di Rao verso l’esercizio dell’attività forense. Dagli anni Settanta iniziò la scalata verso le posizioni di vertice all’interno delle magistrature siciliane. Un cursus honorum fatto da tappe serrate che contrassegnarono la carriera di uno dei più potenti oltre che emblematici rappresentanti di quel ceto togato che, all’indomani della riforma dei tribunali del 1569, costituì una vera casta centrale nel governo dell’isola a fianco del viceré, ma allo stesso tempo mai realmente indipendente dalla nobiltà feudale nelle cui fila a poco a poco andò a confluire.
Tra il 1572 e il 1578 Rao fu giudice stratigoziale della città di Messina per tre volte. Quasi parallelamente ricoprì cariche di rilievo nei supremi tribunali del Regno. In particolare, fu giudice della Regia Gran Corte in sede civile dal 1573 al 1575 e dal 1579 al 1581; presidente del tribunale del Real Patrimonio, oltre che avvocato fiscale della Regia Gran Corte in sede criminale. Proprio in ragione di quest’ultimo ufficio, divenne uno dei più stretti collaboratori del viceré Marco Antonio Colonna. La vicinanza al viceré e la condivisione della sua politica, costarono a Rao il coinvolgimento nella visita organizzata in Sicilia dal governo di Madrid nel 1583.
L’istituto della visita, introdotto per la prima volta a Napoli nel 1533, venne esteso a tutti i domini italiani della Corona spagnola entro la prima metà del secolo. Il visitatore era un ministro non nazionale il quale, mettendo in atto una procedura di stampo inquisitorio, svolgeva un’inchiesta straordinaria su tutti i ministri e ufficiali, a eccezione del viceré. Lo scopo dichiarato era quello di accertare come i funzionari locali avessero esercitato le loro cariche, ma nei fatti l’istituto si prestò con il tempo a prevalenti finalità politiche, spesso di censura nei confronti dei viceré, colpiti indirettamente dalle visite nei confronti dei propri collaboratori di governo.
Quella iniziata da Gregorio Bravo de Sotomayor nel 1583 in Sicilia fu una visita sollecitata dagli ambienti della corte madrilena ostili a Marco Antonio Colonna e collegati all’Inquisizione. Il viceré, infatti, si era apertamente schierato contro il tribunale del S. Uffizio e le usurpazioni da esso perpetrate a danno della giurisdizione dei tribunali regi. Così, con la visita si volle colpire il viceré attraverso i suoi più stretti collaboratori, il cugino Pompeo Colonna, strategoto di Messina, Luca Cifuentes, presidente della Gran Corte, ma soprattutto i due più esposti ministri del partito viceregio: Rao e Alfonso de Franchis, rispettivamente avvocato e procuratore fiscale della Gran Corte. Proprio questi ultimi, in un memoriale inviato a Madrid dopo la morte di Colonna, nell’agosto del 1584, ricusarono il visitatore Bravo de Sotomayor in quanto reputato «suspettissimo» nei loro confronti. In particolare, veniva contestata al visitatore la notoria inimicizia nei confronti del viceré, oltre allo stretto rapporto di collaborazione con il partito inquisitoriale. Le motivazioni addotte dai due ministri, perorate convintamente dal reggente del Consiglio d’Italia a Madrid Pedro de León, sortirono il loro effetto. Anche grazie alle accuse non connesse direttamente al loro ufficio, quanto piuttosto all’esecuzione degli ordini ricevuti da Colonna, i due magistrati furono sottoposti a pene scarsamente afflittive rispetto alle ben più gravi richieste di condanna del visitatore. Con le sentenze del 1588 Rao fu sottoposto a una pena pecuniaria di ottocento scudi e alla sospensione di sei mesi dal proprio ufficio, mentre de Franchis patì soltanto un’ammenda di seicento scudi.
Superate le difficoltà connesse alla visita, Rao nell’ultimo decennio del secolo raggiunse la carica più elevata nella gerarchia delle magistrature del Regno. Nel 1590, alla morte del presidente Luca Cifuentes, ricoprì l’interim della presidenza della Gran Corte, conferita a Modesto Gambacorta, per poi acquisire nel 1593 la titolarità dell’ufficio che resse fino alla morte.
Rao amministrò il tribunale in maniera autoritaria, ostentando l’onnipotenza di un sommo magistrato che gestiva la giustizia al fine primario di arricchire se stesso e la propria famiglia. In tal senso, indirizzava le sentenze dei giudici biennali, commetteva intimidazioni nei confronti di quegli ufficiali che non si piegavano al suo volere, vendeva illecitamente uffici giudiziari subalterni, riceveva spesso denaro e regali dalle parti in lite. Nel 1600 acquistò dal marchese di Geraci la baronia di Gallina. Agli inizi del XVII secolo, il patrimonio di Rao, modesto fino alla nomina a presidente della Regia Gran Corte, fu stimato nella ragguardevole cifra di 60.000 scudi, distribuiti tra feudi, terre, case, rendite, mobili e ornamenti preziosi. Fu altresì deputato del Regno nel 1594, 1597, 1603 e infine nel 1609.
Un potere, quello di Rao, che, originando dalle alte cariche magistratuali ricoperte, attraverso scambi illeciti di favori, frutto di un uso personalistico della giustizia, riuscì a cementare una rete di clientele utili a irradiare tale potere anche in ambito economico e politico. Ma un’altra ambizione guidò le sue spregiudicate mosse, vale a dire il desiderio di inserire la propria discendenza tra i ranghi della nobiltà siciliana. Per far ciò mise in atto un’attenta politica matrimoniale per i figli. Già dal tempo in cui era avvocato fiscale della Regia Gran Corte, aveva fatto sequestrare, al fine di costringerlo a sposare una sua figlia, il quattordicenne barone della Monica. Diede un’altra figlia in sposa al primogenito del barone di Spaccaforno Ercole Statella, promettendo a quest’ultimo favori di natura giudiziale utili a salvarne il disastrato patrimonio, in cambio del consenso al matrimonio. Simile scambio di favori condusse al matrimonio tra Anna, figlia del principe di Buscemi Francesco Requesnes, con il terzogenito Giuseppe Rao. Infine, l’ultimo figlio, Ludovico, maestro razionale del Patrimonio, sposò una ricca orfana di Castrogiovanni.
Le estorsioni e le violenze di cui si rese protagonista Rao, oltre ai comportamenti del figlio Vincenzo, colpevole ma mai punito per crimini di natura sessuale e omicidio, suscitarono scandalo e accuse circostanziate che giunsero sino a Madrid. Nel 1603 fu commissionata al reggente del Sacro Regio Consiglio di Napoli, Giovanni Tommaso Salamanca, una visita particolare nei confronti di Rao. Quella che formalmente doveva essere una visita, in realtà era stata concepita come un modo per scagionare Rao dalle accuse ascrittegli e salvaguardarne l’immagine di limpido e autorevole uomo di legge. Il visitatore non venne nemmeno munito del potere di sospendere l’inquisito dall’ufficio: da ciò derivò l’impossibilità stessa di svolgere l’istruttoria, stante l’assenza di testimoni disposti a deporre contro un così potente e vendicativo personaggio. Salamanca, preso atto della protezione assicurata a Rao sia all’interno della corte madrilena sia in Sicilia dal viceré Lorenzo Suarez Figueroa duca di Feria, abbandonò l’incarico.
Nella visita generale del Regno condotta da don Ochoa de Luyando tra il 1605 e il 1609, Rao risultò uno degli amministratori locali più coinvolti. Nelle susseguenti sentenze del 1614, di cui il viceré duca di Osuna non diede pubblica lettura, fu considerato colpevole di venticinque delitti, su un totale di sessantadue imputazioni. Le pene a cui sia Rao sia gli altri ministri ritenuti colpevoli vennero condannati furono comunque esclusivamente pecuniarie.
Nonostante rimanesse un magistrato discusso e controverso, egli conservò il suo ufficio di presidente della Regia Gran Corte; negli ultimi anni di vita la complessità del suo personaggio si arricchì di un ulteriore connotato, una spiccata devozione cattolica. In pieno spirito controriformistico e a fini salvifici, entrò ottantaduenne nella Compagnia di Gesù quale fratello laico. Pronunciò i voti solenni poco prima della morte che lo colse a Palermo il 20 dicembre 1618.
Fonti e Bibl.: G.E. Di Blasi, Storia cronologica dei viceré luogotenenti e presidenti del regno di Sicilia. Seguita da un’appendice fino a gennaio 1862, Palermo 1880, pp. 260 s.; A. Mango di Casalgerardo, Il nobiliario di Sicilia, Palermo 1912-1915, pp. 99 s.; F. San Martino De Spucches, Storia dei feudi di Sicilia, Palermo 1924-1941, II, p. 428; III, pp. 235, 420; P. Burgarella - G. Fallico, L’archivio dei visitatori generali di Sicilia, Roma 1977, pp. 56 s., 61 s.; V. Sciuti Russi, Astrea in Sicilia. Il ministero togato nella società siciliana dei secoli XVI e XVII, Napoli 1983, pp. 159-163, 194-199, 212; N. Bazzano, Marco Antonio Colonna, Roma 2003, pp. 242, 296, 322; B. Pomara Saverino, Bandolerismo, violencia y justicia en la Sicilia barroca, Madrid 2011, pp. 122-130; L. De Nardi, Oltre il cerimoniale dei viceré. Le dinamiche istituzionali nella Sicilia barocca, Padova 2014, p. 107.