DELL'AGNELLO, Giovanni
Non conosciamo la sua data di nascita (che è da collocare, forse, nel secondo decennio del XIV secolo), ma si è potuto ricostruire, nelle linee principali, il suo albero genealogico: i fratelli Piero e Lemmo, il padre Cello, il nonno Jacopo, lo zio Netto, il cugino Jacopo e il figlio di questo Lemmo. Ma più importa ricordare le origini e le attività della famiglia nel periodo della formazione del futuro signore di Pisa.
Era, quella dei Dell'Agnello, una famiglia non nobile, ma della più alta borghesia mercantile: "popolare per antichità di sangue non chiaro", come si legge nella Cronaca del Villani. Immigrata in città, forse dalla Maremma e verso l'inizio del sec. XIII, alla fine dello stesso secolo aveva ormai raggiunto un alto livello politico e sociale connesso ad un'attività fondata soprattutto sul commercio, ma non priva, contrariamente a quanto affermato dal Caturegli, di possessi immobiliari in città e nel contado.
Ampia era, alla fine del sec.. XIII e all'inizio di quello successivo, l'area geografica tlegli interessi mercantili di questa famiglia, anche se essi appaiono incentrati soprattutto sulla Sardegna (dove accanto a Cagliari è di rilievo la loro assidua presenza nel Giudicato d'Arborea) e sull'Africa settentrionale; varie pure le sue attività mercantili, cui si univano anche quelle' puramente armatoriali. Alcuni nuclei della famiglia abitavano a settentrione dell'Arno, nel quartiere di Ponte, ma il nucleo familiare di Jacopo e del figlio Cello (il ramo che qui ci interessa) aveva invece la sua residenza nella "cappella" di S. Cristina, a meridione dell'Arno, nel quartiere di Chinzica, come altre famiglie mercantili di recente affermazione (come i Bonconti o i Gambacorta). Possessi terrieri sono testimoniati in varie zone del territorio pisano, ma, come per quasi tutte le altre famiglie cittadine, si trattava di proprietà non grandi, anche se numerose, lontane tra loro, ubbidienti a una "politica" di acquisti che non rispondeva, come invece a Firenze, ad una logica di riappoderamento e di trasformazione delle strutture socioeconomiche del contado.
Degli elementi che conosciamo della biografia del D. prima della sua nomina a doge di Pisa (1364) vanno sottolineati quelli che ci attestano i suoi vasti interessi mercantili e la sua partecipazione alla politica pisana, soprattutto nel campo della politica estera: i viaggi e le esperienze connesse a queste attività dovettero contribuire a dargli un credito lentamente crescente tra i concittadini e forse anche a fargli formulare quei progetti di signoria, almeno parzialmente estranei alla tradizione storica pisana e toscana, che vedremo poi mettere in atto con una rapidità che può far pensare ad un disegno, almeno nelle grandi linee, meditato ed elaborato in precedenza, e non svolto sotto l'incalzare ed il mutare degli avvenimenti. Questi elementi ci mostrano un personaggio - e una famiglia - in sicura ascesa economica (in un periodo che riteniamo di generale ripresa del commercio marittimo pisano) e di sempre maggiore importanza politica e sociale, anche se non in posizione espostissima nelle lotte di fazione, come dimostra il silenzio che fino alla elezione al dogato conserva, nella sua cronaca-ricordi, il cronista pisano Ranieri Sardo.
L'elenco, giunto fino a noi, degli anziani pisani ricorda, agli anni 1336, 1341 e 1343 un Giovanni Dell'Agnello; ma potrebbe anche non trattarsi del D., bensì del cugino Giovanni di Cegna. Certamente dopo la morte dell'ultimo dei Della Gherardesca di Donoratico, il giovane conte Ranieri Novello signore (sia pure in forme costituzionalmente limitate) della città, la famiglia del D., pur non essendo colpita, come altre che più si erano esposte alla testa della fazione raspante, si tenne o fu tenuta in disparte sul piano politico durante il periodo 1347-1355, segnato da un predominio dell'opposta fazione dei bergolini e soprattutto delle famiglie dei Gambacorta e degli Agliata.
Cresceva, invece, l'attività economica del D. e dei suoi fratelli: attività che l'assenza di libri di conti ci impedisce di ricostruire nei particolari, ma che documenti notarili giunti fino a noi ci permettono di considerare di grande respiro e di particolare connotazione marittima. Ciò è da sottolineare contro quelle interpretazioni che vorrebbero la fazione raspante espressione degli interessi industriali e quella bergolina, invece, espressione degli interessi mercantili e armatoriali ed appunto perciò antiprotezionistica e filofiorentina.
In realtà, infatti, l'analisi sociale - famiglia per famiglia e anche persona per persona - della composizione delle due fazioni in lotta, ci mostra l'assenza di distinzioni di classe o di interessi economici. Senza contare che, al di là delle famiglie più esposte e più costanti nell'appartenenza ad una fazione, la maggior parte delle famiglie pisane dell'oligarchia mercantile o della rimanente nobiltà, cercava di assicurare una politica che, per intenderci, potremmo, con espressione anacronistica, chiamare di "centro", seguendo e determinando al tempo stesso, con i propri spostamenti, i mutamenti di regime all'interno della città.
Così, la famiglia Dell'Agnello non ebbe una parte di primissimo piano nella lotta tra le due fazioni, scatenata dalla presenza dell'imperatore, nel maggio 1355 e conclusasi con la sanguinosa sconfitta dei Gambacorta e dei loro più stretti amici. Tuttavia, non v'è dubbio che i Dell'Agnello aderirono immediatamente e decisamente al mutamento politico allora avvenuto: subito dopo gli scontri e le condanne a morte decretate da Carlo IV troviamo un fratello del D., Piero, tra gli Anziani "chiamati a bocca" (cioè designati senza le normali procedure elettive) per un anzianato straordinario di tre mesi.
Per quanto riguarda il D., lo troviamo tra gli Anziani nel 1359, nel 1361, nel 1362, nel 1363 e nel 1364, in quest'ultimo caso per un trimestre, negli altri per la normale durata di un bimestre. Tenuto conto del fatto che le disposizioni statutarie proibivano la ripetizione all'interno di uno stesso anno, della carica, non ci par certo di poter dire, con il recente biografo del D., che egli fu anziano "solo" cinque volte. Tuttavia, al di là dell'anzianato, è l'esame della composizione delle commissioni di savi, e soprattutto di quelle numericamente più ristrette, di volta in volta nominate dagli Anziani per prendere le decisioni che poi essi generalmente ratificavano, a convincerci dell'appartenenza piena del D. alla cerchia piccola di coloro che detenevano nella quasi totalità il potere politico decisionale in Pisa: non c'erano, infatti, per i Savi, meccanismi statutari che ne limitassero le designazioni.
Nel 1359, nel 1361 e nel 1363 troviamo il D. soprastante delle masnade a cavallo, carica molto importante perché garantiva il controllo delle migliori risorse militari, e che quindi veniva affidata soltanto a persone di estrema fiducia per il gruppo al potere. È anche da ritenere che queste sue esperienze gli facilitassero poi il compito, fondamentale per il suo tentativo di signoria, di assicurarsi la fedeltà delle milizie (Archivio di Stato di Pisa, Com. A, 132, 133, 139). Varie e delicate le missioni affidategli in politica estera: ambasciatore a Genova per trattare un accordo per il controllo del mare con il doge di Genova Simone Boccanegra; poi inviato a Napoli nel 1357 con Francesco Damiani per concludere con la regina Giovanna d'Angiò una complessa transazione politica e finanziaria relativa all'aiuto militare, promesso e non dato, per la riconquista della Sicilia; ancora a Genova, per modificare il precedente accordo, nel 1358 (Ibid., Com. A, 29, f. 113r; Com. A, 27, fasc. nn. 18, 19 e, Diplomatico. Attipubblici, nn. 215, 227, 230, 231; Ibid., Com. A, 29, f. i 16). Da segnalare anche varie ambascerie a Firenze, per affrontare problemi legati a lotte di distrettuali, a rappresaglie mercantili, alla presenza di compagnie militari (Archivio di Stato di Firenze, Consigli maggiori, 42, ff. 25, 94; 45, f. 223; Archivio di Stato di Pisa, Com. A, 206, ff. 116, 198v).
Nel frattempo la situazione generale di Pisa peggiorava, a causa prima dei dissidi e poi della guerra con Firenze; quest'ultima provocò la chiusura delle vie di comunicazione e l'interruzione di traffici verso il retroterra peninsulare della piazza mercantilepisana (da sempre fondamentale per la sua vitalità, essendo Pisa un centro commerciale soprattutto di transito) e infine una delicatissima situazione militare, in seguito alla disastrosa sconfitta di Cascina (28 luglio 1364) conclusasi con centinaia di morti e grande quantità di prigionieri, tra i quali il fratello del D., Lemmo. Fu in questa situazione, drammatica all'esterno e tesa all'interno della città, che maturò l'elezione del D. a doge di Pisa, come già era accaduto per altri brevi e fallimentari tentativi signorili, come quelli di Ugolino Della Gherardesca e di Nino Visconti, di Guido da Montefeltro, di Uguccione Della Faggiuola o, se si vuole fare un paragone non pisano, per quello del duca d'Atene a Firenze: non, dunque, per uno svolgimento della normale dinamica politica, come nel già ormai da decenni generalizzato fenomeno signorile dell'Italia padana, ma per far fronte a circostanze eccezionali, rimosse le quali la tendenza del ceto dirigente era quella di contrastare il tentativo signorile e ritornare alle precedenti forme di regime. Unica si era potuta mantenere un poco più a lungo la signoria dei Della Gherardesca conti di Donoratico, ma proprio anche in virtù del suo rispetto delle forme costituzionali: una "criptosignoria", insomma, per riprendere l'espressione coniata dal Sestan.
Mentre Pisa era minacciata, anche a causa della defezione di una parte delle milizie mercenarie, il 12 ag. 1364 il D. fu nominato doge di Pisa. Come? E per iniziativa di chi? Su questi punti le cronache contemporanee danno versioni discordanti. Secondo Matteo Villani, infatti, si sarebbe trattato di una riuscita manovra dello stesso D., forte delle intese che avrebbe raggiunto nel mese precedente, a Milano, con Bernabò Visconti. Questa notizia appare però di dubbio fondamento e influenzata o da voci che correvano in Firenze o dai successivi rapporti tra i due: infatti, nel luglio, il D. era, come abbiamo detto, tra gli Anziani e non poteva recarsi come ambasciatore nella città lombarda. Forse vi si era potuto recare all'inizio d'agosto, subito dopo la battaglia di Cascina, tornandone - sempre secondo il Villani - con 30.000 fiorini. I cronisti pisani, tuttavia, ed il lucchese Sercambi (che al D. si ispirò anche per una novella) danno una versione diversa.
Secondo il racconto di Ranieri Sardo, alle sei del mattino del 12 agosto si ebbe un "gran raghuno di giente", capeggiato da Ludovico e da Giovanni Della Rocca, da Totto e da Guido Aiutamicristo, e da Bindaccio Benetti, con familiari ed armati privati; questo gruppo sarebbe andato alla casa del D., presso il quale si trovavano pure molti cittadini ed armati; e dove sarebbe stato poi raggiunto da Bartolomeo e Andrea Scarso con il loro seguito. A questo punto (erano frattanto le otto), insieme con le milizie a cavallo, i dimostranti raggiunsero il palazzo degli Anziani. Solo alcuni anziani erano presenti nell'edificio essendosi forse allontanati quelli tra di essi che non erano favorevoli all'iniziativa. E qui Ludovico Della Rocca e Ranieri Gualandi fecero salire il D. sulla tribuna (il "palmento"). Il D. baciò gli anziani presenti; l'assemblea proclamò: "Sia dogio! sia dogio et signiore a vita". Il conservatore del Buono Stato e il podestà, nonché le milizie a piedi e a cavallo, gli giurarono fedeltà. Il giorno seguente il D. in duomo, dopo aver ascoltato la messa, accettò ufficialmente la carica e fece un discorso programmafico. L'anonimo muratoriano non dà una versione sostanzialmente diversa, ma insiste su trattative intercorse tra i capi della fazione raspante e il D., dopo la buona conclusione delle quali l'idea ebbe una diffusione più larga. Il Sercambi attribuisce l'iniziativa a Bindaccio Benetti "homo savio e amato in Pisa, benché della persona non fusse sano", al quale il D. avrebbe promesso il governo di Lucca. Ancora due punti del racconto del Sercambi (Croniche, cap. CLX, Come messer Iohanni dell'Agnello fu fatto dogio di Pisa)meritano di essere sottolineati: il rapporto che stabilisce tra l'istituzione del dogato e il desiderio di pace di non meglio precisati "alcuni di Toscana" e il fatto che l'elezione sarebbe avvenuta con molta concordia e "senza romore" (cioè senza tumulti) "e saputa di molti". In conclusione: un colpo di Stato promosso dai capi della fazione raspante - il cui potere era traballante - sostenuto anche da alcune società di popolo (i cui gonfaloni era presenti al palazzo degli Anziani secondo il racconto del Sardo), privo di opposizioni, facente capo ad una persona non troppo compromessa ma di sicura esperienza. Quanto al titolo assunto dal D., "doge", più che l'esempio veneziano dobbiamo considerare l'attrazione che su Pisa poteva esercitare il dogato genovese; di quella Genova in cui, per commercio o per ambascerie, si era spesso recato proprio il Dell'Agnello. "Al modo che reggeva Genova", come infatti scrive il Sercambi.
Comunque, quali che fossero le circostanze della sua ascesa al potere, la linea politica seguita dal D. una volta assunto il potere fu tipicamente signorile e ciò lo portò presto a distaccarsi da quei capi raspanti cui doveva, almeno in larghissima parte, la sua elezione. Il Sercambi, che lo aveva qualificato con un "solea esser mercatante", deride i Pisani che avevano creduto alle sue promesse; ed aggiunge che, se è vero che come antico mercante il nuovo doge avrebbe dovuto mantenere gli impegni assunti, secondo l'etica propria di questo ceto, è pur vero che "in nelle signorie non c'è nessuno che voglia non che maggiore ma compagno in nella signoria", cogliendo bene l'ispirazione, e anche il limite, della politica del Dell'Agnello. Infatti, se in un primo momento la nomina a vicedoge del Benetti e a vicario di Bartolomeo Scarso sembrò ancora nella linea di un governo di fazione, nell'adempimento di accordi, più o meno precisi, presi in precedenza, già l'istituzione della nobiltà dogale della "casata dei conti" (avvenuta nel 1365) aveva un carattere ambiguo, perché la creazione di questa nobiltà, di cui il D. chiamò a far parte, a titolo individuale o familiare, i principali esponenti della fazione raspante, di fatto non ebbe conseguenze pratiche di rilievo, per quanto il gesto potesse avere un rilevante significato simbolico, di diciassette famiglie "fatte uno sangue".
Il D. si orientò presto, del resto, verso l'ereditarietà del dogato, convincendo il Benetti a rinunciare al governo di Lucca che gli aveva affidato ed inviando in quella città suo nipote Gherardo; facendo inoltre nominare signori (agosto 1366) i suoi piccoli figli, allora inferiori ai sette anni, Gualtieri e Francesco, i quali furono anche innalzati alla dignità di cavalieri. Essendogli intanto morta la moglie Mattea di Pedone, sposò, in seconde nozze, la sorella del prefetto di Vico, "senza dota", ma di importante famiglia feudale laziale. Ed è in un'ottica signorile che la sua politica va inquadrata per essere compresa.
In questo contesto la stessa pompa nel vestire, più volte richiamata e biasimata dai cronisti, come anche l'ingrandimento e l'abbellimento del palazzo di famiglia - del resto già avviati nel 1357 - erano, forse, più che l'espressione di una personale cupidigia, mezzi per conferire alla sua persona e al suo potere un'aura di distacco, di solennità, di indistruggibilità. La rottura con la tradizione costituzionale pisana apparve completa quando, il 1° sett. 1366, egli stabilì che gli Anziani abbandonassero il loro palazzo (dove per norma dovevano risiedere continuativamente durante il bimestre) e vi si insediò al loro posto. Nello stesso senso vanno intese le frequenti feste e i numerosi tornei che organizzò, come, per esempio, quelli in occasione dell'elevazione alla signoria dei figli o del suo secondo matrimonio. La grande accoglienza preparata a Porto Pisano al papa che rientrava a Roma andò invece a vuoto perché il pontefice, fosse per timore, come dice il Sercambi, o per altre ragioni, non volle scendere.
In politica interna intese muoversi verso una riconciliazione delle parti: fra i suoi primi provvedimenti troviamo la licenza di rientro a molti confinati. Questo suo tentativo di collocarsi al di sopra delle parti, tuttavia, lo privò del consenso delle principali famiglie raspanti, senza che ciò riuscisse, peraltro, a cancellare il pericolo costituito dai fuorusciti. La promessa di non istituire nuove tasse dovette essere ben presto violata e alle prime misure di diminuzione dei prezzi fecero seguito imposte straordinarie. La situazione finanziaria del Comune pisano era, d'altra parte, drammatica. Il D. cercò di fronteggiarla ricorrendo a manovre di unificazione e consolidamento del debito pubblico e intervenendo con tagli sulla spesa pubblica, perfino con pericolose (per il suo potere) riduzioni del numero dei "marrabensi" (cioè delle milizie a piedi).
I grossi limiti che la situazione finanziaria poneva alle sue possibilità di manovra ridussero pure la portata di alcuni provvedimenti, anch'essi di chiaro stampo signorile, volti a favorire l'istruzione pubblica, tanto di base che di livello universitario, e a tentare un riequilibrio tra città e contado, tanto nel Pisano che nel Lucchese. Anche la sua politica nei confronti della più importante città sottomessa, Lucca, fu ispirata ad un tentativo di riequilibrio tra essa e la città egemone, nello sforzo di trovare nell'irrequieta città vicina quel consenso che gli veniva progressivamente meno nella sua Pisa. Gli stessi veri soprusi, come anche i più frequenti atti di clemenza da lui compiuti, dovettero apparire come un'estensione indebita della "balia" che gli era stata concessa. Il potere, che egli si era direttamente arrogato, di scegliere gli anziani tolse ogni prestigio a questa magistratura e scavò progressivamente un distacco tra il doge e il ceto dirigente pisano, compresi i principali esponenti dei raspanti, che si videro allontanati da ogni potere decisionale.
In politica estera il D. concluse immediatamente (30 ag. 1364) la pace con Firenze, con la quale cercò di migliorare i rapporti, tentando di far tornare - ma senza troppo successo - gli operatori mercantili fiorentini a Porto Pisano. Nel settembre 1366 Pisa e Lucca firmarono, a Firenze, una lega contro le compagnie di ventura che costituivano allora un costante pericolo per la sicurezza dell'Italia centrale: a questa lega aderirono il papa, la regina Giovanna d'Angiò, Todi, Perugia, Arezzo, Cortona e, naturalmente, la stessa Firenze, il cui atteggiamento nei confronti del nuovo regime pisano rimase, comunque, improntato ad una sostanziale diffidenza. Ogni città ed ognuna delle potenze firmatarie aveva, però, compagnie di ventura amiche o fedeli; lo stesso D., del resto, doveva in gran parte l'apparente solidità del suo regime ad un'intesa con Giovanni Acuto e le sue milizie. Per questo fatto, la lega si rivelò dunque nella realtà priva di reale efficacia. Nel settembre del 1367 ripresero i contrasti tra Pisa e Firenze, soprattutto a causa dell'intervento del le due città nelle interne contese di San Miniato; non si giunse, tuttavia, ad una ripresa della guerra terminata nel 1364.
All'inizio del 1368 si concretò un evento che, come prospettiva, da tempo, ma vagamente, era presente nel panorama politico internazionale: la seconda discesa in Italia dell'imperafore Carlo IV. Come la prima calata di quel sovrano aveva portato in Pisa, nel 1355, alla fine della prevalenza bergolina, così questa seconda ebbe nella città toscana come conseguenza la caduta del dogato. In un primo tempo il D. pensò di potersi accordare con Bernabò Visconti per opporsi con la forza alla spedizione imperiale. Dovette tuttavia rinunziare a questo suo disegno per la totale mancanza di appoggio da parte del ceto dirigente pisano: proprio quei conti che lui aveva creato, chiamati ad una votazione segreta sull'atteggiamento da seguire nei confronti di Carlo IV, lo sconfessarono clamorosamente, facendo cadere le proposte avanzate dal doge con 46 voti contro 2. Ed invano il D. li ammonì affermando irato: "egli [l'imperatore] vorrà denaro e ne pagherete ... e sapete che intervenne allo stato delli bergulini della sua venuta, che fece tagliar la testa a sette loro delli maggiori. E tal crede rimaner di sopra che e' si troverà per fortuna al fondo". Tentò allora di far buon viso a cattivo gioco, trattando direttamente con l'imperatore (agosto 1368) e sperando di riuscire a superare indenne la congiuntura. Intanto, però, dovette rinunciare al titolo di doge per sostituirlo con quello di vicario imperiale. Ma, mentre a Moriano l'imperatore lo faceva cavaliere, insieme con il nipote Gherardo, col marchese Upezzino e con alcuni altri, si era a Pisa "levato romore". Si era giunti così al 5 sett. 1368, giorno in cui accadde in Lucca un incidente che, in assenza di altre diverse interpretazioni avanzate dai contemporanei, dobbiamo ritenere del tutto fortuito, ma che funzionò da miccia detonante in una situazione molto tesa. Dopo aver lasciato l'imperatore, il quale aveva fatto il suo solenne ingresso nella città, il D. si recò nella centrale piazza di S. Michele, dove si era radunato il popolo. Il doge stava per leggere una relazione sugli ultimi avvenimenti pisani, quando il ballatoio di legno, sul quale era salito, cedette improvvisamente. Nell'infortunio il D. si spezzò un femore. Lucca rimase per il momento tranquilla, ma non così Pisa, ove, nei giorni precedenti, erano entrate le milizie imperiali al comando del patriarca di Aquileia, Marquardo. A Pisa, infatti, si precipitò, dopo aver baciato l'elsa della spada, Tommaso Aiutamicristo per "ordinare co' raspanti la morte e il disfacimento" del doge e del suo regime (Sercambi, p. 147). 1 raspanti condussero il moto di restaurazione delle tradizionali forme di governo, esautorando il D. e ristabilendo l'anzianato nelle sue antiche prerogative e funzioni, senza per altro rendersi conto di mettere così in moto un processo che li avrebbe rapidamente travolti, secondo la predizione del Dell'Agnello. Anche Lucca iniziava il suo cammino verso il recupero della libertà che venne concessa, sia pure sotto il provvisorio vicariato del patriarca Marquardo, il 6 apr. 1369. L'imperatore abbandonerà poi Lucca in luglio, lasciandovi come vicario il cardinal-vescovo di Porto il quale nel marzo 1370, nominando vicari imperiali gli stessi Anziani lucchesi, avrebbe restituito di fatto la piena libertà alla città.
Intanto il 1°maggio 1369 Carlo IV aveva concluso con Pisa una pace che toglieva al D. ogni speranza di appoggio imperiale in vista di una possibile restaurazione, speranza che le tensioni tuttora esistenti tra l'imperatore e Pisa, anche dopo il richiamo in città di Piero Gambacorta, avevano mantenuto viva. Ciononostante l'ex doge non rinunciò agli sforzi per recuperare il potere. A tal fine strinse, l'11 maggio 1370, formale alleanza con Bernabò Visconti. In forza di tale alleanza, che va vista nel quadro della politica espansionistica di quest'ultimo, il D. ottenne per quattro mesi, in cambio della promessa di 12.500 fiorini, 1.000 cavalieri e 12 "bannerias" di fanti in aggiunta ai 150 soldati viscontei che già si trovavano al suo servizio; ma si impegnò, nel caso di un successo solo parziale della spedizione, a cedere al Visconti le fortezze conquistate, salvo Piombino, l'Elba ed il Giglio che avrebbe potuto tenere per sé. La spedizione, guidata dal D. e dall'Acuto, nonostante la temporanea conquista di Livorno e qualche successo tattico ottenuto in Maremma, nel Valdamo e in Valdiserchio, fallì: alla fine di giugno essi dovevano ripiegare verso Sarzana.
Dopo l'insuccesso di questo tentativo militare il D. scomparve, a quanto ci risulta, dalla scena politica italiana. Già prima, nel dicembre del 1370, l'ex doge ed i suoi figli non erano presenti tra i fuorusciti pisani che si unirono, a Sarzana, con Bernabò Visconti. L'anonimo muratoriano ci informa che egli si era rifugiato a Genova, dove trascorse in povertà, dato che tutti i suoi beni erano stati immediatamente confiscati dopo la caduta del dogato, una lunga vecchiaia. E appunto a Genova il D. morì nel 1387.
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