GIOVANNI dalle Celle
Nacque nel 1310 da Gano, della famiglia dei Catignano, probabilmente a Firenze, dove il padre fu personaggio autorevole, visto che è menzionato in un documento del 1317 tra i capi delle famiglie locali invitati a far pace da Guido dei conti Guidi di Battifolle. È opinione di alcuni studiosi, tuttavia, che Catignano, un piccolo borgo nei pressi di Firenze, fosse il luogo di nascita di G., e non il suo cognome.
Entrato nell'Ordine dei benedettini vallombrosani in giovane età, nel 1346 G. fu nominato abate del convento di S. Trinita a Firenze. Nel 1347 venne condannato a un anno di carcere per aver intrattenuto una relazione amorosa con una giovane donna, colpa che G. confessò all'agostiniano Simone Fidati (Simone da Cascia) in una lettera databile al maggio-giugno di quello stesso anno. Dopo aver scontato la pena nella torre Pitiana del convento di Vallombrosa, G. fu liberato e reintegrato nella carica di abate grazie anche all'intercessione dei suoi confratelli e di molti cittadini fiorentini. Nel 1350 fu a Roma in occasione del giubileo indetto da papa Clemente VI; nel 1351, a compimento di una profonda crisi che ebbe origine probabilmente al tempo della sua "colpa", decise di ritirarsi nell'eremo delle Celle di Vallombrosa, da cui prese il nome e dove trascorse il resto della vita, fatta eccezione per alcuni brevi soggiorni a Firenze e Siena.
La scelta ascetica non impedì a G. di mantenere contatti con il mondo, che furono esercitati attraverso un fitto scambio epistolare con diversi personaggi più o meno illustri del suo tempo, molti dei quali si affidavano alla sua direzione spirituale; a essi G. esponeva riflessioni in ambito teologico e dava consigli di natura morale.
G. seguì anche con interesse vivissimo l'attività di Caterina da Siena della quale difese, da sincero ammiratore, le virtù morali in un'appassionata polemica documentata da numerose lettere, ma rimase sempre estraneo alla componente mistica presente nell'esperienza cateriniana.
Dall'eremo di Vallombrosa G. si teneva inoltre aggiornato sull'organizzazione della crociata alla quale Caterina stava dedicando le sue energie. La crociata fu finalmente bandita nel 1373 da Gregorio XI, ma nessuno dei principi cristiani a cui Caterina si era rivolta sembrava realmente disposto, al di là degli impegni formali assunti, a gettarsi nell'impresa. Fu in quell'occasione che nacque un malinteso tra G. e alcuni esponenti del circolo cateriniano: alcune giovani donne fiorentine, trascinate dall'entusiasmo della Benincasa, avevano manifestato l'intenzione di partire per la Terrasanta per unirsi ai crociati; G. scrisse allora una lettera a una di esse, suor Domitilla, della quale era confidente spirituale, affermando che, per lo meno in questo proposito, non era in sintonia con la posizione di Caterina, ribadendo l'inutilità e i pericoli dell'impresa. Tali considerazioni, rese pubbliche da un discepolo di Caterina, l'agostiniano inglese William Flete, fecero pensare a un dissenso sostanziale di G. dall'operato della Benincasa: dissenso che G. si affrettò a negare in una lettera inviata allo stesso Flete nel 1376, nella quale egli confermava la sua più completa devozione per Caterina e chiedeva di essere ammesso tra i suoi discepoli, pur senza averla mai incontrata fino a quel momento; la sua richiesta fu rapidamente accolta, come testimonia lo stesso G. in una lettera del 10 ottobre di quello stesso anno. Caterina ricambiò immediatamente la stima e l'affetto dimostrati da G. e lo esortò a entrare nella Compagnia della Madonna sotto le volte dello spedale di S. Maria della Scala, alla quale appartennero personaggi illustri come Iacopone da Todi, Giovanni Colombini, s. Bernardino da Siena e la stessa s. Caterina. Il biografo della santa, Stefano Maconi, inoltre, racconta di un miracolo che ella avrebbe operato proprio a favore di G. che, agonizzante nella badia di Passignano, nei pressi di Firenze, fu guarito dalle sue preghiere: di questo episodio G. diede un dettagliato resoconto in una lettera che però non ci è pervenuta. Della corrispondenza che ci fu tra G. e Caterina al momento sono note solo le lettere indirizzate dalla santa al Cellense nel 1376 e nel 1378 (nn. 296 e 322 dell'ed. Meattini).
Nel gennaio del 1379, su indicazione di Caterina, G. fu invitato a Roma insieme con altri celebri teologi e uomini di Chiesa da papa Urbano VI, che voleva chiedere consigli sulla condotta da adottare in merito all'elezione dell'antipapa Clemente VII e pianificare un progetto di riforma in risposta alla grave crisi della Chiesa provocata dal grande scisma d'Occidente (1378). Le cronache dell'epoca narrano che l'iniziativa di Urbano VI ebbe scarso successo, tanto che solo pochissimi religiosi si presentarono all'incontro con il papa previsto per la domenica successiva all'Epifania del 1379 (9 gennaio); G. non era tra questi. Non è possibile ipotizzare, come fa P. Cividali, che G. abbia risposto all'appello solamente in considerazione dell'amicizia che lo legava al papa.
G. morì a Vallombrosa tra il 1394 e il 1400. Il terminus post quem è il maggio-giugno del 1394, data in cui fu eletto per la prima volta gonfaloniere di Firenze Guido del Palagio: G. accenna esplicitamente a questa elezione in una lettera indirizzata allo stesso Guido (n. 11 dell'ed. Giambonini); il terminus ante quem è il 1400: Lapo Mazzei, riferendosi a G. in una sua lettera a Francesco Datini, lo chiama "santo" e ne parla come persona morta. T. Sala, con una precisione a dire il vero non documentata, ritiene che G. sia morto il 10 marzo del 1396.
Il titolo di beato attribuito a G. è frutto probabilmente di una tradizione orale consolidatasi già nelle più antiche biografie, perché manca qualsiasi documentazione di processi ufficiali portati a termine dall'autorità ecclesiastica; la tradizione orale, del resto, è condizione sufficiente per la beatificazione secondo le "Costituzioni" di Urbano VIII del 1625 e del 1634, che concedevano il titolo di santo o di beato a chi fosse stato oggetto di un culto anteriore ai cento anni dalla promulgazione dei decreti.
Le 34 lettere di G. che ci sono giunte, scritte in latino e in volgare, sono datate tra il 1347 e il 1394 e, tranne quella indirizzata a Simone da Cascia, furono tutte redatte nel romitorio di Vallombrosa. Nell'edizione critica curata da F. Giambonini (1991) esse risultano così suddivise: nn. 1-13 a Guido del Palagio, uomo politico di primo piano nella Firenze del secondo Trecento e figlio spirituale del Cellense; nn. 14-18 a conoscenti o amici di Guido (Donato Ottaviani correggiaio, Lapo Mazzei, Guccio Gucci, Francesco Datini); nn. 19-22 a vari religiosi (una non meglio identificata suor Domitilla, Simone da Cascia, Simone Bencini); n. 23 ai gesuati; nn. 24-30 a vari destinatari, intorno a Caterina da Siena (sei in difesa e una in morte); nn. 31-34 ai fraticelli, relative a questioni di ortodossia; nell'Appendice, inoltre, compaiono tre lettere di dubbia attribuzione e alcune risposte dei corrispondenti di Giovanni dalle Celle.
Mentre le lettere in latino (la minoranza) non presentano spunti di originalità formale e G. rimane sostanzialmente legato alla tradizione della scolastica, nei testi in volgare egli si esprime con una lingua sorvegliata, aliena da marcati municipalismi e caratterizzata, sul piano stilistico, dalla raffinatezza degli espedienti retorici, e in particolare dalla potenza icastica delle efficaci comparationes con cui accompagna i suoi ammaestramenti morali. Il riconoscimento dell'alto livello di letterarietà che ben presto fu attribuito al suo volgare è testimoniato, oltre che dal gran numero di manoscritti del XIV e del XV secolo contenenti le sue lettere, dalle numerose citazioni che gli accademici della Crusca gli riservarono nella II e nella III edizione del Vocabolario. Lo stile è sostenuto da una formazione culturale e religiosa solida e approfondita, che spazia dalla patristica occidentale e orientale fino ai mistici e ai canonisti, e notevole appare l'influsso di s. Bernardo, del quale G. assimila soprattutto la tendenza a fondere, "nel clima mistico, elementi ragionativi, pratici, culturali" (G. Petrocchi, 1957, p. 215); più sporadiche invece risultano le presenze degli autori classici (Seneca e Boezio, soprattutto) e moderni (tra di essi, Petrarca, Jacopone da Todi, Angela da Foligno). Non si rilevano, nonostante quanto affermato da qualche studioso (Joergensen, Sapegno, Tartaro), tracce significative della nascente cultura umanistica nella visione del mondo di G., che rimane improntata a un rigoroso ascetismo di marca medioevale, poco incline a lasciare spazio a conflitti interiori (significativa, a questo proposito, è l'assenza di riferimenti alle Confessiones di s. Agostino) e non disposto a rischiare pericolose contaminazioni con la cultura pagana. G. si interessa dei problemi del suo tempo, conosce e interpreta le profezie gioachimite e pseudogioachimite, critica severamente le posizioni eterodosse dei fraticelli e il loro progetto di povertà estrema, esorta Guido del Palagio a difendere strenuamente la libertà di Firenze nella guerra degli Otto santi contro il papa (mostrando una autonomia di giudizio per certi versi sorprendente in una questione così delicata), ma poi rifiuta ogni tipo di impegno diretto nella Chiesa e nel mondo: a Guido raccomanda: "usa questo mondo come se tu non lo usassi" (lettera n. 4 dell'ed. Giambonini) e ai gesuati consiglia "fuga del signoreggiare e dello onore del chericato […] amore di servire […] dilungamento da ogni lite […] riverenza e onore de' compagni e di tutti gli uomini, e spezialmente de' preti e de' prelati, e di tutti i sacramenti della Chiesa e delle cose sagrate, che sono diputate al servigio di Dio; fuga dalla dimestichezza delli eretici e de' libri de' pagani" (lettera n. 23 dell'ed. Giambonini).
L'attività letteraria di G. non dovette limitarsi al genere epistolare, considerato il numero delle opere, in latino e in volgare, che gli antichi biografi gli hanno attribuito: tra queste, una Leggenda de' viaggi di s. Caterina (perduta), un Liber de moribus beatissimae Virginis, un Tractatus de poenitentia, una Vita di s. Domitilla (della quale G. fu devoto) e diversi volgarizzamenti. La recensio dei manoscritti consente, a oggi, di considerare di G. con un buon margine di sicurezza solamente il volgarizzamento della Summa casuum conscientiae del domenicano Bartolomeo da San Concordio (cfr. Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis praedicatorum Medii Aevi, I, Roma 1970, p. 165; IV, Roma 1993, p. 44), un diffusissimo manuale per i confessori. La traduzione in volgare nota con i titoli di Pisanella, Bartolina o Maestruzza, divisa in 5 libri (nei quali la materia non rispetta l'ordine alfabetico dell'originale), fu preparata espressamente per i numerosi chierici che non conoscevano il latino, come afferma lo stesso autore nel prologo. Non è sicuramente di G. (o di chiunque sia l'autore della Pisanella) il grossolano riassunto dell'opera che circolò in numerose copie alla fine del XIV secolo, noto con il titolo Fiori della Somma del Maestruzzo, ed è senz'altro un arbitrio del curatore l'attribuzione a G. di alcuni volgarizzamenti di autori classici (il Sogno di Scipione e i Paradossi di Cicerone, il Trattato delle quattro virtù morali e il Libro dei costumi attribuiti a Seneca, ma in realtà di Martino di Braga, autore del VI sec.) apparsi a stampa nel 1825 (Volgarizzamento inedito di alcuni scritti di Cicerone e di Seneca fatto per don G. dalle C. ed alcune lettere dello stesso, a cura di G. Olivieri, Milano 1825). È probabile che G. abbia allestito alcune traduzioni di Boezio per Guido del Palagio (cfr. lettere 1, 2, 16 dell'ed. Giambonini, nelle quali è lo stesso G. a darne notizia), ma finora non sono state identificate
L'edizione critica delle lettere si trova in Giovanni dalle Celle - L. Marsili, Lettere, a cura di F. Giambonini, I-II, Firenze 1991; edizioni parziali in Lettere del beato G. dalle C., a cura di B. Sorio, Roma 1845; P. Cividali, Il beato G. dalle C., in Memorie della R. Accademia dei Lincei, s. 5, XII (1907), pp. 426-477; Mistici del Duecento e del Trecento (Rizzoli), a cura di A. Levasti, Milano 1935, pp. 783-816; Prosatori minori del Trecento, a cura di G. De Luca, Milano-Napoli 1954, pp. 199-210; Scrittori religiosi del Trecento, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1974, pp. 95-102.
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Casari, Celebriores Vallumbrosanae Congregationis sancti, beati ac venerabiles…, Romae 1695, ritratto n. 44; Caterina da Siena, Opere, a cura di G. Gigli, I, Siena 1707, pp. 469 s.; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 200; C. Carnesecchi, Vita monastica del Trecento, in Rassegna nazionale, 1° sett. 1895, pp. 31, 54 s.; Fontes vitae s. Catharinae Senensis historici. Documenti, I, a cura di M.-H. Laurent, Siena 1936, pp. 53-55; Thomas Antonii de Senis "Caffarini", Libellus de supplemento legende prolixe Virginis beate Catherine de Senis, a cura di G. Cavallini - I. Foralosso, Roma 1974, pp. 335 s., 367, 387-389; S. Caterina da Siena, Lettere, a cura di U. Meattini, Milano 1987, pp. 1448-1455; A. Marenduzzo, Le lettere di don G. dalle C. monaco di Vallombrosa, in Rassegna pugliese, XXII (1905), pp. 82-89; P. Cividali, Il beato G. dalle C., in Memorie della R. Accademia dei Lincei, s. 5, XII (1907), pp. 354-457 (si vedano anche, a parziale correzione e integrazione dello studio della Cividali, le recensioni di C. Di Pierro in Giorn. stor. della letteratura italiana, LI [1908], pp. 358-360, di G. Volpi in Rass. bibliografica della letteratura italiana, XVI [1908], pp. 79 s., e di C. Frati in La Bibliofilia, XV [1913-14], p. 97); D.F. Tarani, L'Ordine vallombrosano. Note storico-cronologiche, Firenze 1920, p. 113; G. Joergensen, S. Caterina da Siena, Torino s.d. [nulla osta 1921], pp. 298 s.; H. Grundmann, Die Papstprophetien des Mittelalters, in Archiv für Kulturgeschichte, XIX (1929), pp. 109, 114-123; T. Sala, Diz. storico-biografico di scrittori, letterati ed artisti dell'Ordine di Vallombrosa, I, Firenze 1929, pp. 131-138; S. Ekwall, Quando morì il beato G. dalle C., in Rivista di storia della Chiesa in Italia, V (1951), pp. 371-374; I. Hijmans-Tromp, Vita e opere di Agnolo Torini, Leiden 1957, pp. 18 s., 35, 39, 225 e n., 226 e n.; G. 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