GIOVANNI di Antonio di Banco, detto Nanni di Banco
Figlio di Antonio e di Giovanna Succhielli nacque negli anni Settanta del Trecento, probabilmente intorno al 1374, come sostiene la critica più recente. Comunque, nel 1414, al momento della sua nomina a podestà di castel San Niccolò, in base alle leggi fiorentine doveva aver compiuto trent'anni.
Antonio di Banco aveva sposato Giovanna Succhielli, nel 1368, e si era immatricolato nella corporazione degli scalpellini nel 1372. Lavorò a lungo per la Fabbrica di S. Maria del Fiore, in qualità di cavapietre, scalpellino, progettista e perfino capomastro. Tenne la bottega di famiglia nel quartiere di S. Ambrogio; mentre la moglie possedeva un podere nella parrocchia di S. Maria a Settignano. Anche lei veniva da una famiglia di scalpellini che mantennero a lungo una importante posizione all'interno della Fabbrica di S. Maria del Fiore.
Vasari (II, p. 161) asserisce che in quanto erede di una famiglia benestante G. praticò la scultura per amore dell'arte piuttosto che per necessità. In realtà G. discendeva non da una famiglia aristocratica, ma da prosperi artigiani che risiedevano nell'area di Borgo Allegri vicino alla chiesa di S. Ambrogio, scalpellini, attivi per l'Opera di S. Maria del Fiore. La sua formazione fu dunque quella tipica di un artigiano fiorentino. Suo nonno Banco di Falco e il suo prozio Agostino di Falco sono nominati nei documenti dell'Opera del duomo come maestri in relazione alla costruzione della cattedrale e del campanile. Il padre di G., Antonio, lavorò per la cattedrale sia agli intagli decorativi, beccatelli, cornicioni, mensole e cornici, sia all'approvvigionamento di materiali.
Tra il 1408 e il 1421 G. eseguì alcune tra le più prestigiose opere di scultura realizzate a Firenze, incluse le tre per Orsanmichele e l'Assunzione della Vergine, che diede il nome di "porta della Mandorla" alla porta nordest di S. Maria del Fiore. Dal 1419 G. aveva raggiunto un eminente stato sociale, tanto da essere frequentemente a capo della sua corporazione, o far parte del Consiglio cittadino.
G. cominciò probabilmente a lavorare come scalpellino fin dall'ultima decade del XIV secolo nella bottega di famiglia e poi nell'Opera di S. Maria del Fiore alle dipendenze rispettivamente dei capomastri Lorenzo di Filippo e Giovanni d'Ambrogio. Nella sezione più bassa della porta della Mandorla di S. Maria del Fiore sono ascrivibili a G. e databili attorno al 1395 uno dei due Angeli benedicenti (quello inferiore), con cartigli, ritratti a mezzo busto entro cornici esagonali, e l'Ercole nudo con pelle di leone tra fogliami di acanto.
G. si immatricolò all'arte dei maestri di pietra e legname nel 1404-05, all'età di circa trentuno anni, ed è menzionato per la prima volta nei documenti della cattedrale (1406-08), durante la seconda fase della decorazione della porta della Mandorla in cui vennero realizzati chiave di volta e sguanci (1404-09). G. fu l'autore dell'archivolto della porta in cui un pentagono fa da cornice a un Cristo in pietà di tre quarti di altezza (1407-09: Firenze, Museo dell'Opera del duomo). Il modellato vigoroso delle membra robuste e l'attenzione alle fonti antiche, per esempio i rilievi romani con storie di Meleagro, sono qui una caratteristica del suo stile.
Quando la tribuna nordovest della cattedrale fu completata nel 1407-08, alcuni operai e artigiani, tra cui Antonio di Banco, procedettero a occuparsi della decorazione degli speroni con statue di profeti a tutto tondo, a grandezza naturale. L'incarico per il primo dei dodici profeti, un Isaia in marmo, che doveva stabilire il precedente per le altre undici figure, fu affidato ad Antonio di Banco e a suo figlio G. il 24 genn. 1408. Dopo meno di un mese, una seconda figura, un Davide profeta, fu commissionato a Donatello. Una delibera del 20 febbr. 1408 stabiliva che il David doveva essere scolpito allo stesso modo e alle medesime condizioni della statua scolpita da Giovanni. Nel dicembre 1408 Antonio ricevette 85 fiorini come pagamento finale per una figura di marmo "facte per Johannes eius filium".
Nell'arco di diciassette mesi un Isaia era stato scolpito da G., un corrispondente David da Donatello, entrambi destinati a decorare gli speroni della tribuna come parte di una serie di dodici profeti. L'Isaia scolpito da G. è la sua prima statua a figura intera che si conosca; essa fu collocata e poi rimossa non si sa per quale motivo. Il David di marmo di Donatello fu conservato presso l'Opera del duomo fino al luglio 1416, quando la statua venne concessa ai Priori delle arti per essere collocata nel palazzo della Signoria. L'opera è identificata con il David spostato al Bargello negli anni Settanta dell'Ottocento e, infatti, sembra una sorta di fratello giovane del S. Giorgio del 1416, inoltre la sua altezza è quasi eguale a quella stabilita dalle indicazioni del 1408, in accordo con la sua storia, mostra evidenti segni di cambiamenti. L'Isaia di G. rimase a lungo sconosciuto finché Lányi (1936) non dimostrò che doveva essere proprio la statua all'interno della chiesa nella navata a destra dell'entrata, trasferitavi dopo la demolizione della facciata nel 1587.
Questa identificazione di Lányi rimane valida ed è accettata dalla critica a dispetto di attribuzioni alternative (Wundram, 1969). Il David di Donatello del Bargello e l'Isaia di G. sono evidentemente una coppia, non solo perché una è il riflesso simmetrico dell'altra in termini di contrapposto e nella corrispondente distribuzione del panneggio sulle spalle, sui fianchi e sulle gambe, ma anche perché ognuna ritrae un profeta biblico come un adolescente. Un'estensione della tribuna sarebbe stata costituita dal David di Michelangelo del 1504. Due putti alati e nudi fungevano da mensole, come atlanti, quello di sinistra opera di Niccolò Lamberti, quello di destra di Giovanni.
Dal momento che Antonio era un membro della commissione formatasi il 2 giugno 1407 per supervisionare la decorazione della tribuna nord della cattedrale, era naturale che G. vi prendesse parte. E di fatto G. fu attivo per l'Opera del duomo intorno al 1406-07, lavorando a fianco del padre e realizzando così il Cristo in pietà e l'Isaia.
Nel 1409 G. lavorò ancora insieme con Donatello a S. Maria del Fiore, agli evangelisti S. Luca e S. Giovanni per la facciata della cattedrale, unitamente a Niccolò Lamberti, che fu incaricato di eseguire S. Marco, e a Bernardo Ciuffagni, che fece il S. Matteo. L'insieme dei quattro evangelisti per la facciata della cattedrale è un progetto documentato a partire dall'acquisto del marmo (1405-07) fino alla collocazione delle statue nel Museo dell'Opera del duomo dopo la seconda guerra mondiale.
G. ricevette il primo pagamento per la statua di S. Luca il 12 giugno 1410; il saldo gli fu dato il 16 febbr. 1413 quando il lavoro fu completato. L'anomala somma di 137 fiorini e 1 lira indica che alcuni documenti di pagamento andarono perduti, inclusa la stima del valore totale della statua, dal momento che gli evangelisti di Lamberti, Ciuffagni e Donatello furono pagati rispettivamente 130, 150 e 160 fiorini d'oro. Le quattro statue furono poste a fianco della porta centrale, a coppie entro nicchie classicheggianti a conchiglia. Il S. Luca in opposizione alla torsione dinamica del S. Giovanni di Donatello o alla fluida triangolarità del S. Marco di Lamberti va inteso come una libera ricerca sulla figura seduta. La natura della posizione seduta è espressa nel S. Luca nel contrappeso di ciascuna delle parti, dalle palpebre alle piante dei piedi. La statua di G. è concepita in modo molto più frontale rispetto a quelle di Donatello o di Lamberti, ed è incisa più in profondità della statua di Donatello, facendo uso soprattutto dello spazio reale. La testa di S. Luca infine evidenzia un gusto profondamente all'antica e richiama i ritratti romani del tipo traianeo e adrianeo.
G. e Donatello sono stati considerati accaniti rivali durante la prima e la seconda decade del secolo; in realtà ci sono prove nell'ambito dei lavori della cattedrale che dimostrano l'esistenza di un'amicizia e di buoni rapporti di lavoro tra G., Filippo Brunelleschi e Donatello. È documentato, per esempio, che G. fu garante di Donatello presso l'Opera del duomo per anticipi di pagamento per la serie dei Profeti del campanile, per la cifra di 10 fiorini d'oro nel marzo 1416 e di 20 fiorini d'oro nel 1418, sicuramente un gesto di stima se non di amicizia. E nel 1419 al triumvirato costituito da Brunelleschi, Donatello e G. fu pagato un totale di 45 fiorini d'oro per la preparazione di un grande modello della cupola di Brunelleschi fatto in mattoni. Quattro mesi dopo G. e Donatello fecero parte di una commissione dell'Opera del duomo per valutare il progetto di Brunelleschi per la cupola.
G. contribuì ai tre maggiori gruppi scultorei della chiesa di Orsanmichele. Il suo S. Filippo (1410-12) si trovava nella seconda nicchia da est sulla facciata nord di Orsanmichele. L'originario incarico a G. è documentato in un successivo spoglio non datato di documenti dell'arte dei calzolai.
La nicchia, decorata con marmi bianchi, verde-nero e rosso, con tessere di pasta vitrea blu e oro nel soffitto, presenta attualmente un calco della statua originaria, che è stata spostata nel Museo di Orsanmichele (la recente pulitura ha rivelato tracce di oro nei capelli, nel colletto, nella cinta e nell'orlo della veste). La parete interna presenta una decorazione a losanghe che contengono pannelli di marmo rosso con contorni in verde di Prato. I pilastri esterni sono ricoperti di marmo rosso. Due stemmi ovoidali della corporazione con strisce alternate di marmo bianco e nero fiancheggiano lo zoccolo. S. Filippo è un precoce saggio di classico contrapposto; il piedistallo su cui compare il nome del santo apostolo è a sinistra dello spettatore rispetto all'asse centrale, in modo che il contorno bidimensionale della statua e la veduta frontale della nicchia stanno fra loro in equilibrio. Tutte le coordinate interne ed esterne sono misurate dal rapporto tra il putto al centro del fregio di acanto nello zoccolo e le dodici lettere semigotiche del plinto. La posizione decentrata del plinto si concentra nell'asse verticale del corpo di s. Filippo rispetto al tabernacolo. Questi elementi diagrammatici sono orchestrati per enfatizzare la torsione del santo, il cui orientamento è enfatizzato nella cuspide dal rilievo del busto di Cristo con la testa di tre quarti; il putto a cavalcioni del fregio dello zoccolo mima l'attitudine del Cristo e di s. Filippo guardando verso nordest, oltre la sua spalla. Il S. Filippo può essere considerato la più accademica delle opere di G., che scelse di ridurre al minimo i dettagli iconografici e descrittivi, preferendo concentrarsi su una chiarificazione della figura in sé. Esso sembra aver ispirato il reliquiario del braccio di s. Filippo (1425), attribuito ad Antonio di Piero del Vagliente, su modello di Michelozzo.
Il magistrale gruppo di G. i Quattro santi coronati (dal 1409 circa fino al 1416-17), protettori della sua corporazione, l'arte dei maestri di pietra e legname, è una delle opere più importanti del primo Rinascimento fiorentino. Il gruppo dei Quattro santi coronati appare come la realizzazione degli ideali repubblicani promossi dai mercanti e dagli artigiani delle corporazioni fiorentine. Era stato già programmato ed era in costruzione nel 1409, verosimilmente su commissione dei consoli della corporazione di cui faceva parte anche il padre di G., Antonio, che era stato eletto nel gennaio 1409.
Una dinamica interazione tra architettura e scultura dà una veridicità senza precedenti alla composizione, raggiunta attraverso l'uso dello spazio reale piuttosto che grafico. L'opera si può dividere in tre zone: il coronamento dove la figura a mezzo busto di un Cristo benedicente in altorilievo sporge sulla nicchia che è divisa in tre parti da colonnette con capitelli, ricoperte da una tenda; all'interno si trova il gruppo di quattro statue; le due alla destra dello spettatore sono scolpite nello stesso blocco di marmo, su una piattaforma concava semicircolare che costituisce il pavimento della nicchia; nello zoccolo fiancheggiato dagli stemmi della corporazione il rilievo raffigura quattro scalpellini al lavoro. Il soffitto della nicchia presenta un elaborato intarsio policromo con verde di Prato e pasta vitrea blu; anche i pinnacoli esterni mostrano tracce di colore. La piattaforma su cui si trovano le statue è rivestita in marmo grigio venato; il rivestimento avvolge le basi degli stipiti esterni della nicchia. Una vendita di marmo fatta dall'Opera del duomo alla corporazione degli scalpellini nel 1415 indica che il lavoro era in atto a quel tempo; dunque il gruppo scultoreo deve essere collocato cronologicamente tra il 1409 circa e il 1416-17.
I Quattro santi coronati erano i patroni dei maestri di pietra e legname, una delle cinque corporazioni mediane e la dodicesima in ordine di importanza tra le corporazioni cittadine. La resa di G. dei Quattro santi coronati presta poca attenzione alla complicata leggenda dei martiri romani della Pannonia, che, durante il regno di Diocleziano, scelsero la morte piuttosto che accettare di scolpire un'immagine del dio Esculapio. Invece i quattro uomini, ritratti durante una seria, ma armoniosa, conversazione, sono vestiti all'antica con toga e sandali romani. Il rilievo dello zoccolo piuttosto che narrare un episodio del martirio rappresenta muratori, lastraioli e scalpellini al lavoro, vestiti secondo la moda del tempo, con lo scultore alla destra che completa l'immagine di un putto nudo senza ali. Questo rilievo deriva in ultima istanza da una stele funeraria romana con raffigurazione di artigiani.
Le teste dei quattro santi, sebbene evidentemente derivate da varie fonti antiche, non ripropongono uno stile preciso. La statua barbata alla sinistra del gruppo (il santo più vecchio) ha un'aria vagamente aureliana, ma non può essere identificata con uno dei ritratti di Marco Aurelio; non convince nemmeno il riferimento di Horster a una testa di bronzo di Settimio Severo. Essa ha, invece, una lontana somiglianza con le teste dei filosofi di età imperiale romana, per esempio la testa di Plotino di Ostia del III secolo. Il santo all'estrema destra può essere messo in rapporto per alcuni dettagli con la ritrattistica imperiale del III secolo. Il secondo e terzo santo del gruppo hanno una profonda affinità con il Bruto dei Musei Capitolini. Il secondo santo da destra assomiglia a un ritratto imperiale del III secolo, come il Treboniano Gallo del Museo archeologico di Firenze. La figura all'estrema destra deriva chiaramente da un oratore, sul tipo di quello del tempio della Fortuna a Pompei (Napoli, Museo nazionale). Qui l'oratore romano è adattato a un gruppo di figure, e perciò conferisce al tipo del retore una nuova intimità e un diverso naturalismo.
I Quattro santi coronati ebbero un effetto importante sull'arte italiana del XV e XVI secolo, evidente innanzitutto nella configurazione ellittica del Tributo di Masaccio (Kreytenberg), dove la testa del santo che parla è interpretata come s. Giovanni Evangelista. L'organizzazione semicircolare delle figure trova la sua ultima elaborazione nella Scuola di Atene e nella Disputa del Sacramento di Raffaello nella stanza della Segnatura in Vaticano.
Il S. Eligio di G. (circa 1417-21) venne probabilmente collocato sulla parete ovest di Orsanmichele tra il S. Matteo e il S. Stefano di Lorenzo Ghiberti, dopo la morte di G., intorno al 1422. La nicchia è composta di pietre bianche e nere (verde di Prato), i pannelli interni presentano immagini di tenaglie, simboli della corporazione dei fabbri. Gli stemmi della corporazione sulla base dello zoccolo presentano scudi con intarsi di tenaglie e foglie di acanto che dovevano essere completati da piccole borchie d'oro e di vetro, sistemate mediante un profondo lavoro di trapano. Tracce abbondanti di pittura circondano bianche rosette intarsiate nelle volte del soffitto. Attualmente nella nicchia si trova un calco della statua originale: la pulitura del 1989 e la rimozione di una tarda bronzatura applicata all'intera superficie di marmo ha rivelato tracce di colore già notate da Vaccarino (1950) e ora di nuovo visibili a occhio nudo. S. Eligio, vescovo di Noyon, era il santo protettore della corporazione dei fabbri. Un'accentuata verticalità, arcaizzante secondo i canoni gotici, domina il gruppo del S. Eligio, ed è sottolineata anche da alcuni dettagli della figura stessa: la mitra decorata del santo rimanda alle altrettanto appuntite decorazioni del soffitto e il suo abito clericale, un irrisolto incrocio fra una veste vescovile, nella parte alta, e una toga classica, inferiormente, dà vita a un'inusuale statua a vita alta con spalle scese.
L'analisi stilistica dei rilievi della cuspide indica che il S. Eligio fu l'ultimo lavoro di G. per Orsanmichele. Il Cristo benedicente possiede una profondità atmosferica ottenuta attraverso il rilievo schiacciato e l'ampio modellato. Questo esperimento di usare lo schiacciato fu probabilmente suggerito a G. dal Dio Padre e dal S. Giorgio che uccide il drago di Donatello per il tabernacolo Corazzai, realizzato intorno al 1417.
Nonostante la paternità della scultura spetti a G., molti particolari del gruppo di S. Eligio indicano che si tratta di un'opera non finita, assemblata e collocata dopo la morte di Giovanni. La semplicità della decorazione sull'esterno della nicchia è un elemento dissonante; inoltre nella parte superiore è squilibrata la figura del Cristo benedicente collocata entro un timpano troppo grande: la parte decorata della cuspide fu probabilmente trovata nella bottega di G. dai suoi aiutanti e sommariamente inserita in un contesto decorativo rimasto vuoto. Infine l'ultimo curioso aspetto della composizione del S. Eligio è costituito dagli intarsi in marmo che decorano le pareti interne della nicchia: un grande paio di tenaglie si trova su una esile diagonale in ciascuna sezione, motivo che si ripete nei piccoli intarsi degli scudi ellittici che si trovano agli angoli dello zoccolo. Questo ripetuto motivo decorativo ha però un rapporto infelice con la statua: le tenaglie infatti puntano all'interno e verso l'alto, fissando concettualmente la figura del santo in una posizione centrale e verticale, come se l'intera composizione fosse organizzata sulla base delle indicazioni araldiche. A parte la mitra da vescovo, la testa di s. Eligio potrebbe essere stata ispirata da un antico ritratto, per esempio di Caracalla. La statua nel suo insieme potrebbe essere stata influenzata da un tipo di statuaria composita, in cui, tra l'altro, la testa medievale venne rimpiazzata da una antica o all'antica.
Il rilievo dello zoccolo, che a una prima occhiata sembra raffigurare un unico episodio narrativo, in realtà presenta diversi brani della leggenda del santo. Precedenti tipologici si ritrovano tra i rilievi funerari romani, mediati dal repertorio di rilievi marmorei di Andrea Pisano. Il S. Eligio di G. a Orsanmichele fu l'immediato precedente per l'Incoronazione della Vergine con i ss. Giovanni Evangelista, Agostino, Girolamo ed Eligio di Sandro Botticelli realizzata per la corporazione di Por S. Maria, ovvero della seta, per decorare la cappella degli orafi dedicata a s. Eligio in S. Marco. Sebbene la pala fosse dedicata a s. Eligio, più come patrono degli orafi che della corporazione dei fabbri, le scene della predella sono prese direttamente dal rilievo di G. in Orsanmichele con qualche minima variante. Il fatto che gli orafi, che appartenevano alla potente corporazione della seta, avessero scelto di ritrarre s. Eligio come un semplice fabbro al lavoro, derivando il modello da un'opera commissionata dai fabbri stessi, dimostra lo storico apprezzamento per la composizione di Giovanni.
Il grande rilievo di G., l'Assunzione della Vergine (1414-22) a S. Maria del Fiore è situato entro il timpano triangolare al di sopra della porta della Mandorla. La versione di G., che mostra l'assunzione di Maria (portata in alto in una mandorla dagli angeli musicanti) e la donazione della cintola a s. Tommaso, non devia dalla locale tradizione dei precedenti pittorici, tipizzati dal tabernacolo della Vergine dell'Orcagna. Al centro del circoscritto spazio triangolare una mandorla solida ed elegantemente cesellata contiene la Vergine che ascende al cielo. Realizzata in altorilievo, Maria si volge per porgere la cintola a s. Tommaso inginocchiato con le mani alzate nell'angolo in basso a sinistra. All'angolo opposto un orso arrampicandosi su delle rocce si aggrappa a una quercia, come se stesse raccogliendo le ghiande. Quattro angeli adolescenti ai lati spingono la mandorla verso l'alto; altri due più giovani suonano delle trombe; un angelo in piedi in equilibrio sull'apice del triangolo con una cornamusa fissa il resto della scena. Due cherubini, all'interno della mandorla, si trovano ai lati della Vergine; la testa e le ali di un altro cherubino sono dentro la mandorla ai piedi della Vergine. Incornicia il rilievo un alternarsi di candelabre rese in prospettiva come se fossero viste dal basso. Nella parte più esterna la decorazione a rilievo con otto teste di leone in granito verde (ora alquanto rovinate), inserite in quadrifogli di marmo di Carrara, i lobi dei quali sono intrecciati con gigli fiorentini rossi, serve a sottolineare il significato civico della porta della Mandorla.
Le fonti antiche anticipano quello che adesso è un dato di fatto: Francesco Albertini (1510) attribuì a G. l'Assunzione, seguito da Antonio Billi (1481-1530) e dall'Anonimo Gaddiano. Vasari, invece, nella sua prima edizione confutò questa attribuzione nelle vite di G. e di Iacopo della Quercia, assegnando il rilievo a quest'ultimo. Vasari infatti riteneva l'Assunzione un lavoro così raffinato e così moderno da essere riluttante nell'ascriverlo a G., soprattutto dal momento che era così vicino allo stile di Iacopo della Quercia. Nell'edizione del 1568 invece l'unica discussione sull'Assunzione compare nella vita di Iacopo, facendo così pensare che avesse preso una decisione definitiva al riguardo. Gelli ammirava la "varia e bella composizione" al pari di Vasari, ma era dell'idea di attribuire l'opera a G., nonostante sembri aver scritto la maggior parte delle vite sotto l'influenza di Vasari stesso. Baldinucci infine era sorpreso riguardo al giudizio di Vasari e indicava i documenti conservati nell'archivio dell'Opera del duomo. La pubblicazione integrale dei documenti da parte di Poggi nel 1909 comprovava la paternità di Giovanni.
La documentazione primaria riguardante l'Assunzione di G. è insolitamente completa. Il 9 giugno 1414, con Antonio di Banco in qualità di capomastro, G. ricevette l'incarico del frontespizio sopra la porta della Mandorla. G. stesso all'epoca era un console della corporazione degli scalpellini e il 28 aprile era stato sorteggiato podestà di Montagna Fiorentina per un periodo di sei mesi a cominciare dal 22 ag. 1414. Il soggiorno di sei mesi in Casentino, insieme con il progressivo procedere dei progetti di Orsanmichele, spiega perché G. ricevesse il primo pagamento per il timpano solo quasi un anno dopo l'incarico originario: cinque giorni dopo il padre morì (lo stesso giorno lo zio Iacopo Succhielli diventò capomastro) e gli Operai diedero a G. 30 fiorini "figuris et laborerio quas et quod facit et facere debet", indicando che l'incarico era interamente reclamato da G.; seguì un altro pagamento il 20 agosto. In seguito i documenti tacciono per circa un anno, dopo che G. divenne podestà di Castelfranco di Sopra nella valle dell'Arno per i mesi di luglio-dicembre 1416. Il 13 maggio 1417 ricevette finalmente un altro isolato pagamento, della somma di 27 fiorini; nove mesi dopo (febbraio 1418) ricevette 30 fiorini per il rilievo "per eum incepti". A questo punto il lavoro doveva essere realmente in corso, e i pagamenti che seguono sono più frequenti e specifici: 20 fiorini nel giugno 1418, 50 nell'ottobre 1418, "in mutuum super sex figuris marmoreis"; 40 fiorini nel dicembre 1418; 20 nel maggio 1419. L'ottobre successivo egli fu pagato 30 fiorini "super pluribus figuris marmoreis", indicando chiaramente che a quel tempo erano state scolpite varie altre figure oltre alle sei menzionate l'anno prima. Un pagamento di 80 fiorini, il 21 febbr. 1420, dimostra che a quel punto la maggior parte del rilievo, se non tutto, doveva essere stata completata. L'anno successivo non ricevette pagamenti per l'Assunzione, mentre ebbe un ruolo nel governo e fu tra i consiglieri per la cupola di Brunelleschi. Janson ha concluso che nel 1418 una metà, o al massimo due terzi delle figure erano terminate; mentre la produzione più massiccia del rilievo risale agli ultimi tre anni della vita di G.; anche Wundram (1969) riteneva che G. dedicò molto tempo all'Assunzione nel 1418 per completare le sei figure e che concluse il rilievo fra il 1418 e il 1420.
Un anno dopo l'ultimo e più importante pagamento G. morì, e fu stabilito che la somma avuta fosse sufficiente per saldare il lavoro dal momento che non era stato completato. La serie dei pagamenti ci permette di concludere con ragionevole certezza che a partire dal febbraio 1418, fin dalle prime rate date pro forma, G. aveva cominciato a lavorare all'Assunzione e che aveva più o meno finito la parte figurativa della composizione nel febbraio 1420. Non solo è provata l'autenticità del rilievo, ma la datazione è concentrata entro un periodo relativamente breve di circa due anni, che corrobora anche la tesi di una coerenza stilistica dell'opera.
La fonte tipologica per la Vergine nella mandorla è l'Annunciata in piedi a grandezza naturale che è stata recentemente portata nel Museo dell'Opera del duomo dal tabernacolo di destra del portale sudovest (porta del Campanile), scolpita probabilmente alla fine del Trecento. Quasi tutti gli studiosi che hanno considerato con attenzione il rilievo di G. dell'Assunzione sono giunti alla conclusione che esso contiene le radici dell'arte di Luca Della Robbia, e che Luca possa aver assistito all'esecuzione del rilievo.
Se si conferma la data di nascita attorno al 1374 G. doveva avere circa quarantasette anni quando morì nel 1421, proprio all'apice della sua carriera.
Nella prima edizione delle Vite Vasari asseriva che G. era morto a quarantasette anni nel 1430 per una malattia addominale che gli aveva causato grandi sofferenze. Successivamente Gelli, seguito da Vasari nell'edizione del 1568, confermò il motivo della morte in giovane età, sottolineando che, se la sua vita non fosse stata tragicamente interrotta, sarebbe stato il quarto insieme con la più famosa triade di Brunelleschi, Donatello e Ghiberti.
Secondo la tradizione il Beato Angelico ritrasse G. scultore e suo amico nella figura di s. Cosma nella Crocifissione nella sala del capitolo di S. Marco. Il supposto ritratto dal vivo, come ricorda Vasari, sarebbe la seconda figura a sinistra dello spettatore nella lunetta.
G. scelse di prendere parte attiva alla vita politica fiorentina ed entrò nella sfera pubblica attraverso la posizione raggiunta dalla famiglia e da lui stesso nella corporazione degli scalpellini. Il suo cammino nella vita pubblica fu preparato dalla famiglia e in modo particolare da suo padre Antonio che raggiunse la doppia posizione di artigiano e supervisore nella Fabbrica del duomo.
Fin dall'inizio della sua carriera Antonio appare non solo un artigiano salariato ma anche un imprenditore, un fornitore all'ingrosso del materiale da costruzione. G. probabilmente contribuì con il piccolo Ercole nella porta della Mandorla intorno al 1395, quando il nome del padre appariva nei libri paga della cattedrale insieme con importanti maestri attivi nella stessa porta come Giovanni d'Ambrogio, Lorenzo di Filippo e Niccolò Lamberti. Antonio era occupato nella produzione del fregio dell'archivolto della porta della Mandorla, un progetto per cui G. scolpì la chiave di volta con il Cristo in pietà ora nel Museo del duomo. Ancora più importante ai fini della storia dell'arte è il fatto che a G. in collaborazione con il padre nel gennaio 1408 fu commissionata la statua di Isaia che doveva stare su uno degli speroni della tribuna. L'attività a Orsanmichele di G. includeva il S. Filippo per la corporazione dei calzolai. G. in questo periodo era anche nel mezzo della creazione dei Quattro santi coronati per la propria corporazione degli scalpellini, un incarico che gli venne dato probabilmente durante il consolato del padre nella primavera del 1409.
Antonio era un importante membro dell'arte dei maestri di pietre e legname. Venne eletto console sette volte a partire dal gennaio 1395, per finire nel maggio 1415, quando aveva raggiunto la posizione di capomastro del duomo. L'arte della lana nominò Antonio di Banco capomastro dell'Opera del duomo di S. Maria del Fiore nel dicembre 1413: il suo ruolo ebbe inizio il 1° genn. 1414 e si concluse con la sua morte nel maggio 1415. Come capomastro Antonio entrò nella fase più produttiva della sua carriera amministrativa. Sotto la sua direzione ebbe inizio la seconda tribuna e nello stesso periodo suo figlio G. ricevette l'incarico di realizzare l'Assunzione della Vergine. Nel 1411 G. insieme con il padre fu scrutinato per il priorato. Nessuno dei due venne scelto, nonostante Antonio avesse ricevuto un elevato numero di voti: settantasette, contro i quarantatré di Giovanni. Il nome di Antonio venne fatto di nuovo per il Consiglio del Comune nel settembre 1412. Poco più di un anno dopo che il mandato era scaduto egli diventò capomastro dell'Opera del duomo, e fu perciò interdetto dalle cariche pubbliche. In ogni caso il nome di Antonio non venne più fatto; ed egli morì anziano, essendo ancora capomastro, il 22 maggio 1415, durante un viaggio fatto per controllare alcune foreste di proprietà del duomo nel contado fiorentino.
Seguendo le orme del padre G. fu prima eletto al consolato della sua corporazione nel gennaio 1412; mentre durante il 1411 sia G. sia il padre erano stati scrutinati ma poi rifiutati dalle alte cariche esecutive della città di Firenze. Questi avvenimenti risalgono al tempo in cui G. lavorava alla realizzazione del S. Luca per la facciata del duomo, del S. Filippo e dei Quattro santi coronati per Orsanmichele. Alla fine di aprile 1414 (probabilmente come risultato della riforma elettorale del 1412 in senso popolare) il nome di G. venne fatto nell'ambito di cariche pubbliche: fu nominato podestà di Montagna Fiorentina. Fin dal 22 agosto G. dovette risiedere a Castel San Niccolò, nel Casentino, vicino al più noto castello di Poppi; il 1° maggio venne rieletto console della corporazione fino a tutto l'agosto successivo. Apparentemente non esisteva alcun impedimento legale che proibisse di mantenere i due incarichi; e G. era pronto ad affrontare le responsabilità legate ai problemi della corporazione a Firenze, agli impegni pubblici di Castel San Niccolò e al più importante incarico artistico, ovvero i Quattro santi coronati per la sua stessa corporazione, che era allora in corso d'opera. In realtà nel mezzo di questi incarichi pubblici G. ricevette (19 giugno 1414) l'incarico per l'Assunzione della Vergine per il duomo, mentre suo padre era capomastro. Il nome di G. venne fatto di nuovo nell'ottobre 1414 e nel gennaio 1415, rispettivamente per le podesterie di Tizzana e di Buggiano, ma egli non fu scelto, dal momento che aveva appena avuto l'incarico a Montagna Fiorentina. Dopo la morte del padre, durante l'esecuzione del rilievo dell'Assunzione e quando stava ancora lavorando ai Quattro santi coronati, venne eletto podestà del dominio fiorentino di Castelfranco di Sopra per sei mesi a cominciare dal luglio 1416; scaduto il mandato, egli divenne console della corporazione a partire dal gennaio 1417, ed esattamente un anno dopo venne rieletto. G. ricopriva queste cariche mentre stava finendo i Quattro santi coronati e lavorava a pieno ritmo all'Assunzione e stava iniziando il S. Eligio per la corporazione dei fabbri in Orsanmichele.
Nel maggio 1419 gli Operai del duomo pagarono G. per due rilievi scolpiti con gli stemmi della loro corporazione della lana (l'Agnus Dei) che erano parte di un gruppo scultoreo per la facciata dell'appartamento papale a S. Maria Novella. Sembra che nessun incarico della corporazione della lana fosse troppo insignificante per G., che quell'estate scolpì altri quattro rilievi dell'Agnus Dei (questa volta commissionati direttamente dall'arte della lana) per alcune case coloniche fuori porta Pisana che erano state lasciate alla corporazione. Il settembre successivo fu di nuovo eletto console della corporazione degli scalpellini.
Il periodo di maggiore impegno civico di G. coincise con il suo lavoro per il tabernacolo di S. Eligio a Orsanmichele e la sua più intensa attività nella realizzazione dell'AssunzionedellaVergine. Il 12 sett. 1419 il nome di G. venne fatto di nuovo ed egli fu eletto senza difficoltà tra i Dodici buonuomini. I Dodici includevano tre eletti provenienti da ciascuno dei quattro quartieri della città e avevano una notevole autorità, poiché dovevano consigliare la Signoria nelle questioni politiche e nella selezione dei funzionari. Con questo incarico G. entrò nei ranghi dei veduti, ovvero coloro i cui nomi erano stati sorteggiati per uno qualsiasi dei tre Consigli maggiori.
Il secondo giorno del nuovo anno fiorentino, il 27 marzo 1420, G. faceva parte di una commissione di quattro persone, una per ciascun quartiere, riunite per approvare gli statuti della podesteria di Valdambra. Più o meno un anno dopo, il 16 genn. 1421, G. fu chiamato a far parte del Consiglio dei duecento, creato per appoggiare il gruppo dirigente degli Albizzi, carica che doveva mantenere per sei mesi, ma un mese dopo la sua elezione il 9 febbr. 1421 G. scrisse il proprio testamento in favore di sua moglie e morì pochi giorni dopo.
G. non aveva bisogno di partecipare al governo per ottenere importanti incarichi pubblici. Per certi incarichi l'essere affiliati a un mestiere poteva essere più importante della protezione politica. Lontano dall'usare il proprio impegno civico ai fini di una affermazione in campo artistico, la partecipazione alla vita pubblica sia di Antonio, sia di G. sembra essere stato il risultato della loro importanza nell'ambito dell'attività per l'Opera del duomo e per la corporazione degli scalpellini, che era direttamente legata agli Albizzi. Facendo così il padre Antonio e lo zio Iacopo di Niccolò Succhielli sostennero G. nelle sue aspirazioni civiche e nel successo professionale. G. seguì le orme paterne ma su scala maggiore e ubbidì a un ideale del primo Rinascimento ben chiarito dai Quattro santi coronati.
La fortuna critica di G. fu tuttavia modesta: Vasari (II, p. 161) nella sua zelante esaltazione di Donatello come eroe protomichelangiolesco ritenne giusto (a un secolo e mezzo di distanza) caratterizzare G. come scialbo seguace di Donatello: "persona alquanto tardetta". Il comico racconto di Vasari (ibid., p. 163) ricorda che G. era incapace di far entrare le quattro statue dei Quattro santi coronati dentro la nicchia a Orsanmichele e che un'ingegnosa soluzione fu trovata da Donatello, il quale con i suoi garzoni se la rideva alle spalle di Giovanni. Riveduta dalla critica moderna la distorta considerazione vasariana, G. è ormai considerato uno degli artisti più innovativi del primo Rinascimento in Italia.
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