GIOVANNI da Viterbo
Sulle vicende biografiche di G. non si hanno, a tutt'oggi, notizie di fondamento documentario certo. L'unica menzione diretta del suo nome è in uno dei due codici apografi che contengono l'opera che gli è tradizionalmente attribuita, il Liber de regimine civitatum, databile ai decenni centrali del secolo XIII: per quanto plausibile, l'attribuzione rimane comunque senza una sicura base documentaria.
Il Liber (edito da G. Salvemini in Bibliotheca iuridica Medii Aevi, III, Scripta anecdota glossatorum vel glossatorum aetate composita, Bononiae 1901, pp. 215-280) è dunque l'unica fonte per ricavare alcuni elementi della personalità del suo autore. Esso sarebbe stato "editus a Iohanne Viterbiensi" durante "nocturnas vigilias et rara otia" che l'autore dichiara di essersi ritagliato "dum potestati Florentie assiderem", ma in assenza di riferimenti cronologici espliciti, anche la datazione dell'opera non può che essere oggetto di congetture. Dell'ufficio a Firenze di G. non è stata ancora trovata traccia nella frammentaria documentazione pubblica fiorentina duecentesca, nonostante ricerche condotte da valenti archivisti come G. Camerani (per Sorbelli, p. 98) e G. Pampaloni (per Folena, p. 99). Come per altri uomini di legge dell'epoca, il nome proprio è accompagnato da quello della città di origine, senza indicazione di patronimico o di eventuale cognominazione del lignaggio.
Di lui si può comunque affermare, con relativa certezza, che ebbe origini viterbesi - o quanto meno le ebbe la sua famiglia - e che acquisì una formazione giuridica di buon livello, tale da garantirgli il reclutamento come giudice o come notaio - nemmeno la professione è infatti individuabile con certezza - al seguito dei podestà nei circuiti funzionariali delle città comunali italiane. Le origini topografiche attribuite al nome di G. potrebbero essere indirettamente confermate dai frequenti riferimenti, nell'opera, ai podestà e ai cittadini di Viterbo, di Narni, di Todi e di Orvieto. Più certi sono senz'altro gli elementi del colorito linguistico delle formule volgari presenti nel Liber, attribuite da Folena (pp. 100, 103) a un'area "mediana" propria della zona umbro-laziale. Il prestigioso servizio a Firenze testimonia anche il raggiungimento, nella pratica di ufficio, di solide ed evidentemente riconosciute competenze nell'arte del "reggimento" politico delle città. Non ordinaria dovette essere infatti la sua formazione culturale, quale emerge dal fitto tessuto di citazioni di fonti di autori sacri e profani che intessono il Liber, e che ne fanno uno dei maggiori testi della letteratura civica del Duecento italiano.
Come detto, il Liber non è datato. Varie ipotesi sono state avanzate in proposito, sulla base degli elementi interni, soprattutto dei personaggi menzionati e, sebbene con minor certezza, delle sigle che costellano i modelli delle lettere e dei discorsi proposti nell'opera. L'arco di tempo delle datazioni ipotizzate va dal 1228 al 1264, con evidenti oscillazioni anche in relazione alla vicenda biografica di Giovanni da Viterbo.
La più antica datazione, quella del 1228, è stata proposta da Hertter (p. 52), in base alla menzione nel Liber di fatti risalenti assai indietro nel tempo, come le morti del conte Gualtieri di Brienne nel 1205, di Pietro II d'Aragona nel 1213 e di Simone di Montfort nel 1218, e all'indicazione di un podestà fiorentino con le iniziali J. e B., che egli individuerebbe nel "Johannes Boccacci" entrato in carica nel 1228. Muovendo dai ripetuti riferimenti all'imperatore indicato con l'iniziale F., plausibilmente identificato con Federico II, e nella ferma convinzione che il Liber sia stato scritto prima della sua morte da un autore di sicura fede ghibellina, Davidsohn (1973, pp. 45 s.) propone invece una data compresa tra il 1238 e il 1245. La datazione al 1253 è stata suggerita da Torraca (pp. 35 s.) e ripresa da Folena (p. 100), per la presenza a Firenze come podestà di Paolo da "Soriano", interpretato però erroneamente come Soriano del Cimino, borgo del Viterbese (quando invece si tratta più probabilmente del milanese "Paulus de Suricina", vale a dire Soncino nel Milanese, attestato in varie altre podesterie italiche tra il 1238 e il 1249).
I riferimenti, nel Liber, alle iniziali V. per un papa, e J. per un altro podestà fiorentino, hanno fatto propendere, infine, per il 1263 Sorbelli (p. 99), che ha identificato, rispettivamente, il papa in Urbano IV, pontefice tra l'agosto 1261 e l'ottobre 1264, e il podestà nel veneziano "Marcus Justiniani", podestà a Firenze dal gennaio del 1263 (stile fiorentino: vale a dire nel 1264).
Non mancano inoltre identificazioni di G. di epoca ancora posteriore. Da quella, invero poco credibile, che lo ravviserebbe nel "frater Iohannes de Viterbio procurator fratrum predicatorum" presso la Curia romana, citato in un documento bolognese del 1270 (Zaccagnini, p. 138), a quella che lo vorrebbe ambasciatore di Nicolò III nel 1278 presso i Comuni di Romagna, insieme con il canonista Guglielmo Durante (Fasoli, pp. 51 s.; Diplovatazio, p. 174). Ma è difficile identificarlo, in piena età angioina, con lo stesso G. autore del Liber.
Più plausibile appare, invece, risalire alla prima metà del secolo. Sestan (p. 62) ha ipotizzato un'identificazione di G. con un "Iohannes Viterbiensis" giudice al seguito del podestà Giovanni Cocchi, anch'egli viterbese, rettore a Siena nel 1215 e ad Arezzo nel 1216. Un insieme di ragioni rende verosimile l'identificazione di G. in un collaboratore al seguito dei rettori itineranti in quell'arco di decenni del primo Duecento che videro l'apogeo del regime podestarile, e, più precisamente, in un assessore operante tra la metà del secondo e la metà del quarto decennio del secolo.
Il Liber appare infatti ancora tutto centrato sulla figura podestarile, senza alcuna menzione delle esperienze politiche di "popolo", a cominciare dall'esistenza di un capitano, che invece venne un po' ovunque a condividere con il podestà il regimen civitatum solo dagli anni Quaranta del secolo (e, a Firenze, per ben un decennio, a partire dal 1250). Inoltre, alcuni riferimenti puntuali - quali per esempio il giuramento dei magnati e la composizione dei Consigli - sembrano quasi ricalcare le istituzioni fiorentine degli anni Venti e Trenta del Duecento. In questo contesto, assumerebbero una dimensione meno casuale anche i summenzionati riferimenti - come ai "nostris temporibus" (cioè in vita) - alle morti di Gualtieri di Brienne, di Pietro II d'Aragona e di Simone di Montfort tra il 1205 e il 1218. Sempre nel testo sono poi numerosissime le citazioni di città dell'area tosco-umbro-laziale (le più nominate, dopo Firenze e Viterbo, sono Todi, Pistoia, Narni e Orvieto), i formulari di lettere dirette al Comune capitolino, i frequenti riferimenti al Senato romano, che lasciano ritenere che G. si muovesse al seguito di podestà gravitanti su Roma, che nel primo Duecento rappresentò in effetti un centro fornitore di un gruppo di professionisti della politica molto apprezzato nei Comuni dell'Italia centrale. In assenza di elementi certi, e osservando come le famiglie podestarili riunissero in genere, e tanto più forse nei decenni iniziali dell'istituto, individui provenienti da aree limitrofe, si può ipotizzare che tale podestà possa identificarsi con il romano "Iohannes Iudicis" che fu rettore a Firenze nel 1234 con un seguito di collaboratori viterbesi, tra cui un "magister Stefanus" notaio (come rilevato da De Rosa, p. 31).
A sostegno di questa ipotesi si può addurre una serie di altre considerazioni. Stando ai luoghi citati, la carriera di Giovanni "de Iudice" - che fu più volte rettore a Firenze, Orvieto, Perugia, Roma tra il 1213 e il 1241 - sembrerebbe in effetti la traccia più plausibile di un'itineranza e di un profilo di podestà ricostruiti in controluce sui riscontri offerti dal trattato di Giovanni. Di quegli anni è poi un documento che potrebbe costituire un punto di congiunzione importante. Nel marzo 1216 un'alleanza contro Città di Castello fu siglata dai podestà di Arezzo e di Perugia, che erano allora, nel primo caso, quel Giovanni Cocchi al cui seguito abbiamo visto certamente essere proprio un "Iohannes Viterbiensis" giudice, e, nel secondo, proprio quel "Iohannes Iudicis" che nel 1234 avrebbe avuto con sé a Firenze sicuramente dei collaboratori viterbesi, e che potrebbe essere appunto il podestà al cui seguito G. scrisse il trattato. L'incontro tra i personaggi non può essere sottovalutato e non si può non immaginare che G. potrebbe avere conosciuto in quell'occasione ed esserne poi reclutato in occasione di successive podesterie Giovanni "De Iudice" (Giovanni Del Giudice). Quest'ultimo fu una figura di cerniera nella rete di alleanze che Firenze stese contro Siena nel corso della lunga guerra tra 1228 e 1235: podestà a Orvieto nel 1226 e nel 1230, negli interstizi di una lunga presenza di rettori fiorentini che servì a cementarne l'alleanza, fu poi podestà a Firenze nel 1234, ove guidò l'esercito nelle scorrerie nel Senese; stipulò la lega con il podestà di Orvieto e avviò le trattative di pace, mediate da Gregorio IX, con il podestà di Siena. Queste vicende trovano un'insospettata eco in alcuni riscontri testuali del Liber, che lasciano pensare come esso possa essere stato scritto effettivamente nel mezzo di questi eventi. Gli esempi di lettere che devono scambiarsi i Comuni in occasione dell'elezione di podestà fanno tutte riferimento a città collegate a Firenze contro Siena - Todi, Narni, Perugia, Viterbo, Orvieto -, mentre l'unica altra città citata in queste rubriche del Liber (oltre alle maggiori, come Firenze, Roma e Milano) è Siena, che appare, per giunta, come nemica di Orvieto nella rubrica che illustra le lettere che devono scambiarsi città nemiche. Se poi si passa all'esame delle rubriche che propongono le tracce dei discorsi che il podestà deve tenere in occasione della mobilitazione dell'esercito, i tre nemici presi a esempio, come di maggiore, pari o minore grado, sono Roma, Pistoia e Poggibonsi: senza contare la circostanza che l'esercito era stato effettivamente mobilitato all'assedio di Pistoia all'inizio della guerra nel 1228, l'esempio di Poggibonsi, che apparentemente potrebbe sembrare più bizzarro in un trattato generale come questo, è invece significativo proprio perché il "magnum castrum" era in quegli anni schierato in guerra con Siena contro Firenze e contro di esso fu in effetti mobilitato l'esercito.
L'individuazione del romano Giovanni "De Iudice" nel podestà al seguito del quale G. scrisse il suo Liber appare dunque fondarsi su un complesso di considerazioni più ampio rispetto a quelle che sono state avanzate in passato basandosi quasi esclusivamente sulle sigle dei personaggi presenti nel testo. Ma, ancora una volta, non possiamo che fermarci alle congetture, per quanto documentariamente plausibili: a meno di ulteriori ritrovamenti, la vita di G. e la datazione della sua opera sono destinate a rimanere di incerta ricostruzione.
L'opera di G., più che a uno specifico genere podestarile, di cui è stata recentemente messa in discussione l'esistenza di un canone specifico (Artifoni, 1993, pp. 63 s.), appartiene a un più ampio insieme di letteratura a scopo didattico, e di fondamentale matrice dettatoria e retorica, rivolta a fornire istruzioni procedurali e modelli di comportamento in ambito politico: una letteratura precettistica, di orientamento pratico e morale diretta ai cives e relativa, in primo luogo, alla figura del podestà e all'esercizio professionale del potere. Il Liber, in particolare, testimonia del grado avanzato di esperienza cui attinse, alla metà del Duecento, il mondo di funzionari (giudici, notai, uomini di legge) che, al seguito dei rettori itineranti, venivano diffondendo da una città all'altra pratiche politiche di tipo nuovo, contribuendo a fare dell'Italia comunale un ambito omogeneo di civiltà urbana.
I codici che hanno tramandato il Liber sono due apografi conservati a Firenze (Bibl. Laurenziana, ms. Strozziano 63, cc. 1r-50v) e a Milano (Bibl. Ambrosiana, ms. B.91, cc. 69r-76r). Il primo - membranaceo, di mano della seconda metà del secolo XIII e di carte 143 - ne contiene il testo intero (nelle prime 50 carte), per quanto guasto in più punti, specialmente nelle parti attinte alle fonti classiche, e lo attribuisce a Vegezio ("Liber de regimine civitatum a Vegetio conpositus, qui librum de re militari conposuit": c. 1r). L'Ambrosiano - anch'esso membranaceo, di mano della fine del secolo XIII o del primo XIV e di carte 246 - ne contiene, oltre a una parte del proemio, solo un compendio di 40 fra i primi 84 capitoli del trattato (alle carte 69r-76r) e lo attribuisce invece a G. ("Liber de regimine civitatum editus a Iohanne Viterbiensi": c. 69r). Non riportando, quest'ultimo, che meno di un sesto del testo dell'intera opera (di lezione, tra l'altro, assai incerta), l'edizione di Salvemini (1901) è stata condotta sul codice laurenziano, con robuste integrazioni, nei luoghi corrotti, col testo delle fonti attinte dall'autore. Degli esempi e frammenti di dicerie volgari ha dato poi una nuova edizione critica Folena (pp. 102 s.).
Il Liber si compone di 148 capitoli (numerati da Salvemini) senza partizioni ulteriori. Lo svolgimento dell'opera ha comunque un impianto sostanzialmente cronologico, dall'elezione al commiato del podestà, e segue la trama di una deontologia fatta di precetti morali, di consigli pratici e di modelli di lettere e di discorsi, "ad enucleandam doctrinam et practicam de regimine civitatum et ipsarum rectoribus" (Liber, p. 217).
Dopo un breve proemio, il Liber si apre con una serie di definizioni delle parole e delle istituzioni che vi saranno più spesso citate. Segue un complesso di capitoli dedicati all'elezione del podestà, con 11 formule epistolari di missive e responsive. È poi la volta degli articoli dedicati alla sua preparazione e alla scelta degli ufficiali e dei suoi collaboratori, cui seguono quelli che descrivono i modi di arrivo e di accoglienza nella città di destinazione. Agli iuramenta del podestà e degli uomini del suo seguito, ai sequimenta dei magnati e dei consiglieri locali che lo affiancheranno al governo, e al discorso di saluto del nuovo rettore, G. accompagna sette formule di giuramento e quattro modelli e tracce di discorso, intercalati da parti in volgare. Seguono ulteriori capitoli dedicati alla nomina e al giuramento di ufficiali locali. La cerimonia di insediamento del podestà è infine tutta centrata sul discorso di ammonimento agli amministrati (e sulla lettura dei bandi o degli statuti), che G. suddivide in tre capitoli con modelli con lunghi esordi in volgare, in cui, come in quelli precedenti, il latino serve soprattutto come schema mnemonico, come falsariga dei "parlamenti".
A questa prima segue una parte incentrata sull'esercizio dell'ufficio del podestà. Vengono innanzitutto elencati i doveri, con lunghi ammaestramenti sui vizi da evitare, largamente basati su citazioni, in prosa e in versi, di autori e trattati morali più o meno antichi e autorevoli (Orazio, Ovidio, i Disticha Catonis, Bernardo di Chartres, Alano di Lilla, Aviano e altri), probabilmente riprese da compilazioni come il De contemptu mundi di Innocenzo III o il Moralium dogma philosophorum della metà del secolo XII. Sono poi elencati gli obblighi: rispetto della religione e tutela dei deboli; sorveglianza sugli ufficiali e difesa della città; amministrazione della giustizia; gestione oculata dell'erario pubblico. Una decina di capitoli sono dedicati al possesso e all'uso delle quattro virtù cardinali, anche in questo caso con ampie citazioni di autori e testi più antichi (Seneca, Cicerone, Sallustio, Boezio, Agostino, oltre ovviamente alla Bibbia) e ripresa quasi integrale del De formula honestae vitae sive de quattuor virtutibus cardinalibus di Martino di Braga, ma anche attribuito nel Medioevo a Seneca. Seguono capitoli dedicati ai doveri degli ufficiali del podestà, ai consigli che egli deve convocare, alle ambasciate da spedire, alle lettere da scrivere ecc., inframmezzati ad altri che discutono sulla severità, sull'indulgenza e sulla liberalità che deve assumere il rettore, con ulteriori citazioni di testi più antichi già menzionati. Tre capitoli sono qui dedicati ai rapporti tra l'autorità imperiale e quella pontificia, nei quali G. delinea un tipo di relazione fondato sull'autonomia e la concordia tra i due poteri. Altri capitoli sono infine dedicati al tempo di guerra (con tre modelli ulteriori di discorsi esortativi), ai rapporti coi comuni vicini, alle riforme degli statuti, fino a quelli che illustrano le operazioni di conclusione e di rendicontazione dell'ufficio e di commiato del podestà alla città.
La natura compilativa del Liber (è stato calcolato che almeno due terzi del testo sono costituiti da interpolazioni: Sorbelli, p. 92) - intessuto da costanti riferimenti al Corpus iuris civilis e al De officiis di Cicerone - non solo conferma le pratiche autoriali dell'epoca, ma ne fa uno dei maggiori crocevia della cultura civica del Duecento italiano, per ricchezza di informazione e larghezza di conoscenze. È lo stesso G. a denunciare il suo metodo di lavoro, quando dice di aver raccolto la materia "per diversa librorum volumina diffusam". I modelli epistolari e le tracce di discorsi lo collegano poi con la tradizione delle artes dictandi e con le raccolte di oratoria volgare, di arengherie e dicerie, con lo stretto nesso, vale a dire, tra retorica e politica, tra eloquenza e governo della città (Artifoni, 1986, pp. 699-701; Skinner, 1990, pp. 126 s.).
L'opera, però, sedimenta anche saperi più antichi, riproponendo nozioni di sacralità giuridica, relative allo iudex come "sacerdos temporalis" e all'idea dell'imperatore come "lex animata", tipiche di una tradizione anteriore (Kantorowicz, 1957, p. 122). Ma allo stesso tempo il Liber si presenta anche, sin dall'apertura ove è definita la nozione di regimen e delle varie finalità del governo, come uno dei primi testi del repubblicanesimo civile, là dove, nel recupero ciceroniano del legame tra civitas e libertas, si evidenzia un'attenzione specifica alle procedure decisionali nei Consigli e agli ideali di protezione giuridica ed equità, intese principalmente come protezione, come immunitas, della persona e della proprietà dalla violenza e dall'illegalità dei tiranni e dei magnati (Viroli, 1994, pp. 12-16; Meier, pp. 10-14). Peraltro, l'impianto dell'opera, centrata sul buon governo podestarile, sulla figura del rettore, ha indotto anche a una sua lettura in termini di crisi ideologica dell'istituzione podestarile (Sorbelli, p. 35; De Matteis, 1977, pp. XXXII-XXXVIII).
Evidenti, e sottolineate sin dal XIX secolo (Novati, p. 83), sono infine le strette corrispondenze tra il Liber e la parte conclusiva del Tresor (III, 73-105) di Brunetto Latini, la sezione politica del terzo libro, "k'ele ensegne a home parler selonc la doctrine de retorike" (p. 17). Per quanto non certa, e revocata in dubbio da una proposta di datazione del Liber al 1264 (Sorbelli, pp. 99-101), l'anteriorità dell'opera di G. rispetto a quella di Brunetto risalta al confronto testuale, là dove il Tresor (datato alla metà degli anni Sessanta) appare chiaramente una versio compendiaria del testo di G. (Salvemini, 1903, p. 293). L'arte di governare secondo giustizia le comunità cittadine raggiunge in queste due opere il culmine della sua trattazione teorica, collocando l'attività politica all'interno del campo concettuale della retorica, intesa come pedagogia individuale e collettiva del civis attivamente coinvolto nella società e nel governo comunale (Artifoni, 1995, p. 146): l'ars loquendi attinge a codici di comportamento per l'individuo sociale, la cui virtù politica coincide con il possesso della civilis sapientia e con i modi retorici incaricati di espanderla (Ciccuto, p. 55).
Non testuali, ma sostanziali, sono poi i possibili rapporti con la teoria che Dante esporrà nella Monarchia, dei passi in cui G. tratteggia l'autonomia del potere temporale da quello spirituale nel capitolo dedicato ai rapporti tra l'autorità imperiale e quella papale (Sensi, p. 194; Davidsohn, 1973, V, p. 55).
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