BIONDI, Giovanni Francesco
Nacque a Lesina nel 1572; la sua famiglia, Biundović, che italianizzerà il cognome in Biondi agli inizi del sec. XVII, era nobile, ma di ridotte possibilità finanziarie. Questo non impedì al B. di studiare a Padova laureandovisi in diritto: a Padova e a Venezia ebbe inoltre modo di entrare in contatto con uomini e orientamenti che costituivano una fonte di non piccole preoccupazioni per la S. Sede, destinati a un ruolo importante nel periodo dell'interdetto ed in quello immediatamente successivo.
Nel 1606-1608 il B. è a Parigi, segretario privato dell'ambasciatore veneto Pietro Priuli; in questo periodo si colloca la sua decisa adesione alle dottrine riformate, frutto di nuovi contatti e maturazione, nel contempo, di umori e idee assorbite negli ambienti veneziani e patavini. Già allora tentò, tramite l'ambasciatore inglese in Francia George Carew, di essere assunto al servizio di Giacomo I; per il momento però senza fortuna. Il B. dovette pertanto rientrare a Venezia, ove riuscì tuttavia a far pervenire "quattro balle" di libri, sostenenti, più che dottrine ereticali, la necessità di un fermo contegno dello Stato nei confronti delle pretese e delle esorbitanze ecclesiastiche. E il doge Leonardo Donà non ebbe difficoltà a sventare le preoccupate proteste del nunzio a Venezia B. Gessi: per la Repubblica non v'era alcun "segretario" Biondi.
Questi infatti non figurava come tale, avendo un rapporto di lavoro solo col Priuli, che aiutava nel disbrigo della corrispondenza privata. Di conseguenza i libri, depositati nella casa del Priuli, non furono sequestrati e li consultò agevolmente, tra gli altri, il Sarpi, il quale, anche in seguito, dovrà al B. la possibilità d'utilizzare pubblicazioni di difficile reperimento. I rapporti del dalmata con l'illustre servita erano d'altronde frequenti: si scambiavano pareri su uomini e libri, praticavano le stesse persone, quali Pierre Asselineau, Giacomo Castelvetro, i mercanti fiamminghi Sechini, William Bedell. A volte era lo stesso B. a mantenere i collegamenti, perfino a promuovere i rapporti, come quelli tra Sarpi e Casaubon; a lui ricorreva Fulgenzio Micanzio per recapitare le sue lettere a Cristoph von Dohna, e ad Abraham Scultetas. Il soggiorno del settembre del 1608 di Giovanni Diodati a Venezia, che del B. aveva stima e fiducia, è ricollegabile alle calde esortazioni di questo.
"Huomo temerario e tenuto da molti per heretico marcio" - così diceva di lui il nunzio Ubaldini -, il B. sentiva l'esigenza d'operare attivamente per la diffusione della riforma a Venezia, aspirando nel contempo a un compenso stabile non disgiunto da una qualche forma di garanzia nei confronti di eventuali repressioni. S'era messo perciò a disposizione dell'ambasciatore inglese Henry Wotton e, munito d'una sua lettera di raccomandazione per Giacomo I, partiva agli inizi del 1609 alla volta di Londra, latore di una proposta, attribuibile allo stesso Sarpi, per cui lo Stuart avrebbe dovuto assumersi l'onore e l'onere di una decisa lotta antipapale.
In quanto "primo Principe nella vera chiesa" e di conseguenza "opposito al Papa", doveva anzitutto "introdurre la Religione in Italia", il cui "luogo più opportuno" era Venezia, sempre che si approfittasse subito dei rancori per la "tirannide papista" che vi si erano acuiti e chiariti coll'interdetto. A tal fine occorreva inviare da Ginevra tre o quattro predicatori, disporre di un fondaco, aperto da mercanti inglesi, ove fosse "libero l'essercitio della Religione", e di "una persona" - era questa la funzione cui il B. espressamente aspirava - incaricata "di seminare libretti, di scoprire gli uomini et scoperti drizzarli sotto l'instruttione de' Ministri", senza che in quest'azione, così delicata e compromettente, fosse coinvolto e compromesso l'ambasciatore. Per la propaganda presso gli Italiani sfuggiti alle persecuzioni si aprissero "due Collegij... uno nel Regno... l'altro in Valtelina". Infine il re si ponesse a capo di una lega di forze protestanti ed anche cattoliche, purché ostili all'ingerenza pontificia ed insofferenti della preponderanza spagnola; la Serenissima avrebbe aderito, così da "stringersi prima in amicitia et poi nel culto".
Dopo qualche mese di permanenza a Londra, il B., passando nel giugno per Parigi, agli inizi d'agosto era nuovamente a Venezia. Né erano state prese sul serio dall'Ubaldini le voci, ad arte diffuse dal dalmata, sullo scopo del viaggio in Inghilterra - si sarebbe offerto, invano, d'insegnare l'italiano al principe di Galles - e sulla sua riconversione al cattolicesimo. La missione non fu inutile: se Giacomo I non modificò le linee di una politica prudente al punto da apparire rinunciataria, tuttavia ne derivò una certa intensificazione, da parte dell'ambasciata inglese, della propaganda ereticale a Venezia. Quanto al B., ricompensato dal Wotton, poté diffondere libri - il sovrano aveva concesse 3.000 corone per il loro acquisto - ed organizzare riunioni religiose. Servì pure la Repubblica, andando, nel 1610, in Delfinato e in Provenza, alle dipendenze dell'ambasciatore a Torino Gregorio Barbarigo, quale osservatore "delli moti... fra Francia, Savoia e Milano". Come avvisò il Senato di presunte mire di Carlo Emanuele I su Ragusa, informava anche gli Inglesi dei preparativi militari sabaudi.
Svanita la speranza di rappresentare l'Inghilterra presso i principi dell'Unione evangelica (e più tardi cadrà anche quella "d'haver la residenza in Venezia delli principi della lega d'Hala, col favor di molti grandi, ma in particolare del re della Gran Bretagna"), il B. era costretto a ripiegare su compiti saltuari: nel marzo-giugno 1612 fu al seguito del Wotton, recatosi a Torino per saggiare la volontà d'autonomia di Carlo Emanuele di fronte al profilarsi di un riavvicinamento tra Francia e Spagna e incoraggiarlo coll'assicurazione dell'appoggio inglese. Non a caso si parlava dell'eventualità di un matrimonio tra il primogenito di Giacomo I e una figlia del duca.
Nella seconda metà del 1612 il B. era a Londra, privo di una funzione e di un incarico specifico, per di più malvisto dall'arcivescovo di Canterbury, George Abbot. Frequenti le lamentele per questa sua condizione nelle lettere a Dudley Carleton, successo al Wotton a Venezia; e pure del Wotton, suo protettore, doveva lamentarsi perché troppo ingenuo e candido. Comunque lo seguì all'Aia nel 1614, rimanendovi sino al giugno dell'anno successivo: l'incombenza di maggior rilievo del B. fu l'andata a Bruxelles quando la tregua rischiò di rompersi per apprestamenti militari asburgici. Di nuovo a Londra, appoggiato calorosamente dal Wotton presso il segretario di stato Ralph Winwood, fu inviato nel luglio del 1615 in Francia, e vi rappresentò Giacomo I all'assemblea calvinista di Grenoble esortando gli ugonotti, assicurati peraltro della protezione inglese, ad appoggiare concordi il principe di Condé. A Torino in ottobre, rientrò a Londra il 26 novembre, riferendo, di lì a quattro giorni, al sovrano sull'esito del viaggio.
Lo aveva, nel frattempo, particolarmente infastidito l'accusa d'essere l'effettivo autore di un libello denigratorio,Detti e fatti dell'ambasciatore Foscarini di Venezia, che avrebbe fatto pubblicare a Francoforte, e redatto sulla base delle notizie fornitegli da Giulio Muscorno, l'infido segretario del rappresentante veneto, al quale il B. era legato da rapporti d'amicizia. Accusa recisamente smentita dal B.; d'altronde lo scritto, per quanto lo si ricercasse, risultò introvabile. Ciò fa supporre che, se fu effettivamente composto (cosa tutt'altro che certa), siano state subito sottratte dalla circolazione le copie manoscritte e gli esemplari a stampa.
Lasciata l'Inghilterra agli inizi del dicembre del 1616, il 22 il B. era già a Torino, cordialmente accolto da Carlo Emanuele I, al quale, due anni prima, dall'Aia aveva fornito notizie; e rientrava a Londra, il 2 marzo 1617, col titolo di agente del duca. Senza che fossero pregiudicati i legami con la corona inglese, per tre anni svolse tale funzione - le sue lettere a Torino vanno dal 21 marzo 1617 al 6 ag. 1620 -, assorbita in ispecie dal duplice compito di sollecitare l'attenzione del re sulla politica spagnola in Italia e di rassicurarlo quanto alle presunte intenzioni del duca su Ginevra. Faticoso comunque per il B. questo servire "contro lo Evangelio a due padroni".
Finalmente, la sua ansia di quiete e sicurezza poteva placarsi: creato cavaliere nel 1622 e, quindi, gentiluomo della camera privata del re, otteneva quella posizione decorosa ed economicamente sicura (godeva di una pensione) alla quale aveva sempre aspirato. Il matrimonio inoltre con Maria Mayerne sorella di Teodoro, protomedico del re, aggiungeva un'ulteriore nota di tranquillità all'esistenza ormai rasserenata del già anziano dalmata. Libero da gravosi e continuati impegni di lavoro, i prolungati "oçi", concessigli soprattutto da Carlo I, lo stimolarono a dedicarsi alla stesura di opere storiche e letterarie. Con una trilogia di romanzi,L'Eromena (1624),La Donzella desterrada (1627),Il Coralbo, (1632), il B. seppe venir incontro, con un certo anticipo sulla produzione corrente, ai gusti di un pubblico desideroso di narrazioni e racconti, ma sazio anche delle inverosimiglianze di quelli eroico-cavallereschi.
Nel B. rimangono i macchinosi intrecci, ma se inverosimile resta la trama, lo stesso non si può dire delle singole gesta dei personaggi principali, mossi da sentimenti e preoccupazioni (galanteria amorosa, ragion di stato, senso dell'onore) in un certo senso attuali: nei dettagli insomma non si rilevano quelle iperboliche esagerazioni che avevano caratterizzato il genere eroico-cavalleresco. Eccezionale il valore degli eroi del B., ma non incredibile; meravigliosa la bellezza delle sue eroine, ma sempre minutamente descritta. Grande il successo di pubblico, testimoniato, in Italia, dalle ristampe (giunte a sette per L'Eromena) e dalle traduzioni; tutti e tre i romanzi furono infatti tradotti in inglese,L'Eromena anche in francese e in tedesco. Inoltre nel 1638 Vincenzo Armanni offriva ai tanti lettori del B. una Raccolta di tutte le sentenze,detti e discorsi morali,filosofici politici che si contengono... nei suoi romanzi; e, non concludendosi col Coralbo le vicende della trilogia, al B. non mancò un prosecutore, che, sotto lo pseudonimo di Carlo Boer, si affrettò a pubblicare, a Venezia nel 1633, una maldestra continuazione per terminare alfine tutta l'Istoria d'Eromena, accontentando comunque l'avida curiosità di quanti s'erano appassionati agli intrecci del Biondi.
Mentre del tutto marginale dovette essere la sua attività di verseggiatore - ci risulta soltanto un sonetto di nessun valore in onore del vicentino Francesco Belli -, degno di rilievo è l'impegno storiografico del B. realizzatosi nell'Istoria delle guerre civili d'Inghilterra tra le due case di Lancastro e Iorc, edita a Venezia nel 1637-1644, ristampata due volte, nel 1647 e nel 1724, e, nel 1724, comparsa nella traduzione inglese.
Affrontando il periodo che va dalla salita al trono di Riccardo II (1377) alla fine del regno di Enrico VII (1509), il B. intendeva offrire all'Italia la possibilità di conoscere la storia inglese, esaminata in un arco di tempo così complesso e decisivo. Nella consapevolezza della necessità di studiare le vicende "di tutte le naçioni", senza ottuse esclusioni delle "cose straniere", sentiva altamente meritoria la sua fatica; nuova per di più, ché troppo sintetiche erano le Anglicae historiae di Polidoro Virgilio e, in quanto scritte in latino, destinate a "li soli litterati". Opera di compilazione appare tuttavia quella del B., le cui fonti (che egli ha il pregio di citare sovente) più che discusse sono meccanicamente contrapposte; la narrazione, che troppo spesso indugia nelle caratterizzazioni psicologiche e si attarda in complicati paragoni, è assai vicina, stilisticamente, all'andamento dei romanzi; la singolare spregiudicatezza inoltre di alcuni giudizi - riecheggiamenti più o meno diretti d'una lettura di Machiavelli - risalta stranamente tra le frequenti deprecazioni, massime, considerazioni, frutto di un moralismo generico sino alla banalità.
La monarchia inglese di cui il B. aveva celebrato, con la sua storia, il sanguinoso rafforzarsi, e che ora gli pareva "incorporata alle leggi", felice connubio tra "moderaçione" regia e "ossequi" di sudditi, non era però più in grado di reprimere e contenere la crescente inquietudine del paese. A disagio veniva a trovarsi il cortigiano dalmata in un clima sempre più pericoloso per la corona e i suoi sostenitori. Le trepide riflessioni dell'amico e corrispondente Armanni sull'"infelice posizione del Principe che ha da comandare con riserve" erano ben consone al suo stato d'animo di fronte a contrasti, tanto tesi e radicali. Amareggiato e, forse ancor più, impaurito, il B. preferiva abbandonare nel 1640 l'Inghilterra, trasferendosi ad Aubonne, in Svizzera, presso il cognato; e di lì a quattro anni, nel 1644, vi moriva.
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