COMMENDONE, Giovanni Francesco
Nacque a Venezia il 17 marzo 1524 da Antonio, di famiglia originaria del Bergamasco, medico e cultore di studi umanistici, e dalla nobile Laura Barbarigo, spinta a un matrimonio di ripiego da un fratello che non voleva dotarla convenientemente. Fu il primo di quattro figli; il padre gli fece impartire da buoni maestri un'istruzione accurata. Di applicazione precoce (a dieci anni componeva versi latini), studiò a Padova filosofia, leggendo con cura i testi platonici. Alla morte del padre, nel 1543, dovette affrontare gravi difficoltà, provvedendo ai familiari senza alcun soccorso da parte del Barbarigo, e per di più afflitto da una malattia della vista. Si dedicò quindi all'avvocatura: egli difese di fronte al podestà alcuni studenti padovani, che nei conflitti per l'elezione del rettore avevano assalito e ucciso nella sua abitazione un collega di nazionalità francese, insieme con due servitori. Il giovane C. riuscì a strapparli alla pena capitale: sostenendo che la loro colpa era "puro omicidio", non "assassinio premeditato" né tantomeno reato contro l'ordine sociale e religioso, egli chiese e ottenne un trattamento di clemenza. Nel 1550 si recò per la prima volta a Roma durante il giubileo indetto da Giulio III, spinto verso la corte pontificia dal prelato e umanista Alvise Corner, col quale mantenne a lungo un rapporto amichevole. Tornato a Venezia, rinunciò all'idea di prendere moglie e di entrare nel numero dei segretari della Repubblica: trovandosi in condizioni d'inferiorità rispetto ai coetanei nobili, giudicava di non avere in patria sufficienti prospettive di affermazione personale. L'anno seguente, ottenuti due benefici ecclesiastici nel contado patavino con un reddito annuo di 300 ducati, si trasferì a Roma. Presentato dall'ambasciatore Niccolò Da Ponte, futuro doge, fu accolto da Giulio III nella famiglia pontificia. Si accostò al severo cardinale Pietro Carafa e strinse amicizia con un gruppo di letterati: Annibal Caro, Giulio Poggiani, Guglielmo Sirleto e Paolo Manuzio. Insieme alle conversazioni letterarie e all'esperienza della vita romana, riprese e portò a conclusione gli studi, conseguendo a Padova nel 1552 il dottorato in diritto civile.
Il Caro lo diceva "gentiluomo molto raro e cortese, e tanto mio amico e signore che niun altro m'è più"; le sue lettere familiari al C., che abbracciano gli anni 1552-66, sono una testimonianza continua di stima e di affettuosa solidarietà, assumendo a volte un tono confidenziale. Più tardi il C. seguì la clamorosa polemica Caro-Castelvetro e fu bene al corrente delle vicende connesse alla pubblicazione dell'Apologia, che doveva procurare ai fratelli Ludovico e Giovanni Maria Castelvetro lo scontro con l'Inquisizione e l'esilio. Sul finire del 1560 Annibal Caro dedicò all'autorevole diplomatico, in partenza per la Germania, un sonetto colmo di iperboli, che iniziava: "Commendon, che di lume oggi e di moto / Ven gite, a Febo e d'armonia simile...".
Dell'ampia produzione letteraria del C. sono conosciuti modesti frammenti, essenzialmente alcuni versi latini composti per richiamare l'attenzione e guadagnare la benevolenza di Giulio III, destinati ad essere incisi negli horti della famiglia Dal Monte fuori porta Flaminia.
Il carme più significativo descrive la statua di una vergine immersa nel sonno, ornamento di una fonte purissima. Si apre con un'immagine seducente ("Nympha loci niveosque sinus pectusque pudicum tecta iacet, crines fusa, supina caput...") e termina d'improvviso con un invito perentorio: "Virgo puella, virgo aqua est. Aut purus hospes adi, aut abi". Sempre nell'ambiente dei letterati romani andò maturando l'ideale retorico che il C. volle poi attuare nelle sue orazioni ufficiali, teso allo splendore del linguaggio e alla varietà di concetti e simboli (Poggiani, Epistolae, I, pp. 324-327; III, pp. 63-64; A. M. Graziani, Ad cardinalem Commendonum de Iulio Pogiano atque eius Latinis litteris epistola, a cura di G. Lagomarsini, Romae 1756).
Le idee politiche del C. riflettevano l'apologia corrente della costituzione mista di Venezia, che "il reggimento de la republica e del principato in perfetta e meravigliosa forma contempera" (orazione per Francesco Donà, eletto doge nel novembre 1545: Dell'orazioni volgarmente scritte..., Venezia 1569, II, f. 130v). L'esperienza romana arricchì questo schema iniziale e accentuò un austero repubblicanesimo, tendente a negare il privilegio della nascita e del censo, e a sostenere il riconoscimento della dottrina e della virtù.
Tali concetti trovarono espressione in un saggio sulla corte di Roma, destinato evidentemente a un pubblico ristretto, articolato in due parti principali: la prima sullo Stato ecclesiastico e sulla riforma nell'ordine temporale e spirituale, la seconda sulla figura del cortigiano e sulle possibilità di carriera al servizio del papa o dei cardinali. Lo Stato pontificio è una mescolanza di varie forme di governo, ma trae forza dall'azione vivificante del solo principio aristocratico. Il potere del papa, principe "nuovo" e non ereditario, è naturalmente temperato dall'influenza del cardinali elettori: "Per l'esservi un prencipe assoluto [non] si distrugge e si muta lo stato sì che non vi rimanga republica: primo perché egli è prencipe eletto, poi perché, essendo l'assunzione legitima e senza arme, e dissimile a quella che negl'antichi tempi si soleva fare dell'imperatore e ne' moderni del soldano, la sproporzione che è dall'ordine dal quale il pontefice s'elegge al grado nel quale è collocato et il benefizio nuovamente fattogli da' cardinali l'inducono come nuovo et obligato a rimetter molto della sua autorità, infin tanto che col tempo non si perde la memoria dell'egualità passata". Se l'esito imprevedibile delle elezioni ("molte volte riesce prencipe chi manco se l'aspetta") può sollevare ai vertici dello Stato persone indegne, conferendo all'intero sistema un tratto negativo di repubblica popolare, è anche vero, tuttavia, che lo Stato pontificio presenta altri caratteri, "pertinenti a miglior forma di republica". Infatti è sempre necessario, dopo ogni elezione, procedere al reclutamento di funzionari di buona cultura e formazione giuridica, fuori di qualsiasi privilegio e protezione: "Il pontefice, come è fatto, ha bisogno d'uomini per la secretaria e per le faccende dello Stato, e non ne avendo de' suoi a bastanza per la sproporzione dallo stato suo primo al pontificato et andando la cosa per gradi, i ricchi non possono o non vogliono tolerare la fatica né gl'illustri abbassarsi, e li dipendenti dagl'altri prencipi in molte cose mancano di confidenza; per il che le virtù, in qualunque persona e dovunque nata, è possente a mettersi innanzi" (Roma, Bibl. Casanatense, ms. 2371, ff. 21v-22v).
La critica del C. si rivolge contro il nepotismo che ostacola l'affermazione del merito personale, oscurando il carattere originario dello Stato: "Si è gradualmente alterata l'aristocrazia, sì perché è cessata in gran parte l'elezione degli uomini valorosi, e perché la maggior parte degli onori e dei benefici si fanno ereditari e si ritengono molto tempo in una famiglia e se ne uniscono molti in una persona sola" (ibid., ff. 27v-28r); "il primo mancamento si commette volgendo la prudenza in astuzia e torcendo la ragione... al servizio de' parenti e de' servitori, con molte permissioni e grazie et alienazioni che si fanno e concedono fuori del fine della Chiesa e contra il beneficio publico..., perché i pontefici, essendo uomini et avendo dinanzi invecchiati essempi, facil cosa è che, vinti ancora da questa carne, si lascino, dietro a quelli caminando, trasviare; alla qual cosa pensando, i legislatori nell'isola Taprobane ordinarono che colui solamente potesse essere eletto re che non avea figliuoli, e che il medesimo dovesse essere deposto se dopo l'elezione gliene fossero nati" (ibid., f. 32r). Nasce quindi un forte impulso riformatore, che punta alla restituzione della disciplina e alla restaurazione della libertà ecclesiastica, sopraffatte dalle ingerenze del potere secolare. La Sede apostolica, in quanto "stomaco" della Chiesa universale, "deve esser la prima a purgarsi per non andare tuttavia riempiendo il corpo de' mali umori", e come "capo" della stessa "deve volere e commandare et indurre gl'altri, così prencipi come privati, a spogliarsi di quella autorità che ingiustamente o indebitamente, se pure è stata loro conceduta dai pontefici, hanno sopra le cose pertinenti alla Chiesa" (ibid., f. 54r). Sebbene consideri indispensabile un rinnovamento del diritto canonico (ibid., f. 57v), il C. giudica che la riforma debba essere in primo luogo interiore; ed è acutamente consapevole delle difficoltà che la ostacolano, per la carenza di ecclesiastici validi (ibid., ff. 51v-52r).
Se la prima parte dello scritto s'intona a un severo riformismo, la seconda è animata da un'ispirazione diversa. La satira delle facili illusioni cortigiane e del successo affidato alla mutevole sorte è sorretta da una sottile ironia: "Comunque altri si metta al servizio della corte, non deve tanto confidare nella sua prudenza che si presuma di vincere ogni avversità, né tanto trascurare le cose che si commetta in tutto alla sorte, ma pensare che questo sia un viaggio di mare nel quale, benché la prudenza possa molto e ci renda favorevole la maggior parte de' venti, nondimeno non gli si possa prescrivere tempo determinato o certezza alcuna d'arrivar salvo dove altri disegna; perciò che alcuni, di mezza estate, in gagliarda e ben fornita nave, affondano o tardano assai, altri, di verno et in debole e disarmato legno, vanno presti e sicuri. Perciò che tutta questa maniera di vita è posta in un mare di cose mutabili, che spesso avvengono e sempre possono avvenire: infermità, perdita di robba, mutamento de' tempi, calunnie, sospetti così di noi come de' padroni, et appresso nei padroni qualche mutazione de' costumi e dell'altre cose sudette, e finalmente la morte" (ibid., f. 70rv). In sostanza, l'atteggiamento migliore è quello di un distaccato equilibrio. Ma soprattutto è indispensabile accettare, con i vantaggi, anche le miserie della vita di corte: sarebbe un errore imperdonabile "non voler tollerare quel male che la corte di sua natura porta seco..., atteso che chiunque entra nella milizia o nella corte consente e si obliga incontinente al bene et al male che vi è, et a sopportare l'imperfezioni che vi sono" (ibid., f. 94r). Ricorre più volte il tema della povertà e della ricchezza: se è vero che i beni di fortuna consentono di comprare gli uffici agendo sull'avarizia dei parenti del papa (ibid., f. 64v), tuttavia la condizione migliore, in ultima analisi, è quella di un moderato benessere, che metta al riparo dal bisogno e stimoli al tempo stesso l'ingegno: "I mediocri sono più atti ai negozi et all'imprese, senza ch'essi per lo più hanno maggior parte che i ricchi delle buone qualità dell'animo; e questi mediocri intendo che un gentiluomo abbia tanto dei beni della fortuna che possa vivere e vestire e comparire fra gl'altri modestamente e commodamente" (ibid., f. 97r).
Appena ultimati gli studi giuridici, il C. fu incaricato, sul principio del 1553, di consegnare al duca di Urbino Guidobaldo Il la nomina a capitano generale della Chiesa. Nello stesso anno ebbe occasione di segnalarsi in un primo ufficio di rilievo. Segretario del cardinale Girolamo Dandino, nunzio in Fiandra presso l'imperatore Carlo V, fu da lui incaricato nell'agosto di spingersi in Inghilterra per valutare, dopo l'avvento di Maria Tudor, la possibilità di avviare trattative con quella corte.
Giunto a Londra in incognito, ottenne, grazie al rappresentante veneto, un colloquio segreto con la regina: accertò la disposizione favorevole di costei, ma colse anche lucidamente l'esistenza di una diffusa e profonda ostilità antiromana. Esponendo prima al Dandino e confermando poi in concistoro (15 sett. 1553) i risultati della sua missione informativa, contribuì alla decisione della Curia di ritardare l'invio in Inghilterra, del cardinale Reginald Pole.
Apprezzato e stimato, il C. ebbe incarico l'anno seguente di presentare a Giovanni III di Portogallo le condoglianze per la morte del principe ereditario, e al tempo stesso le felicitazioni per la nascita del nuovo erede. Impiegato da Paolo IV nella segreteria di Stato per la corrispondenza italiana, egli ottenne il rango di protonotario e la dignità di vescovo di Zante e Cefalonia (25 ott. 1555). Partito al seguito del cardinale Scipione Rebiba, legato a Bruxelles per i negoziati franco-imperiali, fu richiamato al momento della rottura con la Spagna e incaricato (settembre 1556) di sollecitare l'adesione di Venezia, Ferrara e Parma a una lega di principi italiani.
Ottenne però scarsi risultati e fu sospettato di agire senza l'energia necessaria per indurre i Veneziani a uscire dalla neutralità: "Monsignor Commendone non possette condurre la signoria di Venezia più oltre che a mandar un secretario al duca d'Alva per essortarlo a nome di quella republica che fussi contento di posar l'anne e desistere da quella impresa", scriveva il 23 ott. 1556 il cardinale Carlo Carafa, nipote del pontefice (Nonciatures de France, I, p. 480).
Caduto in disgrazia del suo antico protettore Paolo IV e allontanato dagli uffici, tornò agli studi per dedicarsi a un trattato De iure Romani imperii ad Germanos translati, de pontificum maximorum potestate ac conciliorum, nel quale (come riferisce Graziani) era negata la validità della elezione imperiale senza la consacrazione pontificia. La notizia della morte di Paolo IV lo raggiunse mentre era in viaggio per Venezia, intenzionato a recarsi nella sede episcopale di Zante; subito fece ritorno a Roma, dove Pio IV lo riammise nella segreteria di Stato, dispensandolo contemporaneamente dall'obbligo di residenza nella sua diocesi.
Sul finire del 1560 ebbe incarico di presentare all'imperatore Ferdinando I la bolla di convocazione del concilio a Trento; doveva poi intimare il concilio ai principi della Germania settentrionale, dei Paesi Bassi e della Renania, sia cattolici che protestanti. Ebbe la prima udienza a Vienna il 5 genn. 1561, insieme con il cardinale Stanislao Osio e il vescovo di Lesina Zaccaria Delfino, residente presso l'imperatore ma destinato in quella circostanza ad agire nelle regioni tedesche del Centro e del Sud. Il C. e il Delfino furono invitati a Naumburg, in Sassonia, per assistere alla Dieta dei principi dell'Impero, dove comparvero il 5 febbraio; ma la reazione dei principi fu negativa, richiamandosi all'osservanza della confessione augustana. Il C. proseguì per Lipsia, dove fu ricevuto dall'elettore Augusto di Sassonia; passò quindi a Berlino da Gioacchino Il di Brandeburgo, a Wolfenbüttel da Enrico di Brunswick (che, lui solo, promise l'invio di rappresentanti al concilio), a Paderborn e a Münster, a Colonia e a Treviri. L'ingrato viaggio proseguì verso i Paesi Bassi e la Fiandra, con un subitaneo progetto di diversione scandinava che fallì per la freddezza dei sovrani interpellati: Federico II di Danimarca gli negò l'ingresso, mentre Enrico XIV di Svezia gli fece pervenire un salvacondotto, avvisandolo però che si accingeva a lasciare Stoccolma per recarsi in Inghilterra., Nel novembre 1561 il C. fu raggiunto a Bruxelles da nuove direttive del card. Carlo Borromeo, che ne sollecitavano il ritorno. Dopo una sosta a Nancy presso il duca Carlo II di Lorena, egli attraversò rapidamente la Renania, la Franconia e la Baviera, per rientrare infine a Trento nel marzo 1562.
La relazione del C. a Pio IV, composta nella primavera del 1562, denunciava la condizione "disperata" della Germania. Il partito cattolico resta superiore di forze, contando in esso gli Stati dell'imperatore ed i Paesi Bassi spagnoli, ma è disunito e indebolito dalla penetrazione nemica; i protestanti invece, pur divisi sul piano dottrinale, sono animati da una stessa volontà di lotta contro la supremazia romana. La relazione elencava una serie di misure, distinte in due categorie: i "rimedi senza armi" e i "rimedi de la forza". Sconsigliava la via delle trattative con i principi, che giudicava priva di vigore e basata sulla falsa illusione che gli eretici stessi, stanchi delle contese religiose e civili, potessero ravvedersi e tornare spontaneamente all'unità della Chiesa. L'esperienza, invece, insegna che il tempo non porta giovamento, ma produce errori e deviazioni sempre più gravi da parte degli eretici: "Piegandosi continuamente la lor fede or qua or là, è necessario ch'infine si spezzi nel mezzo" e precipiti nell'empietà senza legge. Efficace è senza dubbio l'opera dei buoni predicatori, soprattutto della Compagnia di Gesù; ma anche questa è una via lenta e difficile, inadeguata alla violenza del male. Sulle prospettive conciliari, il C. manifestava francamente il suo scetticismo. Il concilio è malvisto da cattolici e protestanti: questi ultimi poi, "standosi il concilio ne li termini ne' quali conviene che stia, non vi verranno e, se pur verranno, verranno o per protestare o per cavillare". Strumento di sicura validità è, invece, "una vera et efficace riforma..., e questa, quanto sarà maggiore, tanto senza dubio sarà migliore e più utile; perché altrimenti ogni cosa va a terra, securis ad radicem posita est". Quanto alle misure di natura politica, esse consistono da una parte nella restaurazione del potere all'interno di ciascun principato cattolico, e dall'altra nella creazione di un sistema organico di alleanze. È necessario dunque, in primo luogo, "introducendo qualche riforma restituir per quanto si può la disciplina ecclesiastica e levar l'ardire agl'eretici di minacciare i cattolici e di favorire, come fanno impudentemente, gli vassalli contra il proprio principe"; e in secondo luogo fondare, accanto a quella già esistente di Franconia, un'altra lega cattolica nella Germania settentrionale, stringendo insieme il re di Spagna, l'elettore di Treviri ed il vescovo di Liegi. In conclusione, il C. consigliava di impiegare contemporaneamente i seguenti rimedi: "la compagnia de' iesuiti in Germania, un'intiera e perfetta riforma et una lega, prima fra alcuni principi di Germania e poi con gl'altri re e principi cattolici" (Nuntiaturberichte, s. 2, II, pp. 50-56).
La successiva attività del C. si esplicò in settori come l'Impero e la Polonia, entrambi essenziali per l'esito del confronto religioso e per le sorti dell'equilibrio politico in Europa. Nel gennaio 1563 tentò ad Innsbruck di scongiurare la minaccia di una pressione delle potenze cattoliche sul concilio. In Polonia fu inviato una prima volta, in qualità di nunzio, dopo il rientro di Berardo Bongiovanni. Raggiunse Cracovia il 21 nov. 1563, portandosi subito a Varsavia per intervenire alla Dieta. Aveva il compito di impedire la convocazione di un concilio nazionale, sul quale contavano sia Sigismondo Augusto, per ottenere lo scioglimento del suo vincolo matrimoniale con Caterina d'Asburgo, sia il primate Jakub Uchański, per trovare una sede idonea alla sua politica di mediazione e di intese con esponenti della nobiltà riformata. Ma doveva anche imporre i decreti del concilio, che solo una decisione dell'episcopato polacco nel suo complesso, presa in un sinodo provinciale, avrebbe potuto rendere operanti.
Alla Dieta di Parczów, nell'agosto 1564, il sovrano promise solennemente l'adozione dei decreti; ma i vescovi evitarono ancora a lungo di impegnarsi (fino al sinodo di Piotrków del 1577), mentre l'adesione dell'arcivescovo di Leopoli Paweł Tarło, espressa in un sinodo del novembre 1564 cui intervenne lo stesso nunzio, non fu altro che un episodio circoscritto. Quanto alla lotta contro l'eresia, il C. riprese un progetto già avanzato dal suo predecessore Bongiovanni, mirante all'espulsione degli stranieri eretici. Il progetto era condiviso dal cardinale Osio, convinto che non bisognasse colpire gli antitrinitari, perché questo avrebbe significato legittimare le altre confessioni e anzi liberare i riformati dalla concorrenza delle sette; anche Osio suggeriva, piuttosto, di scegliere un gruppo individuato e vulnerabile, che comprendesse però molteplici tendenze, come quello dei rifugiati stranieri. Ispirato dal nunzio (reduce da un prolungato soggiorno in Varmia, ospite di Osio), Sigismondo Augusto emanò un editto (Parczów, 7 agosto) che allontanava dal regno gli stranieri eretici; ma esso ebbe un'efficacia limitata, agendo in realtà solo contro gli antitrinitari italiani. Il C. continuò a prestare attenzione agli spostamenti dell'anziano Bernardino Ochino, in cerca di asilo presso nobili protettori; dal canto suo, Osio ebbe a lamentare gli effetti parziali e insoddisfacenti dell'editto di Parczów. Contemporaneamente il nunzio si impegnò a fondo per l'introduzione del gesuiti. "Io non nego", scriveva nell'ottobre 1564, "di esser desiderosissimo di servir alla Compagnia con tutto l'animo e d'adoperarmi in tutto quello che posso, ma nego bene di meritar per ciò alcuno ringraziamento... Né per certo io veggo in tanta desperazione delle cose ecclesiastiche miglior rimedio che i collegi della Compagnia" (Nadal, Epistolae, II, p. 655).
Nella sua intensa e molteplice attività, il C. si interessò anche a un ardito progetto concepito da un cittadino di Leopoli di origine fiorentina, Giovanni Tedaldi, che in gioventù si era spinto fino in Persia ed in Moscovia: si trattava di aprire una via fluviale lungo il Dniester per trasportare il grano polacco fino al Mar Nero e quindi a Venezia, ripristinando l'antica via commerciale del Levante per evitare quella per Danzica e per le città anseatiche. Il C. sollecitava lettere della Repubblica di Venezia per il bailo, offrendo di recarsi egli stesso a Costantinopoli per trattare la questione.
Ancora durante la nunziatura polacca, il C. fu elevato alla dignità di cardinale presbitero del titolo di S. Ciriaco.
Era stata decisiva la pressione allora esercitata in suo favore da Carlo Borromeo. "La Sua promozione è venuta veramente da Dio, e dal moto volontario di nostro signore e del reverendissimo Borromeo, ch'è tutt'uno", scriveva Annibal Caro nel porgere le sue congratulazioni (Caro, Lettere familiari, III, p. 226). Faceva eco il Poggiani: "Borromeo interprete, una Tibi suffragante virtute" (Poggiani, Epistolae, IV, p. 18).
Già designato da Pio IV come legato presso l'imperatore Massimiliano II, il C. abbandonò la Polonia sul finire del 1565; il 23 genn. 1566 fu confermato da Pio V nella qualità di legato alla Dieta imperiale. Partito con ampie facoltà, tra cui quelle di procedere contro apostati ed eretici e di concedere ai teologi la lettura di libri proibiti, giunse ad Augusta il 17 febbr. 1566, accompagnato da uno stuolo di consiglieri della Compagnia di Gesù. Ebbe la prima udienza tre giorni dopo l'arrivo, ricevendo da Massimiliano II assicurazioni di fedeltà al cattolicesimo. L'imperatore, che era stato contrario all'invio di un legato a latere per la Dieta, cercò di farlo richiamare" quia verendum est ne hoc rerum et temporum statu rebus religionis plus impedimenti quam utilitatis adferat, praesertim cum illi [al C.] tot praelati et iesuitae adiungantur ut spatium cuiusdam collegii theologici videantur relaturi" (Nuntiaturberichte, s. 2, V, p. 42).
Le istruzioni ricevute raccomandavano di impedire che nella Dieta fossero discussi problemi religiosi, di imporre ai vescovi gli obblighi pastorali, di favorire il ricorso a consiglieri teologici e l'istituzione di seminari diocesani, e infine di aprire i negoziati su una lega contro il pericolo turco. Il legato indusse i cattolici al rispetto della riforma tridentina, ma non poté evitare la conferma del compromesso religioso in Germania. Pietro Canisio, da lui consultato, rispose che un compromesso sul piano politico e non dogmatico poteva accettarsi in attesa di tempi migliori; Scipione Lancillotti espresse invece un parere contrario. Ma l'esigenza di evitare un conflitto rovinoso per le vestigia del cattolicesimo tedesco, avvertita dal nunzio ordinario e dall'ambasciatore spagnolo, ebbe infine il sopravvento. Anche il C. aveva compreso che Massimiliano II, sotto la minaccia ottomana, non poteva alienarsi i principi dell'Impero: decise pertanto di non dare corso alla protestatio, concepita dal Lancillotti, contro ogni atto imperiale che potesse convalidare la pace religiosa e pregiudicare le scelte del concilio di Trento. Il documento del Lancillotti avrebbe costituito, invece, il precedente della protesta elevata dal nunzio Fabio Chigi in chiusura del congresso di Münster.Una volta conclusi i lavori della Dieta, egli versò un sussidio di 50.000 scudi, destinati dal pontefice per la guerra al Turco; ai primi di giugno lasciò Augusta e rientrò in Italia. Fu ancora una volta alla corte di Vienna, per contrastare gli atteggiamenti filoprotestanti di Massimiliano II e per contenere l'espansione dell'eresia, nel periodo dall'ottobre 1568 al gennaio 1569.
Negli anni 1567-70 il C. fu in contatto con i fratelli Castelvetro, che lo avevano pregato di intervenire in loro favore. Dopo la fuga da Roma, essi erano andati esuli in Svizzera, protetti dal duca di Ferrara Alfonso II, allacciando poi rapporti con la corte imperiale. Nel febbraio 1567 il C. rispondeva freddamente a Ludovico, invitandolo a presentarsi di fronte all'Inquisizione romana: "Le cose Sue... non hanno rimedio se Essa non si costituisce a dar conto de la Sua fuga e dei fatti Suoi". Più tardi egli trovò parole di umano compatimento, senza lasciargli però alcuna speranza: "Vostro fratello..., per le lacrime che sparge per Voi e per l'affezione che Vi porta, è degno d'esser da Voi avuto carissimo. Io gli ho prestato quel poco d'aiuto e consiglio che ho potuto... Ma io per me credo che tutto sia indarno... Consolatevi con la coscienza Vostra e con la voluntà del Signore Dio, finché a sua divina maestà piaccia di far constare la Vostra innocenza". L'intervento di Massimiliano II presso il legato non servì a nulla (Poggiani, Epistolae, IV, pp. 441-444).
L'ultima missione a Vienna (settembre-novembre 1571) aveva l'obiettivo di attirare l'Impero in una vasta coalizione contro i Turchi, che minacciavano Venezia nel regno di Cipro, e secondariamente di trattare la questione del riconoscimento del titolo granducale a Cosimo de' Medici. Quando lasciò Vienna per trasferirsi a Cracovia (22 nov. 1571), il C. non aveva ancora ottenuto risultati concreti. In Polonia la causa della lega gli apparì subito compromessa dalla malattia di Sigismondo Augusto; il suo obiettivo iniziale fu dunque soppiantato dal problema che ora appariva più urgente della successione al trono.
Alla vigilia della morte dell'ultimo sovrano della dinastia iagellonica, il legato ebbe istruzione di favorire l'arciduca Ernesto, figlio di Massimiliano II: la Curia si aspettava che, una volta realizzata l'intesa austro-polacca, l'intero complesso asburgico avrebbe unito le sue forze con quelle spagnole, veneziane e pontificie. Il legato collaborò strettamente, questa volta, col vescovo di Włocławek, Stanisław Karnkowski, puntando anzitutto alla costituzione di un partito cattolico. Durante l'interregno egli avvertì nettamente l'ostilità della szlachta, non solo protestante, alla candidatura asburgica. Di fronte alle simpatie guadagnate da Enrico, duca d'Angiò, fratello del re di Francia, il C. sollecitò nuove istruzioni; il 6 sett. 1572 la Segreteria di Stato gli fece intendere che, se Ernesto d'Asburgo avesse incontrato difficoltà insormontabili, sarebbe stato opportuno appoggiare il duca d'Angiò pur di avere in Polonia un re cattolico. Frattanto si spargeva notizia delle responsabilità di Enrico nella strage di S. Bartolomeo, mentre la diplomazia austriaca lavorava per guadagnare i protestanti, vantando la pace religiosa garantita nei territori dell'Impero. Dopo un momento di esitazione, il legato decise di assumere un atteggiamento neutrale, chiamando la nobiltà a darsi un re cattolico, francese o austriaco che fosse. Con l'elezione di Enrico II la Curia sventò il pericolo di un sovrano protestante; ma questo successo fu bilanciato dal riconoscimento della libertà di culto da parte del nuovo eletto e dal sacrificio della lega. Alla corte di Vienna si diffuse la convinzione che il C. avesse favorito il candidato francese, mosso dal papa e sollecitato dai Veneziani.
Le orazioni rivolte all'imperatore e alla Dieta polacca (quest'ultima effettivamente pronunciata l'8 apr. 1573) contengono i temi della propaganda svolta a Vienna a favore della lega, e a Cracovia a favore del sovrano cattolico.
Nella prima il C., identificando la difesa del dominio veneto con l'interesse generale della Cristianità, sosteneva il carattere complementare della guerra marittima e terrestre e riservava al ramo imperiale della casa d'Austria il compito di abbattere la potenza ottomana. Nella seconda tornano i concetti politici cari al C., relativi alla forma mista di governo: "Reipublicae Vestrae formam saepe considerans, admirari soleo sapientiam maiorum Vestrorum, qui regni et libertatis moduni ita temperarunt ut, inter supremam unius potestatem et dissolutam multitudinem, licentiam tam firmam tuendarum legum et propagandi imperii rationem excogitaverunt". Esaltava la funzione del vescovi, "constituti in populis... tanquam nuntii et interpretes Dei…, custodes ac vindices publicae libertatis", e presentava il cattolicesimo come il fondamento delle libertà sarmatiche contro la tirannide regia. In funzione della lotta all'eresia invocava il rifiuto delle novità straniere: "Regnum hoc omnibus, quaecunque in quavis longiqua et aliena terra excogitantur et quotidie conflantur, pravarum opinionum monstris aperitur et patet".Sotto il pontificato di Gregorio XIII l'influenza del C. declinò. Fu tuttavia membro delle congregazioni per la Germania e per il concilio. Già aperto durante la prima missione in Polonia alla considerazione dei problemi ruteni e orientali, partecipò nel marzo 1581 al concistoro segreto che decise di accettare la mediazione, sollecitata da Ivan IV, per i negoziati di pace col re di Polonia Stefano Báthory; Antonio Possevino ebbe da lui materiale informativo sui luoghi che avrebbe raggiunto. Percepiva una pensione dalla corte polacca, da riscuotere sui beni napoletani, mentre la Repubblica di Venezia gli aveva riconosciuto, dopo un lungo contrasto, il possesso dell'abbazia veronese di S. Zeno. Morì a Padova dopo una lunga malattia il 24 dic. 1584; fu sepolto nella chiesa del cappuccini, dove l'erede dei suoi beni, nipote per parte di una sorella, fece porre un'iscrizione. Il 14 marzo 1584 era stato trasferito al titolo di S. Marco.
Fonti e Bibl.: La corrisp. ufficiale degli anni 1560-62 ha avuto diverse ediz., che si completano a vicenda: Lettere del C. nella nunziatura di Germania, a cura di G. Finazzi, in Miscellanea di storia italiana, VI (1865); Concilium Tridentinum, ed. società Goerresiana, VIII, Friburgi Brisgoviae 1919, passim; Nuntius C. 1560 (Dezember)-1562 (März), a cura di A. Wandruazka, in Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 2, II, Graz-Köln 1953. I dispacci inviati al cardinale Borromeo durante la prima missione in Polonia sono stati pubblicati in traduzione polacca nei Pamiętniki o dawnej Polsce z czasów Zygmunta Augusta... (Memorie dell'antica Polonia al tempo di Sigismondo Augusto), a cura di M. Malinowski, I-II, Warszawa 1851, e solo per estratti, limitatamente alle questioni rutene, nelle Litterae nuntiorum apostolicorum historiam Ucrainae illustrantes (1580-1850), a cura di A. G. Welykyi, I, in Analecta Ordinis S. Basilii Magni, III, Romae 1959, pp. 16, 36-49. Il carteggio delle legazioni a Massimiliano II si trova in Nuntius Biglia 1565-1566 (Juni). C. als Legat auf dem Reichstag zu Augsburg 1566, a cura di I. P. Dengel, in Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 2, V, Wien-Leipzig 1926; Nuntius Biglia 1566 (Juni)-1569 (Dezember). C. als Legat bei Kaiser Maximilian II. 1568 (Oktober)-1569 (Jänner), a cura di I. P. Dengel, ibid., VI, Wien 1939; Nuntius G. Delfino und Kardinallegat G. F. C. 1571-1572, a cura di J. Rainer, ibid., VIII, Graz-Köln 1967. Dengel e Wandruszka hanno potuto usufruire degli originali dell'Archivio Graziani di Città di Castello, mentre gli altri editori hanno attinto alla Bibl. Apost. Vaticana, all'Arch. Segr. Vaticano e al British Museum. L'orazione in difesa degli studenti padovani fu inserita, vivente l'autore, nella racc. Dell'orazioni volgarmente scritte..., a cura di F. Sansovino, Venezia 1562, II, ff. 71v-74v, e ancora nella rist. della stessa, Venezia 1569, II, ff. 72v-75v; quella per il doge Francesco Donà trovò posto solo nella ristampa del 1569, II, ff. 129r-133r. I versi latini sono stati pubbl. in Anecdota litteraria ex manuscriptis codicibus eruta, a cura di G. C. Amadusio, Romae 1783, IV, pp. 445-446, e in Spicilegium Romanum, a cura di A. Mai, VIII, Romae 1842, pp. 481-487. Lo scritto generalmente noto come discorso sulla corte di Roma, che il Mai, pubblicandone alcuni estratti, presentava quale "tractatus haud modicus", era stato chiamato dal C. stesso "semplice et amorevole ragionamento" (si veda la copia conservata a Roma, nella Bibl. Casanatense, ms. 2371, f. 17) intorno a varie questioni logicamente connesse. L'autore lo compose in gioventù. In apertura, rivolgendosi a un prelato di nobile famiglia veneziana, che gli aveva chiesto un parere sull'opportunità di "cortegiare" il papa o un cardinale di prestigio, egli si schermisce, accennando al "mio poco sapere, in questa età et in questa esperienza di pochi anni" (ibid., f. 17r); verso la conclusione, un riferimento cronologico ("tre anni sono, al principio di questo pontificato...", ibid., f. 101r) sembra indicare il 1553, se il pontefice cui si allude è Giulio III, eletto nel febbraio 1550. Il "ragionamento", che ebbe ampia diffusione, è conservato in varie biblioteche d'Italia e d'Oltralpe: per la tradiz. manoscritta e per varie proposte di datazione, vedi A. Mai, in Spicilegium Romanum, VI, Romae 1841, pp. L-LIX; L. Frati, Il discorso su la corte di Roma del cardinal C., in Nuova Antologia, 16 apr. 1914, pp. 726-730; L. von Pastor, Storia dei papi, VII, Roma 1928, pp. 310-315, 636-637. Tredici lettere al Karnkowski, degli anni 1567-76, sono state stampate in appendice a J. Długosz, Historia Polonica, Lipsiae 1712, II, coll. 1682-1687. L'orazione tenuta di fronte alla Dieta polacca nel 1573 fu subito diffusa a stampa nel testo latino a Cracovia e a Parigi (Oratio ad Senatumequitesque Polonos habita in castris apud Warszawiam VIII Aprilis anno 1573, s. l. né d.) ed ebbe inoltre una traduz. francese (vedi S. Ciampi, Bibliografia critica..., I, Firenze 1834, pp. 60, 87, 140-142; II, Firenze 1839, p. 189; K. Estreicher, Bibliografia polska [Bibliografia polacca], XIV, Kraków 1896, p. 328; Catalogue des livresimprimés de la Bibl. Nationale, XXXI, Paris 1907, col. 285). Una lettera ad Alvise Corner, Heilsberg, 5 ag. 1565, e l'appello a Massimiliano II per la guerra contro il Turco hanno visto la luce rispettivamente in Miscellanea di varie operette, pref. di T. Bettinelli, Venezia 1743, pp. 172-173, e in Orationes procerum et ad proceres Europae, a cura di J. C. Lünig, Lipsiae 1713, II, pp. 552-553. Vedi inoltre: A. Caro, Rime, Venezia 1569, p. 48; S.Osio, Opera, Coloniae 1584, II, pp. 164-165, 219-220, 312-314, 397; A. M. Graziani, De vita Ioannis Francisci Commendoni cardin. libri quatuor, Parisiis 1669 (che ebbe numerose ediz. italiane e francesi, trad. da E. Fléchier, Paris 1695); Id., De scriptis invita Minerva..., a c. di G. Lagomarsini, Florentiae 1745-46, I, pp. XXIX-XLV e passim; II, pp. 3-4 e passim;B. Ricci, Opera, II, 2, Patavii 1747, pp. 402-403; G. Poggiani, Epistolae et orationes, a cura di G. Lagomarsini, I-IV, Romae 1757-66, ad Indices;S. Pallavicino, Istoria del concilio di Trento, a cura di F. A. Zaccaria, III-V, Faenza 1793-95, passim; A.Caro, Lettere ined., a cura di P. Mazzuchelli, Milano 1827, II, p. 227; Vetera mon. Poloniae et Lithuaniae…, a cura di A. Theiner, II, Romae 1961, pp. 714-22, 763-67, 770-76; Calendar of State Papers... Venice, a c. di R. Brown, V-VI, London 1873-84, ad Indices; Lettres de Catherine de Médicis, a c. di H. de la Ferrière, I, Paris 1880, p. 579; IV, Paris 1891, p. 276; Beiträge zur polit., kirchlichen und Cultur-Geschichte..., a cura di J. J. I. Döllinger, Wien 1882, pp. 310-329; Uchańsciana czyli zbiór dokumentów wyiaśniaiacych zycie i dzialainość Jakóba Uchanskiego, arcybiskupa gnieznienskiego, 1502-81 (Raccolta di docc. Sulla vita e sull'attività di J. Uchański, arcivescovo di Gniezno), I-V, Warszawa 1884-95, ad Indicem; Der Briefwechsel des Kaisers Maximilian mit dem Papst Pius V., in Briefe und Akten zur Gesch. Maximilians II., I, a cura di W. E. Schwarz, Paderborn 1889, ad Indicem; Die süddeutsche Nuntiatur des Grafen Bartholomäus von Portia 1573-1574, a cura di K. Schellhaus, in Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 3, III, Berlin 1896, ad Indicem; Die Nuntien Hosius und Delfino 1560-1561, a cura di S. Steinherz, ibid., s. 2, I, Wien 1897, ad Indicem;J. Nadal, Epistolae... ab anno 1546 ad 1577, II-III, Matriti 1899-1902, ad Indices; P. Canisio, Epistolae et acta, a cura di O. Braunsberger, III-VII, Friburgi Brisgoviae 1901-22, ad Indices; Nuntius Delfino 1562-1563, a cura di S. Steinherz, in Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 2, III, Wien 1903, ad Indicem; Die römische Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV., a cura di J. Šusta, I-IV, Wien 1904-14, ad Indices; Nonciatures de France. Nonciatures de Paul IV…, I, a cura di R. Ancel, Paris 1909, pp. 1-3, 28, 480, 495; Nuntius Delfino 1564-1565, a cura di S. Steinherz, in Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 2, IV, Wien 1914, ad Indicem;A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, II-III, Firenze 1959-61, ad Indicem; Nunziature di Napoli, I, a cura di P. Villani, Roma 1962, pp. 372-373 e passim; Nunziature di Venezia, VIII, a cura di A. Stella, Roma 1963, pp. 311-313, 475-478 e passim; Kosciól w Polsce (La Chiesa in Polonia), a cura di J. Kłoczowski, II, Kraków 1969, pp. 102, 203, 204-205; Nunziature di Napoli, II, a cura di P. Villani-D. Veneruso, Roma 1969, pp. 51, 211, 333; Nunziature di Venezia, IX, a cura di A. Stella, Roma 1972, p. 37 e passim; X, a cura di A. Stella, ibid. 1977, ad Indicem; XI, a cura di A. Buffardi, ibid. 1972, ad Indicem. Sul C. si veda ancora: L. Cardella, Mem. stor. de' cardinali della Santa romana Chiesa, Roma 1793, I, pp. 89-92; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, III, Milano 1833, pp. 440 s.; A. Eichhorn, Der ermländische Bischof und Cardinal Stanislaus Hosius, Mainz 1854-55, I, pp. 348-350 e passim; II, pp. 208-240 e passim;J. Bartoszewicz, Commendoni (Jan Franciszek), in Encyklopedia Powszechna (Enc. universale), V, Warszawa 1861, pp. 800-807; N. Liubovič, Papskij nuncii Kommendone v Pol'še. Iz epochi načala katocličeskoi reakcii, in Žurnal Ministerstva Narodnago Prosveščescenija, gennaio 1887, pp. 68-98; febbraio 1887, pp. 203-239; P . 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