COTTA, Giovanni
Nacque a Vangadizza, sobborgo rurale di Legnago (Verona), nel 1480 0 1482.
Verso la prima ipotesi fa propendere la testimonianza di Bernardo Silvano, amico e collaboratore del C., che nei Prolegomena in Ptolemaei Geographiam (Venetiis 1511) afferma che il C. morì trentenne nel 1510 (anche il ritratto del C. del Museo Fioroni in Legnago reca le indicazioni cronologiche 1480-1510). Nei suoi Elogia (p. 83) il Giovio attribuisce la morte del C. al ventottesimo anno d'età, non sappiamo con quale fondamento.
Anche la determinazione del luogo natale incontra qualche difficoltà. Il cognome Cotta è attestato per il sec. XVI negli archivi parrocchiali di Vangadizza, ma niente impedisce di credere, come sostiene il Flamini (p. 540), che il C. sia nato in un'altra frazione di Legnago, Santa Maria del Porto, più vicina all'abitato che non Vangadizza.
Della famiglia del C. sappiamo solo che era "humili genere" (ma certo benestante) e che attendeva direttamente alla coltivazione dei propri poderi (Giovio). Non convincono alcuni recenti tentativi di metterla in rapporto con l'omonima gens patrizia milanese, un ramo della quale avrebbe avuto in epoca imprecisata (dopo il 1387) dai Visconti l'incarico di amministrare Legnago.
L'eccezionale precocità del C. consigliò i genitori di avviare il figlio agli studi umanistici. Il C. frequentò a Legnago la scuola di Enrico Merlo, dove apprese i rudimenti delle lingue antiche e l'amore per la poesia, fino alla morte di costui (1491); in seguito, con altri precettori che non conosciamo, ma più probabilmente in forma privata, perfezionò a Legnago ancora e a Verona la sua conoscenza del greco e del latino, fino a poetare in questa lingua e a segnalarsi con opere di erudizione, quali le Adnotationes in Propertium.
Queste furono stampate nel 1500 a Venezia, ma contengono solo i commenti di D. Calderini, mentre di quelli del C., promessi nel l'introduzione, non esiste traccia. Si suppone che la stampa sia stata affrettata, e che le osservazioni manoscritte del C., non pubblicate, siano in seguito andate perdute. Esse stanno a dimostrare, se non altro, la precocità dell'autore appena ventenne, e la considerazione in cui era tenuto, se le sue "annotazioni" erano giudicate degne di figurare accanto a quelle di un noto filologo esperto come il Calderini.
Per le doti d'ingegno e di dottrina il C. fu chiamato giovanissimo nella segreteria del Comune di Verona e nella rettoria. A Verona, anche per la sua indole leale e sensibile, fece amicizia con nobili ed eruditi, fra i quali in particolare il camerlengo della Repubblica di Venezia, lo storico Marin Sanuto. Una prova della dimestichezza intervenuta tra i due è data da una lettera del C. all'amico, del 7 ag. 1501, da Legnago, nella quale si accenna ad un imminente ritorno del C. a Verona e alla promessa del Sanuto di rendergli visita a Legnago; nello stesso tempo, il C. prega il destinatario di far pervenire proprie lettere a Giorgio Corner e Iacopo Antiquari. Di qui si deduce inoltre che la casa del C. in Legnago non fosse poi tanto umile, se in essa poteva essere ospitato uno dei più alti funzionari di Venezia.
Al Sanuto il C. dedicò nel 1501-502 due epigrammi, nel primo dei quali (Mistruzzi, p. 118) accennava all'imponente materiale storico che il Sanuto stava raccogliendo in vista della pubblicazione dei Diari, mentre nel secondo (ibid.) alludeva a un quadro, rappresentante Verona e i suoi dintorni, che il Sanuto aveva fatto eseguire per rendere omaggio alla città amata.
Verso la fine del 1502, in coincidenza con il richiamo del Sanuto a Venezia, il C. abbandonò Legnago e si trasferì a Lodi, presso una zia materna che era andata sposa in quella città, aprendovi una scuola (Giovio). La sua permanenza qui durò poco. Conosciuto il nobile Filippino Bononi, ebbe da costui la rivelazione dell'umanesimo napoletano. In una lettera del 5 genn. 1504 al Sannazaro, il C. confessa che fu il Bononi che "cultissimos Arcadiae tuae saltus patefecit" (Mistruzzi, p. 13) attirato anche dalla fama del Pontano, e fornito presumibilmente di raccomandazioni e credenziali da parte del Bononi, il C. si risolse quindi a partire per Napoli "pontaniani... oraculi consulendi gratia" (ibid.). Questo accadde certo prima della morte del Pontano (settembre 1503), dato che alcune espressioni della stessa lettera ("me amavit [Pontanus] in primis") fanno pensare a una conoscenza diretta. Una lettera di Antonio Galateo a Crisostomo Colonna, posteriore al 1501, presenta il C. come uno degli "auditores" dell'Accademia Pontaniana, in compagnia di Ermolao Barbaro, del Gravina, dei Summonte, del Sannazaro, dei fratelli Attaldi ed altri. Nell'elegia che Giovanni Anisi scrisse per la morte dei Pontano (Bucolica variorum carmina, Basileae 1546, p. 409), il C. è definito ("qui his appulit oris... viseret ut viridis Melisaeum [scil. Pontanum] in fiore senectae", ricambiato dallo stesso "Meliseo" con stima proporzionata al suo valore, che si intravede anche attraverso l'amplificazione retorica. Senza poterlo conoscere direttamente, il C. dedicò al Sannazaro, in epoca imprecisabile del suo soggiorno napoletano (forse il 1504, come sostiene il Pighi, p. 28), un'elegia "De Minois regis impietate" (Mistruzzi, p. 125), in cui lo salutò "saecli optime vatum", dimostrando ad un tempo un'elevata coscienza della poesia e dei suoi ministri ("est vati immortale, et non violabile pectus"), motivo sincero, pur se di derivazione properziana. Dopo la morte del Pontano il C. rimase a Napoli, come segretario, forse, e amministratore di Antonio Guevara, feudatario del Regno. Di sicuro nel 1505 egli era intento a raccogliere, per incarico di Pietro Bembo, le poesie di Pietro Del Riccio, umanista discepolo del Poliziano, che furono pubblicate poco tempo dopo a Firenze (Bandini, p. 258).
Che in quegli anni il C. attendesse, oltre che alla poesia, anche a lavori che poi andarono perduti, si ricava da vari accenni dei contemporanei, in particolare dalla scherzosa tenzone in faleci con Cosimo Anisi. La stagione partenopea fu comunque la più feconda per il giovane poeta, venuto in fama come imitatore di Catullo e del Pontano. Nel suo scarno canzoniere, troviamo quattro poesie (due in metro falecio, due in distici elegiaci) dedicate a una ragazza di nome "Lycoris", pseudonimo di una non meglio nota Lucia. Nonostante il soprannome virgiliano, il tono dei quattro componimenti è inconfondibilmente catulliano: l'amore è una passione che brucia il poeta con altrettanti fuochi quanti sono i tratti fiammeggianti della bellezza di Licori, egli ha sempre la donna davanti agli occhi, come riflessa in uno specchio; la contemplazione delle grazie di Licori intraviste attraverso la veste che maliziosamente si apre, che cela e non cela, strappa al C. accenti sensuali e invocazioni di morte; nell'impossibilità di soddisfare il desiderio che si è acceso, gli occhi del C., come quelli di Lesbia, sono "turgidi" di lacrime per l'improvvisa partenza della donna, che viene invitata a piangere per il dolore che la sua lontananza ha procurato al poeta. Il carme in scazonti "Ad Calorem fluvium", occasionato da una burla del C. nei confronti di Cosimo Anisi, è stato scritto probabilmente nel 1506 ad Apice, nella tenuta dei Guevara. Il C. accenna qui a una certa "Rubella" (Rossella), che va errando lungo le sorgenti del Calore, per la quale è pronto "libenter ferre quicquid est duri" (Mistruzzi, p. 124).Oltre a curare gli interessi dei Guevara, il C. amministrava forse anche i beni che altre due famiglie, i Cavaniglia di Montella e i Sanseverino principi di Salerno, avevano nella valle del fiume. Durante gli ozi campani, il C. collaborò con Marco Beneventano all'edizione della Geographia di Tolomeo (Roma 1507). Nella prefazione all'edizione veneta del 1511, Bernardo Silvano precisò che l'esperienza del C. nelle lingue antiche e la sua perizia nella matematica avevano permesso di emendare "mathematicae illae demonstrationes, quae in primo et in septimo libro sunt". Le Adnotationes in Plinium, presumibilmente della stessa epoca, e le Orationes, ricordate dal Giovio, non ci sono pervenute.
Nel 1506, tramite Cosimo Anisi, il C. fu presentato a Bernardino d'Alviano, fratello del generale Bartolomeo. che l'anno successivo lo prese al suo servizio in qualità di segretario e agente diplomatico. Il C. abbandonò quindi Napoli e la Campania e seguì l'Alviano, che aveva assunto il comando supremo degli eserciti di Venezia, nelle sue campagne militari contro i Tedeschi e i Francesi. Quando nel febbraio 1501 l'Alviano sconfisse le truppe imperiali nel Cadore, il C. celebrò la sua vittoria con un'ode alcaica, in cui alla maniera di Orazio salutava il condottiero che "aveva rintuzzato le minacce della superba Germania" (Mistruzzi, p. 126).
Il genere encomiastico non impedisce di scorgere in questo epinicio un'intonazione sinceramente patriottica, confortata dalla reminiscenza petrarchesca ("bacchati in arva Theutones horridi sensere in... novum Marium incidisse"), fidente in un destino di pace e di indipendenza nazionale ("hostium unanimes feram fregistis audaciam... vos timebit barbarus, ac suis pedem cavebit tollere finibus").
L'Alviano utilizzò il C. in varie missioni diplomatiche nel corso del 1508, la più importante delle quali fu quella che si concluse il 27 giugno a Venezia con la firma del contratto che rinnovava laferma del condottiero al soldo della Repubblica. Tra il luglio 1508 e il marzo 1509 il C. soggiornò presso l'Alviano a Pordenone, dove il generale aveva riunito letterati ed artisti come il Fracastoro, il Navagero, G. Borgia, piccolo nucleo di una mai realizzata accademia, con cui si intratteneva nei momenti di ozio.
A questo periodo si attribuisce una serie di poesie (ballate, canzoni, sonetti) che in maniera scialba e scarsamente originale cantano l'amore del C. per una donna di nome Giulia, mentre l'epigramma funebre latino per Caparione, il cane dell'Alviano, rivela lo stato d'animo del poeta e del suo protettore di fronte ai preparativi militari dei Francesi.
Nel gennaio 1509, nell'imminenza della guerra contro gli eserciti della lega di Cambrai, l'Alviano inviò il C. a Roma nell'intento di guadagnare a Venezia alcuni noti condottieri, fra cui Prospero Colonna. Il 25 febbraio egli era nuovamente a Pordenone, ma nel marzo accompagnò l'Alviano alla guerra che si concluse il 14 maggio con la sconfitta veneziana di Ghiara d'Adda. Nella battaglia il C. salvò a stento la vita, ma perdette quasi interamente i propri manoscritti, fra cui una Chorographia ricordata dal Giovio. Subito dopo, il 21 maggio, prese a trattare con i Francesi per il riscatto dell'Alviano che era caduto prigioniero, prima privatamente, poi a nome del Senato di Venezia. Ma i complicati ed estenuanti patteggiamenti non andarono a buon fine per l'irremovibilità del re di Francia. Tuttavia il C. ottenne nel giugno di raggiungere l'Alviano che si trovava con i suoi carcerieri a Milano e di accompagnarlo nella sua prigionia. Da costui fu però inviato a Venezia per dare al Senato una giustificazione del proprio operato e scagionarlo da responsabilità eventuali nella sconfitta. Tornato a Milano dopo aver visitato Pantasilea Baglioni, moglie del condottiero, non gli fu più permesso di avvicinare l'Alviano. Il C. volle allora compiere un estremo tentativo in favore dell'amico. Per incarico suo, o di propria iniziativa, egli partì per Roma nell'agosto 1510, con l'intenzione di perorare la causa del generale presso il pontefice Giulio II. Raggiunto il papa a Viterbo, si ammalò di febbre perniciosa (forse di malaria) e morì all'improvviso, appena trentenne, in questa città, alla fine di agosto o ai primi di settembre 1510.
Fra i tanti componimenti che ispirò la sua morte, si possono ricordare la lunga elegia del Fracastoro e l'epigramma del Sannazaro, che, dall'esilio di Blois, dedicò un compianto "in tumulum Cottae Veronensis", il Catullo del secolo.
La costante fortuna che accompagnò l'esiguo canzoniere del C. è testimoniata dalle più che quaranta edizioni che si susseguirono dal 1528 fino ai giorni nostri (1954). Anche la figura del poeta, nonostante l'interpretazione parzialmente restrittiva dello Scaligero, fu giudicata favorevolmente. Lo ebbero presente il Tasso, che nel delineare la voluttuosa bellezza di Armida (Ger. Lib., IV, 31) si ricordò dell'ecloga in cui il C. descriveva il malizioso balenio dei vezzi di Licori. Un'altra imitazione tassesca fu additata dal Mistruzzi (p. 55). La critica più recente ha cercato di sfrondare la poesia del C. dalle "sottigliezze che vanno fino al prezioso" (Van Tieghem, p. 238). Esaminando in particolare l'ode sopra citata a Licori, il Croce (Poesia popol., p. 455) vi ravvisa il tentativo di rappresentare la voluttà "nel suo spasimo, in uno spasimo che non si risolve e ha dell'angoscioso". Nel carme in faleci (Mistruzzi, p. 119) il Croce (p. 457) riscontra una linea poetica "meno felice" che si perde "nell'arguto e nel concettoso". Press'a poco su questa linea è il Bonora, che distinguendo tra imitazione ed emulazione degli antichi riconosce al C. una "commossa drammaticità" (p. 277). L'Ellinger (p. 200) ritiene il C. superiore al Bembo, lo presenta come il "vero trovatore", accostandolo al Marullo. Analizzando i carmi latini, egli sottolinea la capacità del C. di "sviluppare sempre nuove applicazioni" nell'ordire più ampiamente un pensiero, nell'inquadrare leggiadramente la situazione nel paesaggio, nel dare delicata espressione al sentimento di amicizia. Questo lato di "uomo vero, di carattere integro e forte, fedele e utile agli amici e alla patria", ha recentemente sottolineato anche il Pighi (p. 26).
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