Giovanni di Meung (Jean de Meung)
Autore della seconda parte del Roman de la Rose, composta circa quarant'anni dopo l'opera di Guillaume de Lorris. L'attribuzione a D. della riduzione italiana del romanzo nota sotto il titolo di Fiore (v.), getta una nuova luce sul problema dei rapporti tra D. e lo scrittore francese. In realtà, anche a prescindere dalla composizione del poemetto, l'opera dei due poeti appare legata da analogie profonde, tanto che il confronto con la Commedia si è imposto a quanti si sono occupati del capolavoro oitanico. Li accomuna anzitutto la magnanimità e ampiezza della concezione ideale, che fa del Roman de la Rose (come della Commedia) una ‛ summa ' del sapere medievale, una ‛ imago mundi ', in cui sono riflessi i molteplici aspetti della realtà, dalla più umile alla più elevata (pure se nel primo il reale si doni nella sua cangiante e contraddittoria varietà, nel secondo possentemente strutturato e dominato da una sovrana capacità di sintesi). In entrambi questo progetto comporterà un superamento degl'ideali cortesi e l'elaborazione di una teoresi generale dell'amore, che culmina nell'amore divino.
Nel Fiore la lezione di G. appare in primissimo piano, e adombra quella del suo pur geniale predecessore. L'attenzione di D. è attratta in particolare dai grandi temi politici e civili dibattuti nel discorso di Falsembiante: il tema della lotta anticlericale e antimonastica, la difesa di una cultura laica, libera dall'egemonia ecclesiastica. E nel razionalismo immanentistico di G., venato d'influssi averroistici, sembra di dover scorgere un'importante componente dell'ideologia dantesca, che, pure per tramiti diversi, tornerà operante in altri momenti della sua attività, specialmente nella Monarchia. Non mancano tuttavia punti di tensione ideale tra i due poeti. Il conflitto si configura soprattutto sul piano sociale, dove alla prospettiva egualitaria di G. (espressione dell'universalismo monarchico) si contrappone la prospettiva piccolo-aristocratica di D., attento (al momento del Fiore) alla difesa di più contingenti interessi di classe. Così non trova seguito nel poemetto il grande tema del contratto sociale, l'esaltazione di una società primigenia di eguaglianza e d'innocenza, in cui è già possibile rinvenire i germi di una nuova concezione del mondo. Il contrasto appare ben evidente nel sonetto CXVIII, dove alla rapina dei poveri da parte dei potenti, descritta nel romanzo (vv. 11537 ss.), D. oppone la spoliazione dei ceti possidenti per opera dell'aggressiva intraprendenza delle Arti.
Non meno importante appare l'apporto di G. sul piano stilistico: autore anch'egli eminentemente ‛ comico ', G. si caratterizza per una scrittura ricca e poliedrica, per il mobile impasto dei toni, che vanno dalla gravità dottinaria all'invettiva, all'ironia, al sarcasmo. D., nel mentre impone alla magmatica materia del romanzo la superiore misura artistica e il rigore formale che gli sono propri, ne accoglie però la suggestione profonda, il libero atteggiarsi dei temi, il moltiplicarsi delle sfaccettature stilistiche (ne è esempio tipico il discorso di Falsembiante). Sì che il momento del Fiore viene ad assumere un'importanza fondamentale nell'elaborazione del comico dantesco.
Il capitolo degl'influssi di G. sulla successiva produzione dantesca resta ancora in gran parte da scrivere. Un'importante episodio sembra essere rappresentato dalle canzoni dottrinarie in cui l'influenza dello scrittore francese si avverte nella stessa rigorosa misura ragionativa, nel vigore intellettuale che le percorre. Così ad es. la trattazione della nobiltà nella canzone Le dolci rime d'amor sembra modellarsi sull'analoga discussione di Nature (Rose 18607-18896), di cui serba nella sostanza l'intelaiatura ragionativa, pur con sensibili modificazioni di accento. L'influsso pare accertato da residui memoriali (cfr. i vv. 21 ss. Tale imperò che gentilezza volse / ... che fosse antica possession d'avere / con reggimenti belli, con i vv. 18851 ss. del romanzo: " Si n'i re font il pas grant force, / Qu' il n' i donraient une escorce, / Mainz en i a, fors que d'aveir / Les possessions e l'aveir "). V. GIANO.