GIOVANNI da Spoleto (Giovanni di ser Buccio da Spoleto)
Il più antico documento che lo riguarda, segnalato da S. Nessi, permette di collocarne la nascita al castello di Acera, presso Spoleto, intorno al 1370. Si tratta della deliberazione con la quale il 31 maggio 1387 il capitolo del duomo di Spoleto, che disponeva di un lascito testamentario del cardinale Niccolò Capocci, presentava il "providum virum Iohannem ser Butii de Acera, districtus Spoleti, iuvenem studebilem modestum et sufficientem" (Nessi, p. 49) affinché fosse accolto nel collegio della Sapienza di Perugia. Il giovane doveva essere, allora, intorno ai 17 o 18 anni, età congrua a un suo avviamento agli studi superiori e al fatto che, sei anni più tardi, già lo si ritrova registrato tra i professori dello Studio di Bologna, condotto per il biennio 1393-94 per l'insegnamento di grammatica e poesia e per la lettura di Dante.
Da Bologna passò nel biennio successivo, con identico incarico, a Pistoia; il 5 maggio 1396 accettò quindi, con una lettera scritta da Perugia, pubblicata da P. Rossi, la proposta che gli veniva dal Comune di Siena di recarsi in quella città a insegnarvi grammatica e retorica e a tenere pubbliche letture dantesche nei giorni festivi. L'incarico gli fu quindi via via confermato, tanto che G. finì per trasferirsi a Siena dove rimase per il resto della sua lunga vita, ricusando almeno un paio di inviti del Comune di Spoleto, rivoltigli nel 1410 e nel 1416. Segnalati e pubblicati dal Nessi, questi inviti mostrano la notevole rinomanza che il maestro si era guadagnata e ci informano che G., nel 1410, doveva essere sposato e avere un figlio maschio al quale (e a tutta la successiva discendenza maschile) il Comune estendeva la concessione della cittadinanza, promessa al padre in caso di accettazione dell'invito.
Già al momento della prima condotta senese G. si era conquistato una buona fama di insegnante comprovata dall'alta remunerazione offertagli, 100 fiorini annui esenti da gabelle. All'insegnamento senese è legata anche la fama goduta di riflesso dal maestro per aver avuto tra i primi suoi discepoli Bernardino da Siena, fatto che gli ha meritato di essere onorevolmente menzionato nelle biografie del santo; Maffeo Vegio, per esempio, scrive che sotto la guida di G. Bernardino si dedicò allo studio delle arti del trivio e dell'etica e che dal maestro fu introdotto anche alla lettura dei poeti.
Del 1° febbr. 1405 è la lettera di Coluccio Salutati indirizzata a G., evidentemente di risposta a una missiva perduta nella quale il più giovane maestro dello Studio senese doveva rivolgersi a Coluccio con la devozione di un discepolo, chiedendogli di elencare le opere da lui composte: la risposta lascia intravedere una qualche dimestichezza tra i due e contiene un ordinato catalogo della produzione letteraria di Coluccio dal 1380 in poi, del quale dobbiamo essere grati alla curiosità di Giovanni da Spoleto.
Tra il 9 e il 12 febbr. 1407 ebbe occasione di incontrare Iacopo Altoviti, vescovo di Fiesole, durante una sosta di questo a Siena mentre si recava a Roma come incaricato d'affari di Firenze per questioni attinenti lo scisma che in quegli anni travagliava la Chiesa. In realtà né l'Altoviti, né, tanto meno, G. parteciparono da protagonisti alla complessa vicenda dello scisma: ma l'incontro senese fu l'occasione per la composizione di un dialogo, De rescindendo scismate, di cui sono essi stessi interlocutori e che costituisce la più impegnativa delle opere note di Giovanni da Spoleto.
Nel dialogo il ruolo di protagonista è affidato a Iacobus (Iacopo Altoviti), mentre Iohannes ha il compito di sollecitare chiarimenti e, alla fine, si dichiara completamente convinto della tesi dell'interlocutore. Il dialogo entra fin dall'inizio in medias res, con G. che dà per già esposte le tre possibilità che si offrono per eliminare lo scisma e interroga Iacopo su quella che gli sembra più conveniente. Si tratta della cessionis via, che appare "competentior, commodior et expeditior" (ed. Monfrin, p. 33): entrambi i contendenti dovrebbero rinunciare al Papato, per consentire una nuova elezione unificante. La dimostrazione procede attraverso la preliminare esclusione delle altre due vie, quella della giustizia e quella del compromesso: affidare la causa a un supremo tribunale cardinalizio col compito di decidere quale dei due contendenti abbia miglior diritto non sarebbe né rapido né decisivo, proprio per la difficoltà di discernere tra la molteplicità dei pareri; né sarebbe possibile individuare un giudice super partes, capace di assicurare una soluzione compromissoria. Alla via di cessione G. obietta che essa recherebbe ingiustizia a quello dei due contendenti che si trovasse nel giusto; la cessione, replica Iacopo, deve essere spontanea e dunque, per chi pure sia nel giusto, atto di carità che conferisce nuova dignità. E, in un caso come questo, rinunciare non sarebbe la viltà di chi vuol sottrarsi alle responsabilità della più alta delle cariche, ma sacrificio personale per un bene comune, per la fine dello scisma e di tutti i mali che ne derivano, e per il ristabilimento della giustizia.
Nel 1420 G. risulta censito nel terzo di Camollia insieme con la moglie e il figlio Niccolò, con l'appellativo di "maestro Giovanni de la gramatica". Il 22 genn. 1421 ricevette l'invito dal Comune di Pistoia di recarsi in quella città a insegnarvi grammatica e retorica, discipline nelle quali risultava "aliis prevalere et esse valentissimum" (Nessi, p. 48), ma egli preferì restare a Siena dove, nel 1423, ebbe un altro prestigioso discepolo, Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II. Nel 1432-33, quando Sigismondo di Lussemburgo, imperatore e re d'Ungheria, dimorò a Siena, G. strinse rapporto di amicizia con il vicecancelliere Ladislao Csapy, ed entrò a far parte della familia dell'imperatore, con un privilegio concessogli il 18 apr. 1433. A Ladislao G. dedicò la Defensio simiae, una sorta di scherzoso panegirico di una bertuccia, che rischiava di essere severamente punita dal suo padrone per aver distrutto un codice, lasciato distrattamente incustodito, contenente altre operette, anch'esse offerte da G. a Ladislao. Di qui apprendiamo qualche notizia intorno al contenuto di alcune orazioni di argomento sacro che risultano perdute.
La Defensio simiae intende scagionare la scimmia e sottrarla dunque alla punizione che il suo padrone vorrebbe infliggerle, con l'intenzione, altresì, di "iocosi et festivi animalis summare solatia" (c. 106r), raccogliendo dunque varie storielle di cui sia protagonista una scimmia, attinte dalla tradizione classica e dall'aneddotica contemporanea.
Tra il luglio del 1433 e il 1437 G. risulta assente da Siena, probabilmente perché recatosi in Ungheria al seguito dell'imperatore. Nel 1440 gli fu confermato l'insegnamento senese, ma con lo stipendio fortemente ridotto di 60 fiorini. Nel 1445 risultava ormai incapace di esercitare l'insegnamento a causa dell'età e ridotto in miseria, tanto da essere indotto a rivolgere al Consiglio generale, l'11 febbraio di quell'anno, una supplica per ottenere un qualche sussidio per il suo sostentamento. Nella petizione (in volgare, pubblicata dal Rossi), il vecchio maestro ricordava al Consiglio, con grande dignità e consapevolezza della dedizione, dell'impegno e del frutto della propria opera di insegnamento, il servigio svolto "già sono anni L o circa che […] venne a la città vostra conducto per maestro di scuola, dove continuamente ha lecto gramatica, poesia e retorica a' vostri figliuoli, et in esso exercitio, con fede, diligentia e sollicitudine ha continuamente vigilato per modo che mediante la divina gratia, lui ha facto non piccolo fructo ne la città vostra" (p. 173). Giunto all'estrema vecchiaia, privato dello stipendio di insegnante, chiedeva un sussidio che gli permettesse di sopravvivere "questo poco rimanente di vita, che non può essere se non brevissimo" (p. 174), non potendo contare sull'aiuto del figlio Niccolò, padre a sua volta di quattro figli in tenera età che a fatica riusciva a mantenere.
Con 179 voti favorevoli e 69 contrari il Consiglio concesse a G. il sussidio annuo di 30 fiorini; la supplica del 1445 è tradizionalmente considerata non di molto precedente la morte.
Di carattere filosofico è un altro breve scritto di G., una lettera responsiva a una serie di quesiti propostigli da Lorenzo di Pietro di Iacopino da Castelfiorentino, da datarsi post 1413, poiché al destinatario è attribuito il titolo di vescovo di Acaia. Il maestro, dopo aver compiuto la consueta dichiarazione di modestia e di incompetenza, risponde con grande sicurezza alle domande Quonam modo se habet intellectus ad captandam scientiam; deinde vero an aliquosit opus medio dispositivo. Il tema di questo scritto, e il modo di condurre l'argomentazione, rivelano in G. una cultura piuttosto attardata, legata a idee e metodi medievali piuttosto che alla nuova cultura dell'Umanesimo (della quale, peraltro, Siena rimase a lungo ai margini), probabilmente appena sfiorata nel rapporto epistolare con il Salutati.
Nulla più che la nuda notizia rimane purtroppo intorno alle sue letture dantesche: quanto basta, peraltro, per attribuirgli almeno il merito di aver diffuso a Siena la conoscenza della Commedia.
Il Nessi ha segnalato una Questio an mundus fuerit ab eterno, datata 1460, conservata nel codice Ottob. lat. 381 della Bibl. apost. Vaticana: ma Iohannes Spoletinus non è qui il nome dell'autore (che è Alessandro Sermoneta), come ritiene il Nessi, ma quello del destinatario (come correttamente indicato da Kristeller) e quindi si riduce anche d'importanza il dubbio se si tratti di G. o di un omonimo, com'è forse più probabile, data la difficoltà di pensarlo sopravvissuto e ancora attivo quindici anni dopo la supplica senese.
Degli scritti di G. solo il Dialogus de rescindendo scismate, conservato nel ms. G.44 della Biblioteca del Capitolo di S. Pietro (cfr. P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, p. 491), è stato pubblicato da J. Monfrin, Il dialogo di G. da S. a Jacopo Altoviti, vescovo di Fiesole (1407), in Rivista di storia della Chiesa in Italia, III (1949), pp. 9-44; il trattatello Quonam modo se habet intellectus ad captandam scientiam è conservato nel ms. II.IV.192 della Biblioteca nazionale di Firenze e il panegirico della bertuccia nel ms. 1195, cc. 106r-118v, della Biblioteca Riccardiana di Firenze (cfr. S. Morpurgo, I manoscritti della R. Biblioteca Riccardiana di Firenze, Roma 1885, I, pp. 256 s.). In un manoscritto conservato a Oxford, Bodleian Library, D'Orville 148, cc. 61-75, Kristeller ha rinvenuto lo scritto De vite et capro, ricordato da G. nella Defensio simiae.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Siena, Concistoro 1837, n. 39; Spoleto, Arch. del duomo, Registri capitolari, 1, c. 33; Sezione di Arch. di Stato di Spoleto, Riformanze del Comune di Spoleto, anno 1410, cc. 184v, 186v-188r; anno 1416, cc. 403r-405v; C. Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, IV, Roma 1905, pp. 69-77; Acta sanctorum maii, V, Antverpiae 1685, pp. 263, 288 (in relazione a s. Bernardino); S. Mazzetti, Repertorio di tutti i professori della Università e dell'Istituto delle scienze di Bologna, Bologna 1848, p. 155; L. von Pastor, Storia dei papi, I, Trento 1890, pp. 133, 619 s.; L. Zdekauer, Lo Studio di Siena nel Rinascimento, Milano 1894, p. 164; P. Rossi, La "Lectura Dantis" nello Studio senese. G. da S. maestro di rettorica e lettore della Divina Commedia, in Studi giuridici dedicati e offerti a Francesco Schupfer, Torino 1898, pp. 153-174; A. Zanelli, Del pubblico insegnamento in Pistoia dal XIV al XVI secolo, Roma 1900, pp. 44 s.; G. Livi, Dante e Bologna, Bologna 1921, p. 59; F. Marletta, Note all'epistolario del Panormita, in La Rinascita, V (1942), pp. 519 s.; G. Prunai, Lo Studio senese dalla "migratio" bolognese alla fondazione della "Domus Sapientiae" (1321-1408), in Bull. senese di storia patria, LVII (1950), p. 49; F. Banfi, La leggenda del palazzo della scimmia. A proposito dell'epistola di G. da S. a Ladislao Csapy d'Ungheria, in L'Urbe, XV (1951), pp. 1-10; Id., Umbri in Ungheria, in Bull. della Deputazione di storia patria per l'Umbria, XLVIII (1951), pp. 62-64; S. Nessi, Un dantista spoletino sconosciuto, in Spoletium, XX (1975), pp. 43-50; Enciclopedia dantesca, III, pp. 192 s.; P.O. Kristeller, Iter Italicum. A cumulative index to volumes I-VI, (sub vocibusJohannes Spoletinus e Johannes de Spoleto).