GIOVANNI (Zuan) di Gara (di Garra)
Nacque da Giacomo, a Riva del Garda tra il secondo e il terzo decennio del secolo XVII (dalla registrazione di morte, stilata il 6 dic. 1609, G. risulterebbe a quel momento novantenne). Si trasferì a Venezia con la famiglia in tenera età, se, stando alle sue parole, entrò fanciullo a servizio del tipografo di origine fiamminga Daniel Bomberg: "servus Bombergii a pueritia" dice di sé nel Seder Ma´amadot (1564). Questa notizia evidenzia la sua appartenenza al ceto popolare e non certo a quello patrizio, attribuitagli erroneamente da qualche studioso. Quando l'impresa del Bomberg cessò definitivamente la sua attività nel 1549, dopo però che lo stampatore aveva già fatto ritorno ad Anversa nel 1538, G. acquistò parte dei caratteri tipografici (altri passarono nelle mani dei Plantin di Anversa, dei Farri e di Cristoforo Zanetti), e probabilmente si servì della stessa stamperia (in alcuni dei suoi primi libri compare infatti "nella casa di Bomberg"). Del tipografo fiammingo, che era stato leader nel settore delle edizioni ebraiche a Venezia nella prima metà del secolo, G. si dichiarava "erede", e ancora nel 1568 una fonte giudiziaria veneziana definisce G. "relievo delli Bomberghi". Nel 1599-1600 collaborò con la tipografia dei Bragadin, come testimoniano alcune marche tipografiche congiunte.
Una manciata di notizie su G. si ricava dal testamento nuncupativo, dettato nella sua abitazione della parrocchia di S. Zulian al notaio Francesco Zambelli il 12 nov. 1605. Buoni rapporti con parenti veneziani lascia intravedere il lascito a suo nipote Giacomo di "una camera dove dormiva i miei vecchi". A Venezia G. si era probabilmente sposato e qui era forse nata la figlia Angela, che nel testamento risulta la sua principale erede. Un altro aspetto che emerge sono le non floride condizioni economiche di Giovanni. Egli si preoccupava infatti di stabilire che Angela onorasse le sue pendenze e i suoi debiti con Giacoma, la "massera" al suo servizio, con uno Zuanne "tentor" e con alcuni fabbricanti di carta, "meser Cesaro carter alla Corona" e con "li heredi del quondam meser Domenego dell'Agio carter". Infine, G. non ottemperò alla consuetudine testamentaria veneziana di destinare qualche legato a beneficio dei luoghi pii, affermando laconicamente: "Ho massa poco da lassarghe".
L'attività editoriale di G. si svolse tutta a Venezia, tra il 1564 e il 1610 (l'ultimo libro uscì postumo).
La stampa dei libri ebraici a Venezia era stata sospesa a seguito della crisi ingenerata nel 1555 dal dissidio tra Alvise Bragadin e Marcantonio Giustinian per l'edizione del MishnāhTōrāh di Maimonide, del 1550. La crisi provocò duri interventi da parte della censura e, a seguito del decreto di Giulio III, del 12 sett. 1553, anche il sequestro e il rogo del Talmūd. Solo nel 1563 un gruppo di editori cristiani, Alvise Bragadin, Cristoforo Zanetti, Giovanni Grifio, Giorgio Cavalli e G. ripresero con impegno la stampa dei libri ebraici. Ma i fasti tipografici che avevano caratterizzato la prima metà del secolo erano ormai irripetibili. A poco servì l'introduzione nel 1554, da parte degli ebrei, della haskamah, una specie di censura preliminare, che contemplava l'autorizzazione da parte di tre rabbini e dei capi della comunità in cui l'opera veniva stampata. Negli anni Sessanta del Cinquecento le autorità della Repubblica perfezionarono l'iter della censura preventiva sulla stampa (istituita nel 1545), prevedendo alcuni passaggi obbligati. Il 19 marzo 1562 i riformatori dello Studio di Padova stabilirono che i manoscritti dovevano anzitutto essere sottoposti all'esame di tre lettori, cioè l'inquisitore locale o un suo rappresentante, il pubblico lettore di filosofia dello Studio di Padova e il segretario ducale. Superato questo esame, i riformatori rilasciavano la loro approvazione, che doveva a sua volta essere sottoposta al parere definitivo dei capi del Consiglio dei dieci. Nel 1566 il Consiglio dei dieci stabilì inoltre che il permesso per la stampa doveva essere registrato dagli Esecutori contro la bestemmia; infine, nel 1569, i Dieci ingiunsero il deposito del manoscritto presso i Riformatori dello Studio di Padova, per consentire il confronto tra il manoscritto approvato e la stampa. Ne conseguì un intensificarsi dei controlli sulla stampa ebraica da parte degli Esecutori contro la bestemmia, come dimostrano i numerosi interventi censori eseguiti sui testi editi in quegli anni.
Di questo clima G. fece le spese nel settembre 1568, allorché si procedette alla confisca di almeno sedici-diciassette titoli, stampati dal 1566 in avanti, per un totale di circa 20.000 copie: fra gli stampatori costretti a pesanti ammende fu anche Giovanni. La politica vessatoria delle autorità veneziane nei confronti della stampa ebraica continuò anche negli anni seguenti: il 18 dic. 1571 fu proibito agli ebrei di lavorare nelle tipografie, con grave danno per la qualità delle edizioni in ebraico. Per sopperire a tali inconvenienti, gli stampatori cristiani ottennero di potersi servire di ebrei come correttori di bozze e curatori delle edizioni. Tra i collaboratori di G. troviamo così rinomati rabbini come Shemuel Archivolti, Leone da Modena e Yiṣḥaq Gershon (1550-1626 circa, "predicator di Ghetto"), che per primo sostenne l'importanza di aggiungere un indice alle opere in ebraico, e stampatori ebrei di grande perizia come Asher ben Ya'aqov Parenzo. Anche l'Inquisizione continuò a controllare attivamente la stampa ebraica, servendosi, per questo difficile e delicato compito, della collaborazione di neofiti quali esperti di ebraico. Fu proprio uno di questi, Domenico Gerosolimitano, che mise nei guai G., il quale, nel 1592, incorse nuovamente nelle maglie della censura, questa volta di quella inquisitoriale. G. aveva dato alle stampe, su richiesta del rabbino Yiṣḥaq Gershon, redattore nella sua tipografia, l'editio princeps delle Mif'aloth Elohim ("Opera Dei") di Yiṣḥaq Abravanel (Isacco Aberbanel), senza seguire la debita prassi censoria. L'opera, stampata in 500 copie, che G. non aveva dato in distribuzione trattenendole nella sua abitazione, fu sottoposta, dopo la stampa, a tre revisori, Marcantonio Marcello, Sebastiano Tagliapietra e il neofito Eusebio Renato. Di questi solo il Renato diede "la fede dell'approbatione", mentre il Tagliapietra, insieme con Domenico Gerosolimitano, l'ex rabbino Shemuel Vivas, convertitosi a Venezia il 6 ag. 1593, rilevò alcune proposizioni eterodosse e ne impose la correzione. Il reperimento presso la Biblioteca nazionale e universitaria di Gerusalemme di due copie dell'opera, una purgata e una nella versione originaria - evidentemente sfuggita ai controlli censori e pervenuta in mani fidate - ci ha permesso di verificare sia che G. aveva realmente cercato di eludere la tappe dell'iter censorio, sia il genere di censure cui furono sottoposte le Mif'aloth Elohim.
G. si spense a Venezia il 6 dic. 1609 nella sua casa di S. Zulian, dove risiedeva almeno dal 1592.
La produzione di G. è assai vasta. Per la loro eleganza, bellezza e accuratezza, le sue edizioni sono state, a buon diritto, paragonate a quelle del Bomberg, e G. può essere considerato il più importante stampatore di libri ebraici a Venezia della seconda metà del Cinquecento. Grazie al già citato provvedimento degli Esecutori contro la bestemmia, si può approssimativamente quantificare il numero di esemplari di alcune opere da lui stampate tra il 1564 e il 1565. In quegli anni G. aveva dato alle stampe 1500 copie del Ḥumas con il Targum e circa 3000 copie di "Sidurini", cioè di Siddurim, libri di preghiere di rito tedesco e spagnolo. Nel complesso, tra il 1565 e il 1610 G. diede alle stampe 273 edizioni, in gran parte di testi ebraici, ma anche di qualche testo latino e perfino italiano (per il loro elenco si rinvia allo studio di A.M. Habermann).
Della vasta produzione di G. ricorderemo solo alcune delle opere più significative. Innanzitutto le otto edizioni della Bibbia completa, fra il 1565 e il 1608, alcune edizioni del Pentateuco con il Targum, altre con commenti - in particolare quello di Shelomoh ben Yiṣḥaq (Rashi) -, edizioni di parti della Bibbia (Salmi, Lamentazioni), una serie di formulari di orazioni per la liturgia quotidiana e per quella festiva dei diversi riti (sefardita, ashkenazita, italiano, romaniota), testi fondamentali della ritualistica quali lo Šulḥan 'Aruk, ṬurḤošen Mišpat, Menorat ha-Ma'or, Sefer ha-Ḥinnuk, 'Ene Yisra'el, classici della letteratura ebraica medievale quali il Keter Malkhut (1570) di Shelomoh Ibn Gabirol o opere del pensiero religioso-filosofico ebraico medievale e moderno, quali il Kuzari (1594) di Yehudah ha-Levi o le Mif'aloth Elohim di Yiṣḥaq Abravanel. G. pubblicò inoltre raccolte di responsi di rabbini del suo tempo: si ricordano i Responsa di Shelomoh ha-Kohen, di Mosheh Alsheikh o Alshekh e di Mosheh Galanti, il Devar Šemu'el di Shemuel Aboav. Nella sua vasta produzione si trovano anche rare opere in yiddish, come Orek Yamim (1599) o Dinim we-Seder (1602); qualche testo latino, quali i Commentaria in quartum et quintum Decretalium (1571) e i Consilia (1571) di Niccolò dei Tedeschi detto il Panormitano, le Constitutiones et privilegia patriarchatus et cleri Venetiarum (1587), le opere di Terenzio (1588) e perfino alcuni testi in italiano, quali le Locutioni delle Epistole di Cicerone (1587) e i Libri dei semplici purgativi (1589). L'ultima opera stampata dalla tipografia di G. fu il noto libro di favole Meshal ha-Qadmonì di Yiṣḥaq ibn ábi Sahulah (1609-10).
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