GIOVANNI da Fano
Nacque a Fano nel 1469, terzo figlio di Ugolino Pili e Brigida di Luigi Arnolfi, entrambi discendenti da famiglie patrizie del luogo. Entrò nell'Ordine dei frati minori della Regolare Osservanza, probabilmente nella provincia picena, intorno al 1485. Presumibilmente dopo un anno di noviziato e un corso di filosofia e teologia della durata di sei anni, fu ordinato sacerdote e destinato alla predicazione.
Celebre per le sue eccellenti doti di predicatore, che gli valsero il soprannome di "secondo Antonio da Padova", G. predicò la quaresima nel 1509 a Casteldurante (oggi Urbania), nel 1516 a Urbino e l'anno successivo nel convento di S. Francesco della Vigna a Venezia. Durante il capitolo provinciale di Ancona del 1518, fu eletto ministro provinciale delle Marche, carica in cui venne riconfermato nei due anni successivi.
Il provincialato di G. coincise con gli anni turbolenti successivi alla riforma generale dell'Ordine, che, con la bolla d'unione di Leone X Ite vos del 29 maggio 1517, aveva consacrato la separazione definitiva dell'Ordine francescano nelle due famiglie dei frati minori conventuali e degli osservanti e, al contempo, l'unione dei vari rami riformati francescani sotto il tetto dei minori osservanti, i quali assunsero il primato giuridico sui conventuali. In conseguenza di ciò, a G., come ministro provinciale, spettava il compito non facile di mitigare l'animata contesa, sorta all'interno dell'Ordine degli osservanti, tra la corrente riformista e quella conservatrice: la disputa rifletteva il persistere, nella tradizione francescana, di una corrente spirituale che, oltre alla regola serafica, si rifaceva alla vita e al testamento di s. Francesco. Il dissidio avrebbe portato, pochi anni più tardi, alla scissione e alla costituzione delle due nuove famiglie francescane dei minori cappuccini, nel 1525-28, e dei minori riformati, nel 1532.
In qualità di guida spirituale, G. fu in contatto con Battista da Varano, sorella del duca di Camerino Giovanni Maria, fondatrice e badessa del monastero delle clarisse di Camerino, e con suor Deodata di S. Francesco della Croce a Venezia, sorella di Francesco Maria I Della Rovere duca di Urbino. Su richiesta di quest'ultimo, G. accompagnò suor Deodata in viaggio da Venezia a Pesaro nell'estate 1522.
Il capitolo provinciale di Macerata del 1524 rielesse G. provinciale delle Marche, elezione che gli fu riconfermata anche nei due anni successivi. Il suo secondo provincialato vide un riaccendersi dello spirito di riforma all'interno dell'Ordine. Maturò un sempre maggiore distacco dalla Regolare Osservanza da parte della corrente riformista, che aspirava a una pratica più rigorosa della regola serafica rispetto a quanto previsto dalla bolla d'unione e all'istituzione di case di ritiro. G. si vide costretto a prendere misure anche drastiche per ristabilire la disciplina. Dovette così intervenire, allorché Matteo da Bascio del convento di Montefalcone Appennino, presso Ascoli Piceno, nel gennaio 1525 abbandonò il convento per gettarsi ai piedi del pontefice, onde ottenere l'autorizzazione a portare l'abito cappuccino, a osservare rigorosamente la regola di s. Francesco e a predicare fuori del convento. Ottenuta un'autorizzazione verbale da Clemente VII, ma senza attendere quella per iscritto, Matteo ripartì e si presentò il 18 aprile dello stesso anno al capitolo provinciale di Jesi, presieduto da Giovanni. In mancanza di un documento che potesse confermare le parole di Matteo, G. lo fece imprigionare nel convento di Forano come apostata. Solo per intervento di Caterina Cibo, duchessa di Camerino e nipote del pontefice, Matteo riottenne la libertà e da allora visse fuori del convento.
L'esempio di Matteo fece presto scuola. Nello stesso periodo, anche Ludovico Tenaglia da Fossombrone e suo fratello Raffaele, intenti a un'osservanza rigorosa della regola francescana, si rivolsero a G. per ottenere il permesso di seguire Matteo, che tuttavia non fu loro accordato. Di seguito, essi abbandonarono il convento e si misero sotto la protezione del ministro provinciale dei conventuali. Durante il capitolo provinciale di Recanati del 23 nov. 1525, G. mise al corrente di ciò il ministro generale dell'Osservanza, padre F. De Angelis, presentandogli la vicenda come caso di apostasia, dato che questi dimostrava un atteggiamento favorevole nei confronti dei "religiosi zelanti". Di conseguenza, De Angelis scomunicò i tre frati. Essi, rifugiatisi intanto nell'eremo di Sant'Angelo presso Cingoli, messo a loro disposizione dai conventuali, rappresentavano tuttavia un pericolo per l'ordine all'interno dell'Osservanza, sicché G. si recò a Roma, ottenendo l'emissione, l'8 marzo 1526, di un breve contro i fuggiaschi. Di ritorno, organizzò una spedizione punitiva - composta da soldati e frati muniti di bastoni - che guidò personalmente e che avrebbe dovuto concludersi con l'irruzione nell'eremo. Ludovico e Raffaele riuscirono però a sfuggire all'assalto e si rifugiarono presso i camaldolesi di Monte Corona. Lì vennero presi in custodia per intervento di G., ma poi rilasciati nuovamente e spediti nell'eremo di Pascilupo. Dopo varie peripezie, sempre perseguitati da G., sicuro dell'approvazione da parte della S. Sede, essi ottennero infine, il 18 maggio 1526, un indulto del cardinale Lorenzo Pucci, che li autorizzava a vivere fuori dei conventi sotto l'ubbidienza del vescovo della diocesi della loro dimora, nel loro caso il vescovo di Camerino. G. ottenne sì l'autorizzazione a procedere contro di loro, ma non poté convincere la duchessa di Camerino a non tollerare i frati "apostati" sul proprio territorio.
Nel 1527, pur potendo contare sull'aiuto del duca di Urbino per imprigionare Ludovico, G. non riuscì a impedire che questi e suo fratello Raffaele si recassero a Fossombrone per gettarvi le basi del primo convento cappuccino. Tuttavia G. proseguì nella lotta contro i seguaci separatisti della riforma francescana. Compose anche a tale fine il Dialogo della salute tra el frate stimulato et el frate rationabile, circa laregula de li frati minori, che apparve il 5 giugno 1527 ad Ancona per i tipi di B. Vercellense, alla vigilia del capitolo provinciale di Massaccio.
In quest'opera, redatta con l'obiettivo di portare avanti un rinnovamento della vita dell'Osservanza, per frenare in tal modo il passaggio degli osservanti ai cappuccini, G. motiva le ragioni del suo atteggiamento nei confronti dei riformatori separatisti, da lui considerati vagabondi e ambiziosi che confonderebbero la povertà onesta, ma decente, con la furfanteria. Trattandosi al contempo di un'esposizione della regola serafica - la divisione in dodici capitoli corrisponde ai dodici capitoli della regola -, spesso le sue argomentazioni riprendono affermazioni analoghe al Defensorium Observantiae contra deviantes (Salmanticae 1511). A suo parere, i dubbi di coscienza dovrebbero rimettersi al giudizio dei superiori, in quanto i prelati hanno l'autorità apostolica di chiarire i dubbi. Egli si esprime inoltre a sfavore delle case di ritiro, dal momento che spesso la vita nel convento garantirebbe maggiore adesione alla regola. A differenza dei religiosi zelanti, G. sostiene che i frati non sarebbero obbligati alla perfezione raggiunta da s. Francesco, ma solo a quella prescritta dalla regola, affermando per di più che i riformatori porrebbero la perfezione nell'abito esteriore. Come emerge dal Dialogo, G. non fu fautore di un cosiddetto lassismo, generalmente rimproverato dai riformisti alla bolla d'unione, né fu contrario alla riforma francescana, concepita come rinnovamento spirituale, quanto piuttosto alla tendenza scissionista che si accompagnava a essa.
Il 9 giugno 1527, durante il capitolo di Massaccio, G. depose la carica di ministro provinciale, per dedicarsi in seguito interamente alla predicazione. Nelle sue prediche, che attiravano folle entusiaste, non esitò a prendere di mira l'Ordine dei cappuccini, che nel frattempo era stato ufficialmente approvato da Clemente VII con la bolla Religionis zelus del 3 luglio 1528. Poco dopo il 1527 G. predicò a Brescia, nel 1530 a Modena, nel 1531 si trovava a Venezia, dove predicò l'avvento e anche la quaresima dell'anno successivo nel convento di S. Francesco della Vigna. La sua abilità di oratore fu tanto apprezzata che il ministro generale dell'Ordine, il 1° ag. 1532, gli concesse la facoltà di predicare liberamente in tutte le province d'Italia.
Durante il soggiorno veneziano, G. divenne amico di F. Zorzi e di G. Malipiero, due confratelli osservanti, ai quali affidò la revisione dei propri scritti prima della stampa. Non sono pervenuti esemplari a stampa del suo quaresimale, il cui manoscritto G. avrebbe consegnato al tipografo, né sembra siano stati stampati i suoi sermoni e prediche, per la cui pubblicazione G. aveva chiesto l'approvazione di G.P. Carafa. Nel settembre 1532 apparve a Bologna, presso G.B. Faelli, l'Opera utilissima vulgare contro le pernitiosissime heresie lutherane per li simplici, che all'interno reca il titolo leggermente modificato Opera… chiamata incendio de zizanie lutherane, con il quale viene in genere ricordata. Dubbia appare l'esistenza di altre edizioni dell'opera menzionate in diversi repertori (Roma 1535; Anversa 1538, 1589).
L'Incendio de zizanie lutherane, dedicato a P. Pisotti, ministro generale degli osservanti, è uno dei primi testi antiluterani in volgare e fu composto con il preciso intento di rivolgersi a un pubblico non letterato, dando più chiara notizia dell'insegnamento cattolico, per confutare quindi le tesi di Lutero. Nella trattazione, G. ricorre esplicitamente a tre precedenti scritti antiluterani, che avevano avuto grande ripercussione nella controversistica antiprotestante della prima ora: l'Enchiridion locorum communium adversus Lutheranos di J. Eck (1525), ristampato più volte anche in Italia, l'Excusatio disputationis contra Martinum ad universas ecclesias di A. Catarino Politi (1521) e l'Assertionis Lutheranae confutatio di J. Fisher. È possibile che G. conoscesse anche le opere antiluterane Clypeus status papalis (1523) e In Lutheranas haereses clypeus catholicae Ecclesiae (1524) del suo confratello marchigiano Tommaso Illirico. L'Incendio de zizanie lutherane, diviso in dodici capitoli, segue lo schema controversistico tradizionale di tesi (esposizione della dottrina cattolica: il "bono seme"), antitesi (esposizione della dottrina ereticale: la "zizania de falsità") e infine confutazione dei capisaldi luterani (il "fuoco de verità"). Gli argomenti trattati comprendono l'autorità scritturale, l'autorità della Chiesa, il primato papale, la fede e le opere pie, la confessione auricolare, l'eucaristia, le indulgenze, il purgatorio, la venerazione delle immagini sacre, i voti monastici, il celibato, il digiuno e l'astinenza. Il discorso argomentativo dell'Incendio è intercalato da infervorate invettive contro Lutero, apostrofato come Anticristo posseduto dal demonio, "bestia infernale" e "rabido cane" (c. 20) e contro i suoi seguaci, "lupi in veste di pecore", che dovrebbero essere lapidati o bruciati (cc. 17r-18v). Malgrado il tono molto acceso, G. riporta fedelmente pagine intere tratte dalle opere di Lutero, che egli riprende indirettamente attraverso gli scritti antiluterani sopra menzionati. Egli può così citare parti del De captivitate Babylonica e dell'Assertio omnium articulorum M. Lutheri (cfr. Cavazza, pp. 72 s.). L'Incendio rappresenta il singolare tentativo di combinare controversistica dottrinale e pamphlettistica. G. si chiede se il metodo da lui adottato non contribuisca a diffondere l'eresia piuttosto che a combatterla - anticipando con ciò successive preoccupazioni della Chiesa cattolica in casi analoghi -, ma ribadisce infine l'idoneità del proprio procedimento.
Intanto, il movimento riformista all'interno dell'Osservanza, verso il quale G. si era mostrato per certi versi favorevole, andava sempre più affermandosi sotto la guida di F. Ripanti da Jesi e di Bernardino da Asti. Il 16 nov. 1532 Clemente VII approvò lo statuto delle case di ritiro in seno all'Osservanza con la bolla In suprema militantis Ecclesiae. Nella primavera del 1533, la riforma fu introdotta anche nei conventi di Jesi, Forano e Massaccio, dei quali G. venne nominato custode. Alla fine di luglio di quell'anno, mentre a Roma si riuniva la congregazione definitoriale in merito alla riforma, G. inviò due lettere - una delle quali a titolo di altri 32 frati - a O. Caiani, procuratore dell'Ordine, nelle quali faceva presente che egli, insieme con gli altri riformati, voleva vivere con maggior rigore secondo la nuova bolla. Alla riforma si aggiunse inoltre il convento di S. Giacomo di Cingoli, di cui G. fu anche custode. In questo periodo egli subì una evoluzione interiore (probabilmente accelerata dall'opposizione pratica dei superiori nei conventi di cui era custode) che lo fece avvicinare ai cappuccini. Prima del mese di aprile 1534, G. abbandonò, insieme con Eusebio d'Ancona e altri frati convertiti, il convento di Cingoli, per recarsi a Roma da Ludovico da Fossombrone, ormai commissario generale dei cappuccini, e chiese di essere ammesso nella nuova famiglia francescana, cosa che gli venne concessa di buon grado. Seguirono il suo esempio, poco dopo, anche Francesco da Jesi, Bernardino da Asti e Bernardino Ochino da Siena. G. passò i mesi seguenti a Scandriglia (nel territorio di Roma) da eremita.
Compose in questo periodo la sua opera maggiore, l'Operetta devotissima chiamata Arte de la unione con Dio (Brescia, D. e I. Filippo, 1536; ibid., D. Turlini, 1548; ibid. 1665).
L'Arte è un testo di ispirazione ascetica e spirituale, in cui G. si dimostra il primo e più importante teorico della riforma cappuccina. In appendice figura un breve trattato di esercizi spirituali su Li sette pater nostri de santo Joseph, attribuito con sicurezza allo stesso G., così come a lui è da far risalire la devozione ai sette dolori di s. Giuseppe sorta proprio in seguito al suo trattatello. L'Arte de la unione fu riedita da Dionisio da Montefalco (Roma 1622), il quale la adattò stilisticamente all'uso secentesco, aggiungendo una biografia dell'autore. Di questa edizione apparve anche una traduzione francese (Lyon 1624). L'Arte può considerarsi il riflesso letterario delle idee spirituali di tenore spiccatamente cristocentrico che animavano la vita dell'Osservanza francescana, specie quella cappuccina. Essa insegna, in linea con quanto poi confermato nella seconda versione del Dialogo - che insiste su una concezione della regola francescana quale regola d'amore (Dialogo, II, in L'Italia francescana, X [1935], p. 493) -, il metodo affettivo che, per la triplice via di purificazione, di illuminazione e di unione, permette di giungere ad amare Dio in Cristo. La via ascetica esposta da G. è da ricondursi alla De triplici via di Bonaventura da Bagnoregio, la cui concezione degli esercizi spirituali, in particolare la preghiera, avevano avuto grande ripercussione, attraverso le Meditationes vitae Christi e le opere di J. Gerson, su tutta la vita spirituale del XV secolo e in special modo nell'Osservanza francescana e nella Devotio moderna, che coltivava la meditazione quotidiana. Nella prima parte dell'Arte, che tratta della via purificatrice, G. si ispira per la pratica di preghiera all'Exercitatorium spirituale di García de Cisneros. La terza parte si caratterizza per il suo deciso afflato mistico. In essa, G. riprende concezioni dello Speculum perfectionis di H. Herp, in cui confluivano le dottrine di J. Ruysbroek e J. Tauler (dello Speculum apparvero in Italia varie edizioni nei primi decenni del Cinquecento). La preghiera affettiva consiste in "aspirazioni", la cui pratica si estende alla meditazione dei misteri della vita di Cristo, alla preghiera liturgica e privata e alla vita del lavoro, il quale tuttavia non deve essere assiduo al punto da estinguere l'orazione (cfr. anche Dialogo, I, in L'Italia francescana, IX [1934], p. 479): l'anima è così in grado di attingere a un amore puro. In questo metodo mistico-spirituale può essere individuato il contributo più originale dei cappuccini alla riforma spirituale.
G. dedicò gli ultimi anni della sua vita alla missione cappuccina. Nell'aprile 1535 fu inviato da Ludovico da Fossombrone nell'Italia settentrionale, in qualità di commissario generale, per far proseliti e fondare nuovi conventi; lì poté valersi dell'aiuto di E. Gonzaga Della Rovere. Al suo impegno si devono le fondazioni dei conventi di Verona, Brescia, Milano, Monza, Mantova e Marmirolo. Nel novembre 1535 e nell'aprile 1536 intervenne ai capitoli generali tenuti a S. Eufemia a Roma, nei quali fu eletto e confermato definitore generale dei cappuccini. Insieme con altri padri venne anche incaricato di scrivere la costituzione dell'Ordine.
Risale agli anni 1535-36 la stesura della seconda versione del Dialogo della salute dedicata a Bernardino da Asti, un rifacimento della prima versione dell'opera in linea con l'orientamento cappuccino abbracciato di recente.
Il Dialogo sembra rispecchiare le costituzioni del 1536, alla cui redazione G. aveva collaborato. Quali punti d'incontro rilevati nel Dialogo vanno ricordati l'osservanza del testamento di s. Francesco, le dichiarazioni pontificie sulla regola e la sottomissione al pontefice e ai vescovi (cfr. Urbanelli, II, p. 16). Questa seconda versione del Dialogo rimase inedita, ma circolò in vari codici manoscritti. La redazione originale del rifacimento del Dialogo conteneva inoltre un Brevis discursus super observantia paupertatis fratrum minorum, che apparve per la prima volta a Brescia il 15 apr. 1536, stampato insieme con la Regula et testamentum seraphici p. Francisci. Il Brevis discursus ebbe varie riedizioni (Antverpiae 1624, 1661; Duaci 1692), spesso ristampato anche con il titolo De paupertate et regula s. Francisci (Romae 1555, 1589; Antverpiae 1589). Fu tradotto in altre lingue e incorporato in diverse esposizioni della regola (per le varie edizioni cfr. Optat de Veghel, 1974).
Il 22 sett. 1536 G. fu eletto vicario provinciale del Veneto, carica che rivestì fino al febbraio successivo; dall'aprile 1537 fu vicario provinciale delle Marche, carica in cui fu riconfermato nel 1538. Nei due anni del suo provincialato furono fondati i conventi di Cingoli, Fabriano e Sant'Angelo in Vado. Nel capitolo generale del 1538 tenuto a Firenze, in cui B. Ochino venne eletto vicario generale, G. fu nominato definitore. Negli anni, la sua vigilanza rispetto alle dottrine ereticali non era diminuita. Di ritorno dal Veneto nel 1537, G. si era recato a Siena, dove predicò la quaresima. In questa occasione ebbe modo di ascoltare le prediche dell'agostiniano Agostino Museo da Treviso, incentrate sui temi della salvezza, della grazia e della giustificazione; nelle sue prediche, questi utilizzava la dottrina agostiniana della salvezza per difendere un concetto di predestinazione divina degli eletti ante previsa merita. G. lo accusò di eresia, e Agostino da Treviso, in base a una denuncia ufficiale, fu arrestato per ordine pontificio il 18 aprile; fu infine assolto il 26 febbr. 1538.
Nel 1539, mentre predicava la quaresima a Casteldurante Urbania, G. fu colto da un malore e morì poco dopo. Fu sepolto nella chiesa di S. Francesco dei conventuali in quella città. Non si hanno notizie sicure circa la sua tomba, anche perché le tavole votive, testimonianza dell'amore che gli portavano i suoi conterranei, furono tolte in seguito a un decreto di Urbano VIII sul culto dei santi.
Opere: Il Dialogo de la salute è stato edito da Bernardino da Lapedona in L'Italia francescana, VII (1932); VIII (1933): 1a redazione; X (1935); XIII (1938): 2a redazione; quindi in volume, Isola del Liri 1939; e da C. Cargnoni, I frati cappuccini. Documenti e testimonianze del primo secolo, Perugia 1988, I, pp. 41-69 (1a redazione); pp. 583-719 (2a redazione). Edizioni critiche del Brevis discursus super observantia paupertatis fratrum minorum sono date da Mattia da Salò, Historia Capuccina. Pars prima, a cura di Melchiorre da Pobladura, in Monumenta historica Ordinis minorum capuccinorum, V, Roma 1946, pp. 443-463, e da C. Cargnoni, I frati cappuccini…, cit., I, pp. 721-744. In quest'ultima opera (III, pp. 297-429) è anche l'edizione dell'Operetta devotissima chiamata Arte de la unione con Dio.
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