DE FORESTA, Giovanni
Discendente da un'antica famiglia di Diano Marina stabilitasi a Nizza Marittima intorno al XV secolo, nacque da Pietro Francesco e da Elisabetta Fiorgioli a Villafranca (Villefranche, presso Nizza) il 29 ag. 1799. Giovanissimo intraprese la carriera giudiziaria ottenendo, il 9 nov. 1822, la nomina ad assessore aggiunto presso il tribunale di Nizza, ma abbandonò ben presto la magistratura per dedicarsi alla libera professione, dalla quale ottenne fama di valente giureconsulto. Iniziò a segnalarsi dal '48 come uomo di tendenze liberali moderate incontrando il favore dei concittadini, cosicché si presentò alle elezioni per la IV legislatura del Parlamento subalpino. Eletto nel primo collegio di Nizza, si trasferì a Torino e si inserì subito nel gruppo di deputati schierati con Cavour ottenendone fiducia al punto che, pur essendo uomo nuovo nel mondo politico torinese, il 27 luglio 1851 gli venne affidata la successione, dopo l'interim di F. Galvagno, al guardasigilli G. Siccardi, incarico che tenne fino al 25 febbr. 1852.
Il D. seppe portare avanti, senza le rigidezze dottrinarie che avevano sovente impacciato l'azione del Siccardi, notevoli riforme dell'apparato giudiziario. Su sua iniziativa la polizia giudiziaria passò alle dipendenze degli avvocati fiscali, e contemporaneamente venne prodotta una nuova normativa sull'istruzione dei procedimenti penali e sugli arresti (legge del 14 dic. 1851) che migliorava la tutela delle libertà personali. In quest'occasione fu particolarmente abile nel rintuzzare gli attacchi di A. Brofferio, che cercava di far introdurre nella legislazione sarda il principio della libertà provvisoria su cauzione e conseguentemente l'abolizione del carcere preventivo. Tuttavia la sua notorietà è legata soprattutto alla legge sulla stampa del febbraio 1852. In seguito alle pressioni austriache, prussiane e francesi, che miravano a far espellere dal Piemonte i fuorusciti italiani ed a frenare la presunta "licenza" del giornalismo torinese (peraltro lamentata da quasi tutto il corpo diplomatico), il governo d'Azeglio fu costretto ad intervenire sulla libertà di stampa. Il provvedimento proposto dal guardasigilli costituì una dignitosa risposta all'Austria e dimostrò disponibilità nei confronti dei nuovi governanti francesi, ma modificò in chiave restrittiva la legislazione albertina sulla stampa. Era infatti concessa al pubblico ministero la facoltà di perseguire il reato di offesa a capi di Stato stranieri senza esibire materialmente in tribunale la relativa denuncia diplomatica; ciò consentiva di fatto l'azione d'ufficio e costituiva una sorta di censura sui giornali. Paese e Parlamento accolsero assai male il provvedimento, che comunque riuscì a passare soprattutto per l'appoggio dei conservatori e dei clericali: il prezzo dell'operazione, richiesto dalla Sinistra rattazziana fu però la testa del guardasigilli, che venne sostituito dal Galvagno.
Rientrato nei banchi dei deputati portò avanti. dal '52, un suo progetto dì codice di procedura civile che venne approvato e pubblicato nel '54, ma che, largamente imperfetto e farraginoso (Dionisotti, p. 157). subì modifiche e revisioni continue. A difesa degli interessi del suo collegio elettorale intervenne tra il '51 ed il '53 quando, per effetto dei trattati di commercio, si rese necessaria la riforma delle tariffe doganali e l'eliminazione dei porti franchi. Insieme al collega e conterraneo L. Piccon si batté contro questa soluzione, affermando chessa avrebbe suscitato nel Nizzardo fermenti separatisti ed antitaliani, e avrebbe offerto solidi argomenti ai sostenitori dell'annessione alla Francia : in tal modo la soppressione del portofranco di Nizza fu ritardata di circa tre anni. Di scarso rilievo furono gli interventi nel '52 contro il progetto di legge Boncompagni sul matrimonio civile, e nel '55 a favore della legge sulla soppressione delle comunità religiose: nel complesso, comunque, con la sua attività si rivelò abile e fedele sostegno al Cavour "nell'attuare la celebre formula: Libera Chiesa in Libero Stato" (Sarti, p. 359).
Ben introdotto nella buona società torinese, fu un assiduo frequentatore del salotto della baronessa Olimpia Savio (che lo ricorda nelle sue Memorie), alla quale rimase sempre legato da un rapporto di cordiale amicizia. Il grande momentodel D. fu comunque il '55, quando, all'indomani dell'approvazione della legge sui conventi, si resero necessarie le dimissioni di U. Rattazzi dal ministero di Grazia e Giustizia: il Cavour ripescò il moderato D. che, nominato guardasigilli il 3 maggio 1855 (ottenendo nel contempo anche il seggio senatoriale), rimase in carica per quattro anni, fino alla conclusione del secondo gabinetto Cavour, il 19 luglio 1859.
Tuttavia il D. emerse di rado, apparendo in definitiva nulla più che un gregario leale del Cavour. Limiti del resto già evidenziati in modo piuttosto duro da precedenti biografi, che lo definirono "debole di carattere, né rotto al lavoro" (Dionisotti, p. 229).
La sua attività di guardasigilli fu molto defilata, tesa soprattutto alla gestione degli affari correnti, ed in modo particolare all'applicazione della legge sui conventi. L'unico momento in cui la figura del D. emerse fu nel febbraio del 1858, quando per compiacere la Francia dopo l'attentato Orsini a Napoleone III fu necessario presentare una legge sulle pene per i cospiratori contro i capi di Stato esteri, sull'apologia dell'assassinio politico a mezzo della stampa e sulla riforma delle giurie. Il Progetto, che il D. aveva pronto fin dal 1856, prevedeva sino a dieci anni di lavori forzati per i cospiratori contro la vita di sovrani stranieri; sino ad un anno per l'apologia dei delitti politici attraverso i giornali; ed infine uno stretto controllo dell'esecutivo sulla formazione delle giurie. L'onere della discussione parlamentare spettò quasi esclusivamente al Cavour che riuscì a convincere le opposizioni dell'opportunità di una legge, imposta dall'alleato più potente, che costituiva una palese violazione delle prerogative sovrane dello Stato sardo: solo su questo punto intervenne il guardasigilli, il 17 ed il 19 apr. 1858, per dimostrare che almeno sul piano giuridico tale prevaricazione non sussisteva. Il progetto divenne legge il 4 giugno successivo grazie ad alcune modifiche ai criteri di formazione delle giurie che rabbonirono l'opposizione di sinistra e che comunque vennero annullate l'anno seguente, quando la legge sui pieni poteri consentì il passaggio alle Camere senza discussione. Nell'aprile del '59, allorché Cavour rifiutò di controfirmare il decreto reale che concedeva il titolo comitale di Abrafiori a Rosa Vercellana, il D. sdrammatizzò la situazione apponendo la propria firma al decreto.
Il 9 giugno 1860 il D. pronunciò in Senato un accorato discorso sulla cessione di Nizza alla Francia; optò per la nazionalità italiana, ottenendo il titolo di conte e la nomina a primo presidente della corte d'appello di Bologna, mostrando "colle sue assenze di preferire i lavori del Senato a quelli della Corte" (Dionisotti, 229). Anche in Senato, peraltro, non si segnalò per attivismo. Nel '63 fece parte della commissione senatoriale per l'esame del progetto Pisanelli per il codice civile, contribuendo a limitare in misura notevole gli aspetti innovativi e progressisti del progetto; nell'aprile '65 riuscì coi senatori più conservatori a impedire il passaggio del disegno di legge Nencini sull'abolizione della pena di morte, già passato alla Camera. Tra il '65 ed il '72 la sua attività parlamentare si ridusse progressivamente: in ogni occasione il D. si rivelò comunque un tenace assertore di una moderata autonomia della magistratura dalla politica, e sostenne il riordinamento della Cassazione intesa come corte di revisione decentrata.
Decorato nel 1862 della Gran Croce dell'Ordine Mauriziano, nel '68 ebbe le insegne di grand'ufficiale dell'Ordine della Corona.
Morì a Bologna il 14 febbr. 1872.
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