CORRER, Giovanni
Nacque a Venezia il 20 maggio 1533 da Angelo di Giovanni e da Paola di Vettore Vallaresso, che si erano sposati nel 1522.
Il padre percorse una buona carriera nell'amministrazione veneziana: fu, tra l'altro, capitano a Verona e podestà e capitano a Treviso; morì nel 1548. Il C. ebbe sei fratelli: Lorenzo (1530-1583) fu podestà a Vicenza e nel 1573, quando Venezia ricorse ancora una volta alla vendita degli uffici per far fronte alle spese della guerra contro i Turchi, fu creato procuratore di S. Marco mediante un deposito di 20.000 ducati; Girolamo (1536-1567) e Vincenzo (1539-1571) continuarono la stirpe: pronipote del primo sarebbe stato Angelo, che fu celebre politico e diplomatico del sec. XVII; il secondo fu padre di Marcantonio, altro prestigioso esporiente della famiglia, anch'egli politico e diplomatico, a cavallo dei Secoli XVI e XVII. Gli altri tre fratelli furono Giovan Francesco, Antonio, Vittore.
La vita del C. coincide con la storia della sua attività di diplomatico; fu uno dei più prestigiosi esponenti della grande diplomazia veneziana del secolo XVI, protagonista di una politica estera basata sulla neutralità e sul mantenimento di precari equilibri da parte della Repubblica veneta. Acutissimo osservatore, uomo di salda ed un po' chiusa morale cattolica ma nel contempo fedele interprete di una politica realistica ed empirica nella prassi, trascorse quindici anni fuori di Venezia in qualità di ambasciatore nelle principali sedi, vivamente apprezzato in patria e all'estero, trovandosi al centro di alcune delle più importanti vicende della seconda metà del secolo.
Nel 1563 il C. ricevette il primo dei suoi incarichi diplomatici, essendo nominato ambasciatore presso il duca Emanuele Filiberto di Savoia. Il duca sabaudo rivestiva per Venezia una particolare importanza: protagonista dell'ultima fase della guerra franco-asburgica, Emanuele Filiberto attendeva alla ricostruzione del suo Stato, tentando un certo accentramento in politica interna, la via dell'equilibrio tra Francia e Spagna in politica estera; poco prima dell'arrivo del C., aveva ottenuto un parziale sgombero delle fortezze occupate dai Francesi, era entrato a Torino ed aveva iniziato una politica di amicizia con i Cantoni svizzeri, osteggiata dal fronte cattolico. Il duca era un importante esempio, insomma, di principe "mezzano" e "nuovo", alla ricerca dell'autonomia politica attraverso la neutralità; una figura politica che interessava molto i teorici politici veneziani del secondo '500, impegnati appunto con i problemi dello Stato "mezzano" e della neutralità. I rapporti tra il duca e Venezia al momento dell'arrivo del C. erano sostanzialmente buoni, pur nei limiti realisticamente imposti dalla situazione internazionale. Il C. (se la relazione di Savoia è sua - il Cicogna ne contesta l'attribuzione: Relaz. degli ambasciatori..., s. 2, V, pp. 1-46) ne coglie con estrema precisione la natura: la disposizione di Emanuele Filiberto verso Venezia è buona; egli sa che Venezia non prenderà mai le armi per difenderlo, ma che ha interesse a che egli mantenga i suoi Stati; a Venezia deve piacere la politica del duca, tesa al mantenimento dello status quo e a non far aumentare troppo nessuno dei due grandi contendenti, specie in un momento come questo di gravi difficoltà per la Francia. Sono, questi, elementi dell'azione del C. (e di Venezia) che ritroveremo più complessi nella sua ambasceria in Francia. Venezia, inoltre, continua il C., deve contraccambiare l'amore del duca e trarne profitto in termini di legnami e carne, giacché il duca è molto interessato ad uno sviluppo delle relazioni commerciali.
Appena scaduto il suo incarico diplomatico in Savoia, il C., nel 1566, fu nominato ambasciatore in Francia, dove trascorrerà altri tre anni.
Questo era veramente un compito delicato. Siamo nel periodo delle guerre di religione: Caterina de' Medici e Carlo IX sono spinti, da un lato, a difendere l'integrità del loro potere dall'azione degli ugonotti, dall'altro a non gettarsi troppo in mano ai cattolici, dietro ai quali si muove la Spagna; Pio V preme per l'applicazione dei decreti del concilio di Trento e per una vigorosa politica antieretica. In questo contesto si inserisce l'azione di Venezia, un'azione complessa e sfumata, preoccupata per lo sfaldamento della monarchia francese, che deve pur sempre rimanere un fattore decisivo di equilibrio in Italia ed in Europa; preoccupata dall'espandersi della eresia, che corrode le strutture di qualsiasi Stato; ma nel contempo attenta a frenare ogni eccesso, politico edideologico, del cattolicesimo oltranzista, che rischia appunto di squilibrare la situazione europea ed italiana e di incrinare l'apparato ideologico e di valori su cui si reggeva la Repubblica. Il C. sembra un uomo adattissimo alla conduzione di tale politica; oltre ad essere un abile esecutore delle direttive di Venezia, ha una personalità che mostra di adattarsi straordinariamente al ruolo che deve svolgere. La documentazione della sua ambasceria francese è abbondante e la relazione finale è bellissima. L'uomo ci appare acuto e brillante osservatore e commentatore politico; la sua impostazione mentale è del tutto tradizionale, le sue preoccupazioni di cattolico sono autentiche: insomma, non è semplicemente un "politique", non è uomo molto aperto verso il diverso da sé; eppure il suo giudizio è sempre "veneziano", realistico, non legato a schemi di principio. E ciò, questo è interessante, non avviene in una persona, come è il caso di altri veneziani di quel periodo e di pochi anni dopo, intellettualmente aperta e tendente a smascherare l'ipocrisia politica che si cela dietro ad un certo cattolicesimo integralista; bensì in un uomo, come si è detto, totalmente e talvolta acremente tradizionalista ed ideologicamente conservatore. Il C. non ci appare un "papalista": la "venezianità" e l'attaccamento ai vecchi valori etico-politici sono in lui perfettamente coerenti.
Il periodo di permanenza del C. in Francia è denso di avvenimenti: nel 1567 riprende la guerra. Il C. constata che i rapporti tra Venezia e la Francia sono buoni e si preoccupa dell'indebolimento di questa; per cui, pur mantenendo una posizione rigidamente antiugonotta, si adopera a favorire la pace: una decimazione delle rispettive nobiltà, suggerisce al Senato veneto, sarebbe fatale a quel regno. Dall'altro lato il nunzio a Venezia Giovan Antonio Facchinetti incita il Senato a prestare aiuto al re e ad abbandonare la politica prudente e conciliatrice. Il C. invece si mostra soddisfatto della pace del marzo 1568, di cui però avverte la precarietà; alla ripresa delle ostilità, l'anno successivo, Venezia si decide a concedere a Carlo IX il richiesto prestito di 100.000 scudi, ma incarica il C. di trattenerli o sborsarli a seconda delle necessità e, sottinteso, delle scelte politiche del re; il re si dichiara obbligato alla Repubblica al punto da voler esporre per lei "sempre il regno et anco la vita propria". A questo punto il C., pur sempre freddissimo e mai sbilanciato nei suoi dispacci, mostra di favorire l'eventualità di una vittoria militare del re ed annuncia come una "buona nuova" la vittoriosa giornata di Jarnac, assicurando poi il re della soddisfazione veneziana. Il suo commiato dalla corte nel 1569 (l'ultimo dispaccio è del 2 luglio) avviene in un clima, relativamente più tranquillo, di amicizia e di stima a livello personale ed a livello politico veneziano-francese.
Tornato a Venezia, il C. legge la sua relazione (Relaz., s. 1, IV, pp. 177-266):è forse la cosa più bella che sia stata scritta da lui, brillante di stile, approfondita nell'analisi. Sotto la religione egli coglie le motivazioni sociali e psicologiche dell'eresia e della lotta; dato che la sua mentalità è rigidamente cattolica, questo smascheramento dei protestanti vuole essere in realtà un mezzo per condannarli, per banalizzare i motivi della loro lotta, ma di fatto tale impostazione gli permette di uscire da uno schema interpretativo esclusivamente religioso e di cogliere, talvolta con straordinaria acutezza, componenti e motivazioni del dramma francese. La religione, quindi, è pretesto; al di sotto sta la divisione tra grandi, mediocri, bassi ed i vari ceti diventano calvinisti per "ambizione, furto, ignoranza". Se si scende a compromesso con i ribelli, l'eresia dilaga; ma, commenta il C., bisogna cacciare l'eresia da dove è entrata, cioè perseguire un radicale miglioramento della situazione religiosa, che ha offerto un facile terreno ai Ginevrini; smettere l'uso di "ingrassare le cosse regie" distribuendo cariche religiose; non "impacciarsi" della Chiesa, perché le cose spirituali e le temporali sono "incompatibili"; fermare la corruzione, lo sfaldamento della società e delle istituzioni, la partigianeria e la venalità. La lotta agli ugonotti è soprattutto una questione politica: una Francia forte e cattolica è il necessario contrappeso alla Spagna. La pericolosità dell'eresia sta nel suo collegamento con la "libertà del vivere", dapprima a livello privato, intesa come rottura dell'accettazione dei tradizionali obblighi di condotta, poi a livello politico, perché "mai si è veduto mutare religione che insieme non si sia mutato anco il governo". Qui, come si vede, il C. coglie le implicazioni etiche, esistenziali, libertarie e politiche del calvinismo, ma sempre in una prospettiva di accusa e di condanna. In Francia l'amicizia di Venezia è molto considerata, perché il regno ha bisogno di amici reputati, perché Venezia è indispensabile punto di riferimento per ogni azione in Italia, perché Venezia è creduta ricchissima. Bisogna mantenere l'amicizia francese, sostiene il C., ma si badi che non vi siamo obbligati, per noi è una libera scelta ed i vantaggi di tale legame sono perfettamente reciproci; il C. sa che il momento è favorevole a Venezia: Venezia e la Francia sono Stati autonomi ed indipendenti, ma la crisi dell'uno modifica anche per l'altro l'equilibrio italiano ed europeo in senso favorevole alla Spagna. Ed in Francia, conclude il C., Venezia è invidiata; tutti a corte gli chiedono se possono aprire depositi nella Repubblica, cioè, intendono, in un porto sicuro, dove c'è un solo Dio, una sola religione, un solo principe, una sola legge e dove senza paura "ognuno può vivere e godere quietamente il suo".
Dal settembre 1569 il C. fu membro della zonta del Senato; il 31 dicembre venne eletto ambasciatore in Germania presso l'imperatore Massimiliano II; nel 1570 fu uno dei quarantuno elettori del doge Alvise Mocenigo; del 2 giugno 1571 è la commissione senatoria per la sua ambasceria; del 21agosto il suo primo dispaccio. Rimase in Germania fino al 1574 (la licenza di rimpatrio è del 3 aprile).
I rapporti veneto-imperiali non erano buoni come quelli con la Savoia e la Francia; il C. se ne rende conto. Tutti a corte, scrive, sono convinti che Venezia sia nemica della casa d'Austria; egli non lo nega: È "amaritudine e la mala volontà" sono reciproche; il problema è soprattutto confinario. Ma, avverte il C. traendo le conseguenze delle sue osservazioni politiche e sociali, non bisogna spaventarsi perché i Tedeschi hanno i loro problemi: separatamente non possono nuocere, che si uniscano è difficilissimo; la sua analisi della intrinseca debolezza imperiale è funzionale alla strategia sufficientemente duttile da lui suggerita. Il problema fondamentale di quegli anni era comunque quello di attrarre Massimiliano II nella lega antiturca veneto-ispano-pontificia; era quindi necessario mantenere rapporti cordiali con l'imperatore. L'azione del C. si collega a quella di Leonardo Donà alla corte di Madrid; Venezia ed il papa propongono aiuti di forze di terra all'imperatore; il Donà ottiene da Filippo II una convinta azione diplomatica da parte spagnola a sostegno dell'azione del C. e scrive in tal senso al C. stesso. Ma Massimiliano II sfugge alle pressioni; le sue esigenze politiche, la sua sostanziale ambiguità religiosa, che il C. non manca di sottolineare, lo conducono ad una certa tensione con Filippo II e ad una politica di mantenimento dello status quo verso i Turchi. Nel complesso il giudizio del C. su Massimiliano II, impegnato nei problemi di Fiandra, Ungheria, Transilvania, della successione polacca, è piuttosto duro e la sua missione diplomatica si conclude sostanzialmente con un nulla di fatto. L'imperatore, scrive il C., è debole; nei confronti dei principi non può esercitare la sua autorità: l'obbedienza deriva da amore o da timore, "ma l'imperatore non è molto amato né temuto, e in conseguenza non molto obbedito". Il suo potere non raggiunge i posti dispersi e lontani su cui nominalmente si esercita; i principi sono sovrani assoluti e dominano sui contadini "peggio trattati che schiavi" ai quali si taglia la testa per ogni lamentela. E Massimiliano II ha sbagliato a non sfruttare la grande occasione che gli si era presentata dopo Lepanto; ed ha sbagliato a non intervenire affatto nelle questioni di Fiandra ed a lasciare quelle terre imperiali in mano agli Spagnoli in una faccenda dove "concorrono libertà di coscienza, interessi di principi apparentati con molti de' principali di Germania, e per terzo l'odio estremo che tutti generalmente portano alla nazione spagnola". Da Massimiliano II, comunque, il C. fu fatto cavaliere (per un sommario della sua relazione cfr. Relazioni, s. 1, VI, pp. 161-180).
Il 6 febbr. 1575, ancora una volta pochissimo dopo il suo rientro a Venezia, il C. venne eletto bailo a Costantinopoli. Questa volta partì con sollecitudine e il suo primo dispaccio è datato 28 maggio. Fece il viaggio con l'ambasciatore straordinario a Murad III Iacopo Soranzo, del quale ci resta un diario di viaggio, ed anche dai dispacci del C. possiamo farci un'idea del loro itinerario attraverso le attuali Iugoslavia e Bulgaria. Due anni prima era stata conclusa la pace separata tra Venezia ed i Turchi e il C., nel suo delicato incarico, aveva il compito di attutire i contrasti e di mantenere buoni i rapporti turbati da problemi confinari e da qualche incidente navale.
L'Alberi pensa di poter attribuire una relazione anonima di un'ambasceria ordinaria a Costantinopoli, che egli data 1579, al C. e, non trovando altre notizie di lui fino al 1579, deduce che egli sia rimasto in Turchia fino a quell'anno. Ora l'ultimo dispaccio del C. è datato febbraio 1577 e dal 30 settembre dello stesso anno inizia la corrispondenza del bailo Nicolò Barbarigo; dato che la relazione non può essere anticipata, ci sembra difficile attribuirla al C.; del resto già il Cicogna aveva messo in dubbio tale attribuzione e, spostandone la data al 1582, la attribuisce a Maffeo Venier.
Che il C. non rimanesse a Costantinopoli fino al 1579 è poi chiaramente dimostrato dal fatto che nel 1578 era a Venezia, dove venne eletto savio del Consiglio C., il 5 aprile, ambasciatore a Roma, dove giunse il 21 novembre dello stesso anno (dati, questi dell'ambasceria, di cui l'Alberi sarebbe venuto a conoscenza, avendoli riportati in seguito nel volume dedicato alle relazioni da Roma).
Il pontefice era Gregorio XIII, di cui a Venezia si conosceva l'attivismo politico, l'appoggio tenace alla causa cattolica in Europa su linee dalle quali Venezia non poteva che discordare, il tentativo mai sopito di coinvolgere la Spagna e Venezia in una nuova lega antiturca ed anche su questo punto Venezia doveva destreggiarsi; con il papa inoltre c'erano state controversie giurisdizionali, le quali però al momento dell'ambasceria del C. si erano attenuate.
Il compito principale del C., oltre ad alcune questioni minori come quella riguardante il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, sembra essere stato quello di controllare la situazione, soprattutto dal punto di vista della politica internazionale: mantenere Venezia in buoni rapporti con il papa, cercando di farla coinvolgere il meno possibile, nella politica di lui.
Il C. mostra la sua consumata abilità: espone al papa le spese e le ferite non ancora rimarginate della passata guerra contro i Turchi; cerca di moderarne l'azione politica, ispirata a criteri troppo radicalmente religiosi. Il punto di incontro che segnata tra Roma e Venezia è il desiderio di "quiete" in Italia e su questo punto indica doversi assecondare la tendenza di Gregorio XIII ad un avvicinamento e "congiunzione" con la Repubblica. Il C., dei resto, è ben conscio della particolare importanza politica del Papato, che va ben oltre la sua effettiva forza: il papa deve essere considerato come capo della Chiesa, come principe padrone del suo Stato, come principe particolare che può svolgere un'influenza ed una attività di mediatore del tutto speciale; considerando attentamente questi tre aspetti, sostiene il C., si può trarre molta "utilità" dal rapporto con Roma.Nel giugno 1581 il C. tornò a Venezia, dove ricevette un altro incarico diplomatico, questa volta però breve ed entro i limiti dello Stato veneto. Il 4 luglio fu nominato, insieme a Giovanni Michiel, Giacomo Soranzo, Paolo Tiepolo, ambasciatore straordinario all'imperatrice che attraversava le terre venete per recarsi, insieme al figlio arciduca Massimiliano, in Spagna. La missione ebbe carattere più che altro di rappresentanza; l'8 settembre i quattro ambasciatori ricevettero la commissione senatoria, il 18 novembre erano a Venezia a leggere la loro relazione (cfr. Relationen venetianischer …, pp. 317-535): si trattava di una breve relazione, interessante per le osservazioni sugli usi e costumi delle genti e sulla psicologia dei vari personaggi della corte, nello stile tipico dell'epoca.
L'anno successivo il C. era riformatore dello Studio di Padova; nel settembre fu eletto nuovamente savio del Consiglio, una delle massime cariche della Repubblica e gli "si riserva il loco", non trovandosi egli a Venezia. Nel settembre 1583 venne eletto ancora savio del Consiglio ma morì poco dopo, il 6 dic. 1583, a Venezia.
Il 18 novembre, diciotto giorni prima di morire, aveva steso il suo testamento, definendosi "infermo di corpo"; nel testamento, che ci è pervenuto inserito negli atti di un processo per una lite tra Marcantonio Correr di Angelo, lontano discendente del C. nel sec. XVII, e Giovanni Pesaro, il C. nomina crede universale ed esecutore testamentario il fratello Lorenzo, procuratore di S. Marco e, dopo di lui, i nipoti Angelo di Girolamo ed Angelo e Marcantonio di Vincenzo; con una clausola poi per far rimanere i suoi beni sempre nella discendenza legittima o naturale della famiglia, impedendone la dispersione. Altri beni lascia a un servitore, ai teatini, alla fabbrica della chiesa della sua contrada, agli incurabili, alle zitelle; si destinano ad opere pie le spese per il funerale, che vuole semplicissimo. Il C. aveva potuto fregiare lo stemma di famiglia con il simbolo della monarchia francese, per concessione di Carlo IX; lo Scamozzi gli aveva dedicato le sue piante delle terme di Diocleziano; di lui è segnalata una lettera a Bianca Capello, granduchessa di Toscana.
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