DORIA, Giovanni
Cavaliere e signore di Pornassio (Riviera di Ponente), figlio di Domenico Bartolomeo fu Giovanni e di Isotta Negroni di Nicolò, nacque verosimilmente a Genova, attorno alla metà del XV secolo.
La sua corretta identificazione risulta peraltro piuttosto problematica a causa della contemporanea presenza di almeno quattro suoi omonimi nella vita politica ed economica della Repubblica tra la fine del XV e i primi decenni del XVI secolo, periodo in cui cade la più intensa e prestigiosa attività del D.: oltre a lui, operarono un fu Ludovico, un fu Pelegro, un fu Marco, senza contare il figlio di Tomaso, cugino e poi figlio adottivo del grande Andrea, più noto col diminutivo di Giannettino.
Risulta perciò difficile stabilire con sicurezza se si tratti del D., ancora relativamente giovane, o di un suo omonimo, il Giovanni Doria che, nel 1479, funge da mediatore tra Obietto Fieschi e Battista Fregoso, quando il primo, abbandonati gli Adorno, offrì al secondo la carica ducale: certo ai Fregoso, pur coi loro contrasti interni e comunque contro gli Adorno, pare legato il destino politico sia del nonno del D. (altro suo omonimo) sia del padre (unico figlio di Giovanni senior e della sua prima moglie, Luigia Doria di altro Giovanni).
L'attiva partecipazione della famiglia ai vertici della politica genovese, mantenuta dal padre (sempre presente nelle cariche pubbliche tra il 1445 e il 1482), venne potenziata dal D. e da suo fratello Agostino, nonché dai figli e nipoti di quest'ultimo, tra i quali si contano ben quattro dogi di casa Doria (Giovanni Battista, figlio appunto di Agostino, nel 1537; Nicolò e Agostino, figli di Giacomo, fratello del predetto Giovanni Battista, rispettivamente nel 1579 e 1601; Giovan Stefano, figlio di Nicolò, nel 1633). Nelle più importanti magistrature della Repubblica (in particolare in quelle di Balia e di Guerra) il D. e il fratello Agostino cominciano a comparire dalla metà degli anni '80: nel 1488 il nome del D., accompagnato come in molte altre occasioni dal titolo di miles (ma si ignora se conseguito per meriti militari o amministrativi), risulta tra i componenti l'ufficio di Provvigione; nel 1500, 1501, 1504 tra quelli di Balia (e in questi anni il nome comincia ad essere accompagnato anche dall'appellativo dominus). E, più significativamente, già nell'atto di sottomissione della Repubblica a Luigi XII, firmato a Milano il 26 ott. 1499 dalla cosiddetta "grande ambasceria" di ventiquattro legati genovesi, il D. è citato, insieme con altri quattro nobili genovesi (Giovanni Spinola, signore di Serravalle, Pietro Battista Giustiniani, Geronimo Sauli e Pier Giovanni Salvago), tra le personalità presenti all'evento: cardinali, ciambellani regi, principi d'Italia. L'atteggiamento politico filofrancese del D. è confermato dal fatto che nel giugno 1502 fu nominato dal Gran Consiglio tra i dodici cittadini incaricati delle accoglienze al sovrano francese in Genova.
I grandiosi preparativi della città (fu adornato e dipinto con soggetti in onore della casa di Francia il palazzo ducale, si restaurarono ed abbellirono strade e palazzi, si rifornirono di artiglierie le galee in porto e le fortezze) furono condotti sotto la direzione del governatore francese Filippo di Clèves, con tale esplicito significato politico da suscitare malumori e dissensi tra gli stessi commissari.
Ma la posizione politica filofrancese e antipopolare del D. risulta ancora più esplicita negli anni 1506-07, durante la rivolta popolare delle "cappette" che avrebbe portato all'effimero dogato di Paolo da Novi. Dopo i tafferugli del 27 giugno 1506, che avevano spinto i popolari ad eleggere dodici capitani da inviare al luogotenente francese, Filippo Roccabertino, affinché li difendesse dalle violenze dei nobili, questi ultimi nominarono a loro volta quattro capitani: il D., Luca Spinola, Giovan Ambrogio Fieschi e Angelo Cebà. Ma, con le rivendicazioni popolari sul diritto ai due terzi degli uffici pubblici, nella situazione che si faceva sempre più tesa (il 18 luglio, in un nuovo tumulto, durante l'assalto alle case dei Doria, gli insorti avevano ucciso Visconte Doria e ferito gravemente il fratello del D., Agostino) i nobili furono costretti a lasciare la città e a rifugiarsi nei loro feudi.
Il 3 agosto si riunirono a Montoggio, nel castello di Gian Luigi Fieschi, e decisero di inviare al re come patrocinatore dei loro diritti Andrea Doria; poi, insoddisfatti della condotta del Doria, organizzarono una deputazione incaricata di trovare il modo di rientrare in Genova e il denaro per garantire il rientro stesso: i deputati furono il D., Nicola Spinola, Cipriano De Mari, Domenico Lercari, Ansaldo Grimaldi, Giovan Battista e Agostino Lomellini.
Nei mesi successivi il D. si adoperò con zelo nell'incarico, costantemente in accordo con Andrea Doria: sia per il progetto di offrire a Ottaviano Fregoso la signoria della città a nome dei Popolari, proprio per annullare le spinte autenticamente sovversive, sia per l'organizzazione di tafferugli affidati a suoi uomini di fiducia in città. Nel gennaio 1507, proprio l'intercettazione di una lettera del D. a tale Tomaso Borgaro, con le istruzioni per attuare questo doppio gioco, consentì alle fazioni popolari di sventare la trama e di ritrovare una provvisoria solidarietà di fronte al comune pericolo. A fine marzo un'altra lettera del D., indirizzata a suoi uomini in Albenga, fu intercettata dal governo popolare, ormai in guerra aperta con la Francia, e il messo ucciso. Dato il ruolo primario svolto dal D. nel fallimento del governo popolare dopo l'ingresso trionfale di Luigi XII a Genova, nel primo Gran Consiglio che si tenne a palazzo ducale il 4 maggio 1507, fu proprio a lui - come sottolineano sia storie ufficiali sia cronache anonime - che si chiesero le direttive.
Il D. propose di "lasciar andare quello era fatto e fare libro de novo": annullare tutte le magistrature e le deliberazioni degli ultimi dieci mesi, ricostituire i vecchi uffici con nuovi membri, e in particolare costituire un nuovo ufficio di Balia con personalità di prestigio eccezionale.
Il parere del D. fu approvato "nemine discrepante", ed egli stesso entrò nel nuovo ufficio di Balia, con l'amico Luca Spinola, Giovan Battista Grimaldi, Ambrogio Fieschi, Francesco Lomellini, Melchiorre Negroni, Stefano Giustiniani, Antonio Sauli, Raffaele De Fornari, Francesco di Camogli, Batta di Rapallo, Batta Botto: era il ritorno allo statu quo, con gli uomini e le alleanze tradizionali che potessero garantirlo.
Del momento di personale successo il D. approfittò per rinsaldare la sua autorità sui suoi feudi del Ponente ed estenderla ad Albenga, di cui riuscì a divenire governatore, contro i privilegi della città, con il benestare di Luigi XII che, il 4 giugno 1507. respinse le proteste ufficiali contro l'abuso del Doria. Ma il legame del D. con la Francia cominciò a divenire scomodo nel 1510, di fronte alla politica di Giulio II, tanto più che il papa aveva trovato fautori in Genova proprio tra parenti del D. (Gerolamo Doria, suo cognato, e Lazzaro, suo nipote); tuttavia, nel Gran Consiglio del 6 luglio voluto dal governatore francese e dagli Anziani per comunicare la gravità della situazione (Marcantonio Colonna. Giano e Ottaviano Fregoso in marcia su Genova e una flotta veneto-pontificia pronta a salpare), fu ancora il D. a confermare "l'affetto" dei Genovesi alla Francia e a consigliare un ufficio straordinario per organizzare la difesa. Poi, dopo il crollo della potenza francese in Italia seguito alla pur vittoriosa battaglia di Ravenna e alla morte di Gaston de Foix, fu il D., il 22 giugno 1512, a guidare la legazione di otto ottimati genovesi che portò a Giano Fregoso la resa della città e la richiesta del mantenimento dei privilegi.
Più che a Giano il D. sembra legato a Ottaviano Fregoso, la cui politica egli appoggerà a partire dal luglio 1513, dopo tuttavia aver fatto approvare una clamorosa proposta. Il 22 giugno 1513 l'ufficio di Balia aveva convocato un Gran Consiglio straordinario per approvare il pagamento di una forte somma (80.000 ducati) che i Fregoso avevano chiesto per saldare con il viceré di Napoli il debito contratto per prendere Genova. Il D. approvò di onorare l'impegno ormai assunto dal doge in carica, ma condannò l'uso di obbligare la città a pagare i debiti contratti dai fuorusciti per riconquistare il potere. E, con il consueto pragmatismo, alla coraggiosa dichiarazione di principio il D. affiancò la proposta di una commissione che studiasse i provvedimenti atti a stroncare tale consuetudine. Quanto credito il D. godesse ancora nella classe di governo è deducibile dalla unanime approvazione della sua proposta, dalla immediata elezione della commissione (di cui entrò a far parte il fratello del D., Agostino) e dalla severità del decreto ratificato il 13 luglio successivo: chiunque, occupata la città con denaro straniero, avesse preteso far saldare il proprio debito al Comune di Genova, sarebbe caduto, ipso facto, nella condizione di nemico pubblico, confiscati i suoi beni e quelli della moglie.
Nonostante il sapore polemico anche nei confronti dei Fregoso, il decreto suonava soprattutto come monito ai nuovi tentativi degli Adorno; di certo, non incrino l'alleanza politica del D. con Ottaviano Fregoso, di cui, tra il luglio e il settembre 1513, sostenne i progetti: la distruzione della fortezza della Lanterna, ancora in mano al presidio francese, e l'allestimento di una flotta di soccorso navale. Su quest'ultimo punto il D. ottenne nel Gran Consiglio del 13 sett. 1513 che si desse ampia balia al doge e all'ufficio del Mare per il mantenimento di questa flotta, di cui nel frattempo era stato eletto commissario Andrea Doria, tornato col Fregoso al servizio di Genova. Ancora nel febbraio 1514 il D. sostenne un progetto di potenziamento della flotta da garantire attraverso prestiti di S. Giorgio e delle grandi famiglie bancario-armatoriali: progetto atto a garantire una maggiore autonomia della città, minacciata da trame interne di Adorno e Fieschi ed esterne di Francia e Spagna. E, in effetti, dopo che Ottaviano Fregoso, sentendo il proprio potere minacciato, ebbe concluso il 25 nov. 1515 il trattato col quale restituiva alla Francia la signoria su Genova mantenendo per sé la carica di governatore, il D. sembra aver chiuso la propria carriera politica: l'ultimo atto è la sua partecipazione alla ambasceria di otto nobili che accompagnò il Fregoso a Milano per l'atto di dedizione a Francesco I.
L'attività politica fu invece proseguita dal fratello Agostino (molto presente nelle cariche almeno fino al 1520) e dal figlio di lui Giovanni Battista, poi doge nel 1537. Dal matrimonio con Luigia Doria di Lazzaro il D. aveva avuto nove figli (Paolo, Lazzaro, Nicolò, Clarono, Ludovico, Caterina, Maria, Susanna e Bartolomeo), alcuni senza prole, altri coniugati con i membri delle solite grandi famiglie (Spinola, Lomellini, Grimaldi) e con discendenti. Il Giovanni Doria fu Marco, assimilato al D. nell'indice del Gioffré, p. 297, è ovviamente un omonimo: banchiere internazionale, protettore di S.Giorgio nel 1506, titolare coi figli di una agenzia di cambio operante a Lione e ad Anversa nel 1517.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, ms. 10, cc. 16, 19v, 20; Genova, Bibl. civ. Berlo, m. r. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, II, cc. 40, 72, 73; B. Senarega, De rebus Genuensibus commentaria, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXIV, 8, a cura di E. Pandiani, ad Indicem; L.-G. Pélissier, Documents pour l'histoire de l'établissement de la domination française a Gênes, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, XXIV (1894), 2, pp. 483, 541; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, I, p. 105; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, Genova 1825, I, p. 52; J. Doria, La chiesa di S. Matteo, Genova 1860, p. 212; E. Pandiani, Un anno di storia genovese, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, XXXVII (1905), ad Indicem; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, I, p. 302; II, p. 88; D. Gioffré, Gênes et les foires de change, Paris 1960, p. 138.