GIOVANNI d'Amalfi
Monaco e presbitero nato probabilmente ad Amalfi e di cui sappiamo che a Costantinopoli, dove viveva nel secolo XI, eseguì la traduzione latina di alcune opere agiografiche greche, su invito e a vantaggio della comunità mercantile amalfitana che disponeva di una base nella città. Ai prologhi di queste opere è affidata la testimonianza più significativa, se non unica, della vita culturale degli occidentali a Bisanzio nell'XI secolo.
Tre delle opere che sono attribuite a G. portano esplicitamente il suo nome, accompagnato dagli attributi di monachus e presbyter. La prima è l'Obitus Nicolai, in cui vengono narrati la morte di s. Nicola e tre suoi miracoli post mortem; G. dichiara nel prologo di avere voluto completare l'agiografia del santo, tradotta dal napoletano Giovanni Diacono un secolo e mezzo prima (S. Nicolai episcopi Myrensis vita), nella quale non si trovava notizia delle sue ultime vicende, e di avere utilizzato a tal fine fonti di ottima qualità. La seconda opera è la Passio Herinis, a tutt'oggi inedita a eccezione del prologo, conservata soltanto nel codice della Biblioteca nazionale di Napoli, Già Viennese 15, che comprende anche l'Obitus Nicolai (noto anche da un altro testimone, conservato a Roma, presso la Biblioteca Vallicelliana, ms. Tomo I). Nel prologo della Passio, ampio e articolato, G. dichiara di essersi un giorno recato a visitare il nobile amalfitano Lupino, figlio di Sergio "Comitis Mauronis", che giaceva ammalato nella sua casa di Costantinopoli; nel corso della visita, il discorso cadde sulla figura di s. Irene, dedicataria della chiesa greca nel cui territorio si trovava il quartiere amalfitano, e si scoprì che nessuno ne conosceva la storia. G. meditò allora di tradurre la Passio della santa, che egli poteva leggere in manoscritti conservati presso il monastero greco della Ss. Vergine (Panagia), dove risiedeva; ma, impedito dall'età avanzata e rendendosi conto che la lunghezza della narrazione, infarcita di excursus teologici, era poco adatta a un pubblico di laici, si limitò a farne un ampio riassunto in latino. La terza opera dove compare il nome di G. è il Liber de miraculis, un testo che ebbe una discreta circolazione in Austria e in Baviera nei secoli XII e XIII e di cui esistono redazioni parziali in alcuni codici dell'Italia meridionale (i napoletani VIII.B.10 e VII.B.27, oltre al Già Vienn. 15 in precedenza citato). È questa la più impegnativa per estensione e qualità letteraria fra le opere di G.; essa consiste in una raccolta di prodigi operati da reliquie ed è tratta da varie fonti agiografiche e novellistiche greche, in particolare dal Pratum spirituale di Giovanni Mosco. Nel prologo G. dedica l'opera a Pantaleone "bis consul" (traduzione del greco disypatos), da identificarsi con un altro nobile amalfitano della famiglia "Comitis Mauronis", che l'aveva invitato a tradurre qualche racconto greco, e invoca a scusante della scarsa qualità del suo prodotto, oltre all'età avanzata, l'impossibilità di trovare aiutanti di lingua latina nel luogo in cui vive, probabilmente sempre il monastero costantinopolitano della Panagia.
Oltre a queste tre opere che contengono esplicitamente il nome del traduttore, vengono attribuite a G. anche le versioni latine della Vita di Giovanni Calibita, della Vita di Giovanni Elemosiniere e del Miraculum dell'uccisione del drago da parte di s. Giorgio, tutte conservate soltanto dal già citato codice napoletano Già Vienn. 15, dove fanno corpo con l'Obitus Nicolai e la Passio Herinis. L'attribuzione, ipotizzata, fra gli altri, da Hofmeister (1932) per l'identità di trasmissione, trova conforto in numerose affinità linguistiche e stilistiche. Negli ultimi anni sono state ascritte a G. (da Chiesa e Dolbeau), sulle stesse basi, le versioni latine delle Vitae di Epifanio di Salamina e di Anfilochio di Iconio, che circolavano nel Medioevo in Austria e in Baviera in collegamento con il Liber de miraculis. Infine Berschin ha proposto di assegnare a G., o quanto meno all'ambiente amalfitano, anche la descrizione di Costantinopoli in lingua latina conosciuta come Anonymus Mercati, traduzione o rielaborazione di un originale greco non più rintracciabile; anche in questo caso esistono varie affinità stilistiche e di contenuto con le opere di attribuzione sicura, sicché l'ipotesi di un'origine amalfitana appare più convincente di quella avanzata da Ciggaar, secondo il quale l'opuscolo sarebbe stato scritto da un pellegrino inglese. Nulla indica invece che G. sia da porsi in relazione con la versione latina del romanzo di Barlaam e Josaphat, eseguita a Costantinopoli nel 1047, che appare improntata a criteri compositivi piuttosto dissimili.
Gli elementi per datare la vita di G. sono quelli che si ricavano dalle sue opere. Il nobile Lupino citato nel prologo della Passio Herinis compare in diversi documenti amalfitani fra il 1044 e il 1069, ed era certamente morto nel 1087, quando è citata la sua vedova; quanto al Pantaleone dedicatario del Liber de miraculis e designato come "bis consul", appare essere un personaggio in vista ad Amalfi a partire almeno dal 1060 circa. Non molto dopo questa data potrebbe dunque collocarsi l'attività letteraria di G., che dichiara di essere in quell'epoca ormai in età avanzata. Anche per l'Anonymus Mercati (testo però di attribuzione non sicura) la datazione che si ricava dagli elementi artistici e liturgici in essa contenuti si attesta intorno al 1070.
Nonostante gli stretti legami di G. con la colonia mercantile amalfitana di Costantinopoli, non può dirsi definitivamente accertato che egli fosse amalfitano d'origine, come invece viene dato per scontato da buona parte della letteratura critica. L'ostacolo maggiore consiste nel fatto che, pur esistendo a Costantinopoli nell'XI secolo almeno un monastero amalfitano, egli risiedesse presso un monastero greco situato in tutt'altra parte della città. Pertusi ha messo G. in relazione con il chiostro amalfitano del monte Athos, ben attestato per tutto l'XI secolo, e ha proposto un'identificazione con il Giovanni che quivi risulta abate nel 1035; la sua venuta a Costantinopoli sarebbe da porre in relazione con le laceranti controversie teologiche e giurisdizionali che precedettero e seguirono lo scisma di Michele Cerulaio (1054), o con la necessità del monastero di garantirsi una base nella capitale, anche in funzione di ottenere più consistenti privilegi. L'identificazione con il Giovanni abate atonita, basata principalmente sull'omonimia, è molto debole, e appare improbabile sia per l'eccessivo lasso di tempo intercorso fra il presunto abbaziato e l'epoca supposta delle traduzioni, sia perché si dovrebbe concludere che G. avesse nel frattempo perduto il titolo di abate, che non cita. Non si può dubitare comunque che la patria di G. sia da porsi nell'Italia meridionale, soprattutto per la conoscenza che egli mostra delle versioni agiografiche eseguite a Napoli nei secoli IX e X, in particolare della Vita Nicolai.
Le traduzioni di G. sono condotte secondo criteri fortemente innovativi rispetto a quelli normalmente usati dai suoi predecessori altomedievali. Singolare è anzitutto la scelta dei testi da tradurre, che sembra rispondere a interessi genuinamente narrativi: gli argomenti preferiti sono i racconti romanzeschi e meravigliosi, pur sempre nell'ambito della letteratura agiografica, mentre scarso spazio trovano temi di stretta attinenza religiosa. In secondo luogo, G. abbandona la strada della versione verbum de verbo, perseguita quasi senza eccezione dai traduttori tardoantichi e altomedievali, e si permette ampie libertà rispetto ai suoi modelli, sviluppando la linea avviata dai traduttori napoletani del sec. IX-X che poneva al centro dell'attenzione il racconto e non il dettato testuale. Rispetto a quelle dei suoi predecessori napoletani, tuttavia, le traduzioni di G. sono di livello letterario assai più modesto; sicché, più che di una cosciente evoluzione teorica, si deve parlare di uno sviluppo indotto dalle esigenze di un nuovo pubblico, una comunità di mercanti laici, interessati agli aspetti narrativi dei testi più che a quelli devozionali. In questo senso, l'opera di G. è per noi una fonte di grande interesse che apre uno spiraglio sull'universo culturale dei mercanti amalfitani in terra d'Oriente. Alcune delle storie tradotte da G. (in particolare quella di Cristo mallevadore, la più lunga fra quelle comprese nel Liber de miraculis, di cui conosciamo ben tre redazioni in vario modo ascrivibili all'ambiente amalfitano) hanno per protagonisti marinai e commercianti, e sviluppano temi caratteristici della devozione e dell'ideologia mercantile del pieno Medioevo.
La fortuna delle opere di G., probabilmente concepite fin dall'inizio per un uso interno, senza intendimenti di esportazione, fu molto limitata, e sembra dipendere dalla circolazione di due manoscritti individuali. Un codice contenente varie delle sue versioni (le Vitae di Giovanni Calibita e Giovanni Elemosiniere, il Miraculum di Giorgio, l'Obitus di Nicola e la Passio di Irene, nonché il miracolo di Cristo mallevadore) fu portato ad Amalfi, e qui venne unito a materiale agiografico locale; una tale configurazione è quella che ritroviamo attualmente nel manoscritto di Napoli, Già Vienn. 15. Un altro esemplare, contenente il Liber de miraculis e le Vitae di Anfilochio ed Epifanio, passò invece in Austria, probabilmente nel sec. XII, e fu l'archetipo della tradizione manoscritta di queste opere. Meno chiara è la vicenda di una terza raccolta, da cui deriva l'attuale codice della Biblioteca nazionale di Napoli, VIII.B.10, dove a fianco di una parte del Liber de miraculis, tramandato in linea indipendente dai testimoni austriaci, compare la versione costantinopolitana del romanzo di Barlaam e Josaphat; anche in questo caso è probabile che l'unione sia stata effettuata ancora a Costantinopoli.
I testi di G. sono stati editi in: Iohannes monachus, Liber de miraculis, a cura di M. Huber, Heidelberg 1913; K.N. Ciggaar, Une description de Constantinople traduite par un pèlerin anglais, in Revue d'études byzantines, XXXIV (1976), pp. 211-267; P. Chiesa, Una traduzione inedita di Anastasio Bibliotecario? Le "Vitae" latine di sant'Anfilochio, in Studi medievali, XXVIII (1987), pp. 879-903; P. Chiesa - F. Dolbeau, Una traduzione amalfitana dell'XI secolo: la "Vita" latina di sant'Epifanio, ibid., XXX (1989), pp. 909-951; P. Chiesa, Vita e morte di Giovanni Calibita e Giovanni l'Elemosiniere. Due testi "amalfitani" inediti, Cava dei Tirreni 1995.
Fonti e Bibl.: M. Hoferer, Iohannis monachi Liber de miraculis. Programm der königlichen Studienanstalt Aschaffenburg, Würzburg 1884; M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, II, München 1923, pp. 422-424; A. Hofmeister, Zur griechisch-lateinischen Übersetzungsliteratur des früheren Mittelalters, in Münchener Museum für Philologie des Mittelalters und der Renaissance, IV (1924), pp. 129-153; C.H. Haskins, Studies in the history of Mediaeval science, Cambridge, MA, 1927, p. 142 n. 5; A. Hofmeister, Der Übersetzer Johannes und das Geschlecht Comitis Mauronis in Amalfi, in Historisches Vierteljahrschrift, XXVII (1932), pp. 225-284, 493-508, 831-833; A. Siegmund, Die Überlieferung der griechischen christlichen Literatur in der lateinischen Kirche bis zum zwölften Jahrhundert, München-Pasing 1949, pp. 193 s.; A. Pertusi, Monasteri e monaci italiani all'Athos nell'alto Medioevo, in Le millénaire du Mont Athos 963-1963, I, Chevetogne 1963, pp. 236-238; U. Schwarz, Amalfi im frühen Mittelalter (9.-11. Jahrhundert), Tübingen 1978, pp. 69 s.; P. Chiesa, Dal culto alla novella. L'evoluzione delle traduzioni agiografiche nel Medioevo latino, in La traduzione dei testi religiosi, a cura di C. Moreschini - G. Menestrina, Brescia 1994, pp. 149-169; W. Berschin, I traduttori di Amalfi nell'XI secolo, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di Luigi Prosdocimi, a cura di C. Alzati, I, Roma-Freiburg-Wien 1994, pp. 237-243; W. Neuhauser, "Iste liber est cenobii in Stams datus a matre nostra Cesarea". Ein Beitrag zur Überlieferung eines seltenen mittelalterlichen textes (Iohannes Monacus, liber de miraculis), in Codices manuscripti. Zeitschrift für Handschriftenkunde, XVIII-IXX (1997), pp. 37-48; Rep. font. hist. Medii Aevi, VI, p. 274.