GIOVANNI della Verna (Giovanni da Fermo)
Nacque nel 1259 a Fermo, da una famiglia piuttosto agiata. La tradizione che identifica questa famiglia con gli Elisei di Foligno, recepita da alcuni biografi, non trova alcun fondamento nelle fonti più antiche.
G. dimostrò fin dall'infanzia una spiccata sensibilità religiosa: all'età di sette anni cominciò a manifestare una speciale devozione al Crocefisso, che si accompagnava a pratiche di penitenza e di mortificazione particolarmente severe. I genitori assecondarono le sue tendenze religiose e nel 1269 lo fecero entrare a Fermo nell'Ordine dei canonici regolari di S. Agostino, dove G. rimase per tre anni, cercando di conciliare il forte impulso ascetico con lo stile di vita non particolarmente rigido dei canonici. G. però venne a conoscenza della maggiore austerità dei frati minori e, grazie a contatti segreti con il guardiano di quest'ordine, ottenne nel 1272 di vestire l'abito francescano nel convento di Fermo.
Pochi sono i dati documentabili sulla sua vita di frate durante il ventennio che trascorse nella provincia marchigiana. Certamente si trovava nel convento di Massa quando, forse nel 1289, ebbe una visione del confratello Giovanni da Falerone morente nel convento di Mogliano e si recò a visitarlo. Certamente nelle Marche ebbe un'altra visione, nella quale gli apparve s. Francesco che contendeva con i demoni alla presenza del Cristo, visione che avvenne in coincidenza con il capitolo provinciale delle Marche e con la tormentata elezione di frate Salomone da Lucca alla carica di ministro provinciale, elezione collocabile tra il 1287 e il 1289. Le fonti si dilungano nel descrivere le virtù squisitamente francescane che contraddistinguevano G.: l'umiltà, che lo spingeva a esercitare in convento e fuori dal convento i mestieri più umili; la povertà, in nome della quale non volle mai possedere altro che la propria veste e un piccolo breviario; la profonda spiritualità, che lo faceva rifuggire dalle cose del mondo e lo spingeva a ricercare attraverso la mortificazione della carne e l'ascesi della preghiera le gioie della contemplazione. Proprio la sua indole contemplativa gli consentì di attraversare senza esplicite prese di posizione il tormentato periodo di lotte interne all'Ordine che, nella provincia delle Marche in modo particolare, contrapponevano la fazione rigorista e spirituale alla più moderata e lassista comunità. G. non partecipò mai attivamente al conflitto, anzi, a giudicare dagli accenni contenuti nella Vita, si sottraeva volutamente ai tentativi di coinvolgimento, preferendo il rigore e la povertà individuali a ogni atteggiamento di critica nei confronti dell'istituzione. Le pratiche ascetiche e le tendenze contemplative si accentuarono ulteriormente quando, nel 1292, si stabilì nell'eremo della Verna, nel Casentino, dove trascorse il resto dei suoi giorni.
Penitenze e digiuni al limite della sopravvivenza scandivano la sua vita, che alternava lunghi periodi di solitudine eremitica a momenti di maggior apertura al mondo, consacrati all'esercizio della predicazione itinerante. Il fervore della carità e il desiderio di convertire i peccatori lo spingevano infatti ad abbandonare di frequente le vette della contemplazione e il rigore dell'ascesi personale per dedicarsi all'edificazione del prossimo. Della sua intensa attività sermocinale, svolta per lo più nelle città toscane, non ci sono rimaste testimonianze dirette; tuttavia le fonti ci permettono di ricostruire almeno in parte i tratti peculiari della sua predicazione. La mancanza di una solida preparazione grammaticale e teologica lo rendeva incapace di adattarsi alla rigida struttura del sermo modernus: la Vita riferisce della sua difficoltà a sviluppare un sermone secondo le tecniche elaborate nelle scuole e sottolinea invece la sua straordinaria abilità esegetica che, frutto dell'ispirazione divina più che dello studio, gli consentiva di affrontare con sicurezza l'interpretazione spirituale dei passi biblici, adattandone la lezione morale a qualunque tipo di uditorio: religiosi e laici, dottori e cardinali, e perfino l'imperatore Enrico VII che nel settembre del 1312 si recò alla Verna con la sua corte per ascoltarlo. Ancora pochi mesi prima della morte lo troviamo a Siena a predicare la quaresima di fronte a un pubblico particolarmente colto, che egli riuscì comunque ad affascinare grazie all'esposizione mistica dei Vangeli. L'ispirazione soprannaturale della sua predicazione è confermata in maniera eclatante dall'ultimo sermone che, secondo il racconto della Vita, G. tenne ai confratelli quando ormai si trovava sul letto di morte; in questa circostanza G. mostrò una perfetta padronanza delle tecniche retoriche, esprimendosi in un latino inspiegabilmente corretto, che lasciò stupefatti gli ascoltatori, ben consci dei suoi limiti culturali.
Al di fuori degli impegni per la predicazione, G. non uscì che raramente dal convento della Verna. Se ne allontanò nel 1306 per recarsi a Collazzone a visitare Iacopone da Todi morente. Il poeta, impegnato in prima persona nella battaglia contro il rilassamento dell'ordine, era legato a G. da una profonda amicizia, in nome della quale gli aveva inviato qualche anno prima una poesia accompagnata da una lettera consolatoria in occasione di una sua malattia. Ammalatosi a sua volta e ormai vicino alla morte, Iacopone, che nonostante le insistenze dei confratelli, si rifiutava di ricevere gli ultimi sacramenti, venne visitato da G., il quale miracolosamente informato della malattia, giunse al suo capezzale appena in tempo per prestargli assistenza spirituale e per sentire l'ultima laude uscire dalla sua bocca.
Nel 1309 G. si recò ad Assisi per acquistare l'indulgenza della Porziuncola; ed era probabilmente con questa intenzione che aveva intrapreso anche il suo ultimo viaggio, quando un aggravamento delle condizioni di salute lo bloccò a Cortona e lo indusse a tornare alla Verna.
Entrambi i viaggi testimoniano il particolare attaccamento di G. alla pratica devozionale del Perdono di Assisi, pratica che egli contribuì a incoraggiare portando la propria testimonianza sull'indulgenza della Porziuncola. Di fatto in un documento stilato il 24 luglio 1311 alla Verna, su mandato del custode del convento e alla presenza di diversi confratelli, G. sottoscrisse e attestò la veridicità di alcune dichiarazioni relative all'indulgenza. Il documento, contenuto in un codice del XIV secolo conservato nella Biblioteca del convento della Verna (Oliger, 1913), comprende una serie di testimonianze databili tra il 1270 e il 1277, cui va aggiunta l'attestazione particolarmente significativa del nipote di frate Masseo, uno dei compagni di Francesco presenti all'incontro in cui il papa concesse l'indulgenza. Si tratta dunque delle testimonianze più antiche e autorevoli sull'argomento, perfettamente coincidenti con quelle riportate dal quasi contemporaneo diploma del vescovo Teobaldo di Assisi. La sottoscrizione di G. oltre a fornire un'importante conferma alle attestazioni più antiche dell'indulgenza, documenta anche la sua personale convinzione e testimonia il forte radicamento del Perdono di Assisi nella spiritualità francescana a un secolo circa dalla morte del fondatore.
Fatta eccezione per questi sporadici viaggi e per le uscite legate alla predicazione, la vita di G. si svolse quasi completamente all'interno dell'eremo della Verna. In questo luogo, segnato dalle esperienze mistiche prima di Francesco e poi di Bonaventura, G. visse un trentennio quasi esclusivamente dedicato all'ascesi e alla contemplazione. Nonostante il riserbo di cui G. circondava la propria vita interiore, la frequenza e l'intensità delle esperienze mistiche non poteva sfuggire ai confratelli, uno dei quali, a lui legato da particolari rapporti di amicizia, ebbe anche modo di riceverne le confidenze dirette. Le diverse fonti segnalano numerosi episodi particolarmente significativi: gli Actus e i Fioretti parlano di apparizioni di confratelli appena defunti, di visioni delle anime del purgatorio, di contemplazione diretta del mistero della Trinità; la Vita menziona le visioni angeliche, le apparizioni di s. Lorenzo cui G. era particolarmente devoto, della Vergine Maria, che si trattenne per una giornata intera nella sua cella, di s. Francesco, del quale egli ebbe il privilegio di poter toccare le stimmate, confermando in tal modo le affermazioni di Bonaventura. Entrambe le fonti insistono soprattutto sulla frequente presenza cristica nelle visioni del frate e riferiscono con modalità diverse, ma senza sostanziali divergenze, quella che tra le tante è forse la più sconvolgente: l'apparizione del Cristo durante la celebrazione dell'eucarestia. Nella visione di G., un'esperienza talmente intensa da lasciarlo in uno stato di semincoscienza per diverse ore, ritroviamo alcuni tratti caratteristici della spiritualità francescana: la devozione all'eucarestia, che si traduce in una sorta di visualizzazione del mistero della transustanziazione, ma anche la contemplazione-imitazione del Crocefisso che proprio sulla Verna aveva portato Francesco all'esperienza delle stimmate.
Del percorso estatico G. ha anche abbozzato una sorta di schema, affidato a un brevissimo scritto: Verba de quinque gradibus animae, l'unico che ci abbia lasciato, che riproduce probabilmente la struttura di una conferenza spirituale tenuta ai confratelli, una sorta di introduzione alla vita mistica, spesso utilizzata da G. anche come chiave esegetica nell'esposizione dei sermoni (cfr. Vita, p. 80). Il testo è conservato in una doppia redazione latina e volgare, affidate rispettivamente al ms. Firenze, Bibl. nazionale, Conv. soppressi, Camaldoli 608.C.2, c. 73v, e al ms. Firenze, Bibl. Riccardiana, 1467, c. 48, ed è stato pubblicato prima dall'Oliger (1914) e poi dal Levasti. I Verba scandiscono il percorso dell'estasi mistica secondo cinque tappe: le lacrime e il dolore per i peccati commessi; l'ardore dell'amore divino che si manifesta inizialmente come dolorosa contrazione dell'anima; la soavità che in qualche modo unge e medica le ferite dell'anima, illuminandola e rendendola adatta all'amplesso divino; il riposo in Dio dell'uomo, morto al mondo e alla carne; la gloria in cui l'uomo, innalzato alla condizione celeste, penetra nel mistero della Trinità e coglie nei suoi nessi più intimi la gerarchia delle creature superiori.
Il tentativo di fissare una sorta di disciplina dell'estasi può forse essere messo in relazione anche con un momento particolarmente difficile della vita di Giovanni della Verna. Le fonti attestano infatti un conflitto interiore che sembra contrapporre nella sua spiritualità la conoscenza delle Scritture alla più concreta esperienza dell'estasi; le visioni, il dono delle lacrime, le capacità profetiche sembrano essere in alternativa alla profondità e all'acume esegetico, che si accompagna invece a momenti di drammatica e dolorosa aridità spirituale. Gli Actus e i Fioretti parlano di un lungo periodo di tribolazione, in cui, nonostante le preghiere, le lacrime e le penitenze, G. sembrava aver perso il suo contatto col divino, fino a quando l'apparizione del Cristo non gli restituì moltiplicate le gioie della contemplazione.
G. morì alla Verna il 10 ag. 1322.
Tre giorni dopo la sua morte un frate suo amico ebbe in una visione angelica la conferma della sua gloria celeste. Questo frate, forse lo stesso che aveva ricevuto le sue confidenze relative alle visioni mistiche, si identifica molto probabilmente con l'autore della Vita che è sicuramente opera di un confratello vissuto a lungo accanto a G. e a lui legato da speciale amicizia. Particolarmente scrupoloso nel vaglio delle fonti, l'autore della leggenda dichiara espressamente di omettere i molti miracoli che l'opinione pubblica tendeva ad attribuire a G. e di riferire soltanto episodi ai quali aveva personalmente assistito o che aveva appreso dalle sue stesse labbra e della cui veridicità gli aveva chiesto esplicita conferma al momento della sua morte. Una tradizione che risale alle Conformitates identifica questo frate con Giovanni da Settimo Pisano, ma l'attribuzione non compare nei due manoscritti che contengono l'opera (Firenze, Bibl. Laurenziana, Laur. plut. 27 dextr., 11, e Gadd. plut. 89 inf., 24), e viene espressamente rifiutata dai bollandisti primi editori della Vita, mentre appare probabile al Sabatelli, cui si deve l'edizione critica dell'opera. Al di là dell'attribuzione, la Vita, la cui data di composizione può essere fissata tra il 1330 e il 1340, rappresenta senza dubbio, per la vicinanza dell'autore a G. e per la sua scrupolosità storica, la fonte biografica più importante, alla quale occorre aggiungere la tradizione contemporanea, ma indipendente, degli Actus (e quindi dei Fioretti). A entrambe le fonti attingono le successive compilazioni (CronicaXXIV generalium, Conformitates) che risultano pertanto quasi completamente prive di particolari originali.
La notizia, riportata dal Wadding, che vuole G. autore del "prefazio" della messa di s. Francesco, è stata al centro di un ampio dibattito (Oliger, 1936; Abate; Cresi), ma appare, allo stato attuale della questione, scarsamente attendibile.
Nonostante la fama di santità e una intensa venerazione popolare in Toscana e nelle Marche, il culto di G. fu approvato solo il 24 giugno 1880 dal papa Leone XIII. Il suo corpo è sepolto alla Verna.
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