PROCIDA, Giovanni da
PROCIDA, Giovanni da. – Sulla nascita, tra il secondo e il terzo decennio del XIII secolo, forse a Salerno, alla cui Scuola medica appartenne secondo la tradizione, mancano notizie documentate. La firma come testimone con la qualifica di magister al testamento di Federico II, datato 17 dicembre 1250 a Castel Fiorentino, è la prima notizia, l’unica che ne rivela il ruolo alla corte dell’imperatore, del quale sarebbe stato il medico, almeno in punto di morte, presente Manfredi.
Dubbia è la notizia che Federico gli avesse fatto sposare Clemenza, figlia del protonotaro Andrea Logoteta, e che dalle nozze ottenesse un fondaco a Salerno e beni feudali a Montecorvino. Potrebbe essere fondata l’ipotesi che Clemenza fosse sua madre, dato che ebbe una sorella dello stesso nome, depositaria di denaro del porto di Salerno, e che Andrea da Procida, ritenuto suo fratello, con lui alla corte aragonese, capitano e amministratore episcopale di Catania, avrebbe il nome dell’avo.
Seguì Manfredi, con il quale fu a San Gervasio nel settembre del 1257, a Lucera nel maggio del 1259, svolgendo attività nella Cancelleria almeno dal luglio 1262 a Palermo, in marzo e ottobre 1263 a Foggia, a Capua nell’agosto del 1265. Nella cattedrale di Salerno, nel cui mosaico absidale della navata destra, ritenuto da lui commissionato nel 1260, è rappresentato orante, una lapide lo definisce «magnus civis», signore di Procida, «socius» del re, il quale gli avrebbe accordato la fiera e l’ampliamento del porto e conferito la baronia di Caivano.
Dopo la sconfitta sveva andò a Viterbo, dove curò la podagra del papa e la malattia del cardinale Giovanni Orsini, futuro Nicolò III, ottenendo che Clemente IV presentasse a Carlo d’Angiò una richiesta di perdono, che ne lodava scienza e versatilità, per la quale il papa si giustificò nel giugno del 1266, imputando all’estensore il tono della lettera, sollecitata da cardinali. Per evitare la deposizione il vescovo di Minori, Oddone Iuncata, forse suo parente perché Gualtiero Iuncata era un nipote, fu costretto ad ammettere i rapporti con lui.
Coinvolse per il matrimonio della figlia Beatrice anche un influente notaio pontificio, il napoletano Berardo Caracciolo, con un accordo stipulato il 28 agosto 1267 dal fratello Gregorio, tutore del nipote Berardello, figlio di Bartolomeo Caracciolo. Promise una dote di un quinto dei beni acquisiti o posseduti nell’isola di Procida, sia in terra sia in mare, nel castello o altrove. Unico effetto immediato del contratto, che prevedeva le nozze tra due minori d’età inferiore ai sette anni, era il trasferimento ai Caracciolo dei beni mobili che aveva a Napoli, più della metà del fondaco dei Pisani, in corrispettivo delle cento once dell’arra matrimoniale. Con un mutuo Gregorio Caracciolo dette la somma alla moglie di Giovanni da Procida, Pandolfina o Landolfina Fasanella, i cui garanti salernitani furono poi chiamati in giudizio da Caracciolo per il rimborso, probabilmente perché fallì il tentativo di sottrarre i beni al sequestro. L’atto notarile, riunendo nella sala capitolare dei domenicani di Viterbo come fideiussori o testimoni tra gli altri i fratelli Riccardo, Giordano e Pietro Filangieri, Landolfo Caracciolo, altro nipote di Berardo, Giovanni da Eboli, Guido da Pozzuoli, Landolfo Capece, il vescovo di Capaccio e due socii di Berardo Caracciolo, con l’accordo matrimoniale saldò la loro alleanza e coprì la presa di posizione a favore di Corradino di Svevia.
Nell’ottobre del 1267 fu considerato traditore da Carlo d’Angiò, il quale gli confiscò i beni a Procida (più di metà del castello e dell’isola, secondo il procuratore che da sette anni li amministrava), a Napoli (una casa terranea con un piccolo viridarium), a Salerno (terre e un palatium a Fuorni), a Venosa (un palatium magnum soleratum, una casa, un mulino, delle terre) e a Montecorvino, mentre la moglie, dichiarando fedeltà al re, non ottenne la restituzione dei beni dotali, ma solo un sussidio e il permesso di vivere a Salerno. Dopo la vittoria di Tagliacozzo, informato che Oddone Brancaleoni di Luco lo avrebbe nascosto con Manfredi Maletta nelle sue terre, Carlo d’Angiò ne ordinò la cattura. Pare andasse con Enrico d’Isernia e Pietro de Prezze da Federico di Turingia a Meissen e nel 1271 fosse nascosto nel Regno di Sicilia.
Stabilitosi presso Giacomo I d’Aragona, il 26 giugno 1275 ebbe in feudo dall’infante Pietro, sposo di Costanza di Svevia, castello e villa de Aliis et de Pomario, in memoria del servizio prestato al suocero Manfredi. Dopo l’ascesa al trono, come suo consigliere, ebbe da Pietro III, il 18 febbraio 1278, la torre di Binazanes e i castelli di Luchente e di Palma nel Regno di Valenza, oltre alle case dietro l’episcopato valenziano, appartenute al vescovo di Huesca e ricevute in risarcimento dell’esilio sofferto.
Presente a Barcellona il 18 novembre 1278 all’accordo per le nozze dell’infante Giacomo con la figlia del conte di Foix, a Valencia il 24 novembre 1279 alla promessa di Giacomo Perez di restituzione di Segorbe, in assenza del re assistette, nell’aprile del 1280, la regina Costanza nell’invio di un’ambasceria al conte Ottone di Borgogna e fu testimone, il 18 febbraio 1282, a Valencia al giuramento dei rappresentanti di Palma di Maiorca per l’accordo di Perpignano tra i re d’Aragona e di Maiorca. Per l’intensa e rilevante attività, è improbabile e non documentato che in questo periodo viaggiasse segretamente a Costantinopoli, in Sicilia e alla Curia pontificia per organizzare la congiura contro Carlo d’Angiò, che la leggenda popolare gli attribuì.
Si trasferì dopo il Vespro con la regina e gli infanti in Sicilia, dove il 4 maggio 1283 a Trapani fu nominato da Pietro d’Aragona cancelliere del Regno di Sicilia, ufficio nel quale il 31 gennaio fu confermato a vita. Operando per la difesa contro gli angioini, specie a Reggio, e contro l’opposizione interna, contribuì alle spese navali e fu lodato dal re, il quale lo informò, il 29 luglio 1283, sulla pugna di Bordeaux, ne esaminò le iniziative di governo a fianco di Costanza e gli inviò nuove direttive.
Mantenne con re Giacomo l’ufficio di cancelliere, provvedendo il 19 febbraio 1287 a fare autenticare a Messina la rinuncia di Alfonso d’Aragona al Regno di Sicilia. A metà maggio ad Augusta ebbe parte in una vicenda che coinvolse il re, procurandogli una donna che gli dette un figlio. Difese l’ammiraglio Ruggero di Lauria dalle accuse per la tregua del giugno del 1287. Come ambasciatore nel 1290 andò da Nicolò IV.
Giacomo II, divenuto re d’Aragona, nel 1291 estese a quel Regno il suo ufficio di cancelliere, lasciandolo in Sicilia a fianco del luogotenente Federico e della regina Costanza. Il 24 febbraio 1292 il re gli donò a vita la terra di Scicli, il 30 marzo gli confermò le case di Valenza, dopo la restituzione di 40.000 soldi che si era fatto dare dal figlio Francesco, provenienti dalla sua quota del diritto di sigillo. Gli raccomandò nel mese di ottobre la difesa della Sicilia, specialmente del castello di Malta. Nell’aprile del 1293 il re lo chiamò nella penisola iberica, ma previde che non potesse partire, e gli concesse la legittimazione del figlio naturale Tommaso. Il 24 settembre gli confermò in capite e senza servitium castello e terra di Scicli, con la terra di Centuripe. Le sue prese di posizione e la protratta permanenza nell’isola tra febbraio e aprile 1294 furono indicate dal re come un ostacolo alle trattative con Carlo II d’Angiò. In giugno propose le nozze dell’infanta Violante con il duca di Baviera. Sembra continuasse in Sicilia a esercitare la medicina: in maggio un napoletano, Gualtiero Caracciolo Pisquizi, ottenne la possibilità di consultarlo.
Salpò alla fine di aprile del 1295 con Federico, al quale il papa aveva chiesto di condurlo con sé, e partecipò alla fine di maggio all’incontro di Velletri con Bonifacio VIII, che accompagnò ad Anagni, dove, mentre fu decisa la rinuncia alla Sicilia, trattò le nozze di Federico con Caterina di Courtenay. Dal papa, il quale gli raccomandò il 31 luglio l’approvvigionamento di Roma, ottenne il 9 agosto il trasferimento tra le clarisse della figlia Giovanna, dal monastero salernitano di Santo Spirito a quello riformato di San Lorenzo de Monte.
Al ritorno in Sicilia non è chiara la sua posizione. Dopo essersi arroccato contro le aspirazioni di Federico alla corona, pare le assecondasse. Bonifacio attraverso i legati, con promesse e velate minacce, gli ingiunse il 2 gennaio 1296 di lasciare l’isola entro maggio e di non sostenere la resistenza di Federico, per ottenere la restituzione dei beni confiscati prevista dal trattato. Perso nel 1296 il cancellierato dei due Regni, partì con Costanza per Roma, con la motivazione di accompagnare Violante, la quale andò sposa a Roberto d’Angiò. Giunsero il 25 febbraio 1297, accolti da Giacomo. Preoccupato di assicurare l’eredità al figlio Francesco, verso il quale il re d’Aragona riconobbe un debito di centomila soldi, espose a Bonifacio VIII gli ostacoli frapposti da Roberto d’Angiò e dal protonotaro Bartolomeo da Capua per non restituire la baronia di Postiglione, proveniente dai Fasanella, e beni in altre parti del Regno. Ottenne il 21 marzo 1298 un duro intervento del papa, il quale assegnò la causa a un uditore.
Morì prima del 23 gennaio 1299, forse a Roma. Come medico, gli furono attribuite un’opera intitolata Utilissima practica medica, un elettuario per i reumatismi, prescrizioni contro la sete e i calcoli renali e della vescica, traduzioni dal greco e dall’arabo.
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