GIOVANNI da Otranto (Giovanni Grasso)
La figura di questo poeta italobizantino del sec. XIII ha acquistato spessore e coerenza solo da quando è stato dimostrato che il notaio imperiale Giovanni da Otranto e il poeta Giovanni Grasso sono la stessa persona. Molte notizie sulla vita di G. si ricavano dalla sua produzione poetica e dagli scritti degli amici che frequentavano l'ambiente del monastero di S. Nicola di Casole in Terra d'Otranto: tra gli altri il maestro Nettario, il metropolita di Corfù Giorgio Bardanes, il cartofilace Giorgio di Gallipoli e il figlio di G., Nicola.
G. fu allievo del settimo igumeno di Casole, l'abate Nettario, e come lui formò la sua educazione letteraria sui libri della biblioteca del celebre monastero casulano, ultimo centro di cultura greca nell'Italia meridionale del Duecento. La stessa notizia è confermata dal primo e dal secondo carme di G. (secondo l'edizione curata da M. Gigante nel 1979). G. conosceva perfettamente il greco e il latino, come dimostrano le annotazioni presenti in un manoscritto contenente l'opera dello storico Diodoro Siculo che appartenne a G. (Parigi, Bibl. nationale, Gr. 1665, cc. 146r, 219v, 253v, 255r).
Della sua familiarità con i classici esiste anche la testimonianza dell'amico Giorgio Bardanes, il quale riferisce che G. gli aveva prestato l'Odissea e forse anche l'Iliade (epistole 7, 8, 9, ed. Hoeck-Loenertz): il che fa supporre che G. disponesse di una biblioteca greca privata. Si sa che il metropolita di Corfù fu ospite di G. per alcuni mesi: il 15 ott. 1235, a causa di un naufragio, Giorgio Bardanes fu costretto a riparare a Otranto, dove, dopo un breve soggiorno nel monastero di Casole, ammalato si trasferì nella casa di G., che in quel momento era in Germania al seguito di Federico II. Rimase lì fino alla primavera successiva, quando tornò in patria richiamato dal suo signore Manuele Comneno Duca.
Dai lemmi ai carmi di G. e del figlio Nicola si apprende che fu notaio imperiale, professore di greco e maestro addetto a ricevere le petizioni dirette a Federico II. Numerosi sono anche gli atti della Cancelleria imperiale che confermano e arricchiscono le notizie su di lui. Risulta, infatti, che G. abbia scritto almeno quattordici documenti collocabili tra il 24 dic. 1239 e l'11 giugno 1240; si conservano, inoltre, il testo del giuramento pronunciato da G. quando prese possesso dell'importante carica di raccoglitore delle petizioni rivolte all'imperatore e l'elenco preciso delle funzioni da lui svolte nell'ambito di questo incarico. Il 10 dic. 1250 sottoscrisse il testamento di Federico II, in qualità di testimone e fidelis dell'imperatore. Nello stesso anno G. aveva redatto in greco delle lettere di Federico al duca dell'Epiro Manuele Comneno e al genero, l'imperatore di Nicea Giovanni III Comneno duca di Vatatzes. Inoltre, nel Codice diplomatico brindisino sono registrati tre documenti, rispettivamente degli anni 1224, 1243 e 1261, in cui compare un "Iohannes Grassus, filius Guarini Grassi" che potrebbe essere identificato con Giovanni da Otranto.
Sia G., sia Giorgio di Gallipoli scrissero versi sull'assedio di Parma. Pizzi afferma che, con molta probabilità, i due poeti fecero parte del seguito dell'imperatore durante il celebre assedio del 1247. I loro componimenti su questo evento storico hanno in comune un forte sentimento ghibellino, dal quale scaturisce l'aspra invettiva contro la città infedele e uno stato d'animo eccessivamente fiducioso nella vittoria, mentre in realtà l'assedio fu un insuccesso per Federico II e si concluse con la distruzione di Vittoria, città da lui voluta per sostituire la ribelle Parma. In quell'occasione Giorgio di Gallipoli avrebbe consegnato il suo carme su Roma al maestro G. "elicona di miracoli delle Muse", "stupore della reggia" e "straordinario talento".
Da una lettera di Giorgio Bardanes del 7 sett. 1230 si apprende che G. aveva scritto altri versi in onore dell'imperatore e un'opera chiamata Pyrrhonia, che, però, sembra andata perduta. Egli sarebbe anche autore di versi di contenuto filosofico (Firenze, Bibl. Laurenziana, Mss., LXXXVI 15, cc. 184v-185v e El Escorial, Real Biblioteca de S. Lorenzo, omega IV 14, cc. 58v-61).
Di G. si sono invece conservati i tredici epigrammi editi da M. Gigante (1979, pp. 103-144). Gigante riconosce nei versi di G. i due caratteri distintivi della poesia bizantina, il sacro e il profano, presenti il primo negli epigrammi II-VIII e il secondo negli epigrammi IX-XII. La sensibilità cristiana traspare dall'utilizzo di fonti agiografiche e del Vecchio e Nuovo Testamento nei carmi dedicati ai santi Eustazio, Arsenio e Cristoforo e alla salutatio dell'arcangelo Gabriele alla Vergine. La dimestichezza con i classici, soprattutto con Omero e Aristofane, appare invece chiaramente nella poesia d'evasione di tema mitologico: nel carme sul lamento di Ecuba sulle rovine di Troia, nel dialogo ficto tra lo straniero e Cipride e nella rielaborazione della favola di Ero e Leandro e del mito di Apollo e Dafne. In questi, che sono i componimenti più ampi, il mito non è più sentito come modello poetico o morale, ma è piuttosto un esercizio letterario che difficilmente si eleva a creazione della fantasia. Il metro usato è il dodecasillabo bizantino e la lingua, che si avvale di allitterazioni, antitesi e procedimenti anaforici, è spesso artificiosa e classicheggiante.
Di G. si ignorano la data e il luogo di morte.
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