CORNER, Giovanni
Primogenito di Federico, figlio del doge Francesco, del ramo dei Corner di S. Polo e di Cornelia di Francesco, dei Contarini "di Piazzola", nacque a Venezia il 4 ag. 1647.
Ebbe due fratelli - Francesco e Giorgio, protonotario apostolico, nunzio in Portogallo, vescovo di Padova, nominato cardinale da Innocenzo XII nel 1697 - e quattro sorelle: Elena, Chiara, Lucrezia e Adriana, sposate rispettivamente con Domenico Morosini di Alvise, Carlo Contarini di Andrea, Francesco Tiepolo di Marco, Giovanni Barbarigo di Alvise; figura piuttosto scialba quella del padre, la cui carriera politica non arrivòoltre le cariche di senatore e di consigliere ducale.
Appena ventenne, il C. si sposò con Laura di Nicolò Corner, del ramo di S. Maurizio detto anche della Ca' Grande (nella medesima cerimonia, celebrata ai Gesuati l'11 ott. 1667, si sposò anche la sorella di Laura, Cornelia, con Girolamo di Andrea Corner "della Regina"). Ebbe sei figli maschi: un Alvise e un Federico morti in giovane età, quindi Federico, abate, auditore di Rota, vicelegato a Bologna; Alvise, che fu capo del Consiglio dei dieci; Nicolò e Francesco, cavalieri di S. Marco, sposati rispettivamente con Chiara Zorzi di Marin ed Elisabetta Civran di Giovanni, il primo castellano a Bergamo, consigliere ducale, inquisitore di Stato e membro del Consiglio dei dieci, l'altro ambasciatore in Inghilterra e capo del Consiglio dei dieci; l'unica femmina, Cornelia, andò moglie ad Antonio Marin Priuli di Alvise.
Forti del prestigio di due recenti dogadi i Corner di S. Polo erano una delle famiglie più illustri del patriziato veneziano, saldamente insediati nei principali organi di governo della Repubblica, ed allo stesso tempo strettamente legati alla Chiesa, da cui traevano cospicui benefici e nelle cui più alte gerarchie erano tradizionalmente inseriti; vantavano altresì un rilevante patrimonio fondiario e immobiliare: per la redecima del 1711 il C. denunciava infatti una rendita annua di oltre 14.400 ducati; purtuttavia, al momento di stilare il suo testamento, nel 1722, egli lamentava di esser stato costretto ad "aggravarsi con livelli" per far fronte alle spese sostenute per gli incarichi propri e dei figli, per le doti, e soprattutto per il suo dogado.
Ma a dispetto della tradizione familiare e dell'educazione ricevuta il C. si dimostrò piuttosto restio ad intraprendere la carriera politica. Rifiutò difatti le cariche di officiale alle Rason nove e di provveditore al Cottimo di Damasco, cui era stato eletto rispettivamente nel giugno del 1676 e nell'ottobre del '79, dando poi inizio al suo impegno pubblico solo nel 1681, come savio alle Decime. Nei diciotto mesi successivi, dal febbraio 1682 al giugno 1683, ricoperse la carica di luogotenente a Udine.
La formazione del nuovo campatico fu, sin dal suo arrivo, la principale occupazione del C., continuamente assediato da suppliche per dilazioni nelle consegne delle denunce, o da più o meno fantasiose pretese di esenzione, di Comunità e di singoli; a rendere ulteriormente difficoltosa l'esazione concorreva poi lo stato di acuto disordine monetario, che aveva fatto scomparire dalla circolazione la "buona valuta" richiesta per i pagamenti. Ben presto, tuttavia, ogni questione dovette essere accantonata di fronte alla minaccia di una penetrazione in territorio veneto della peste che infuriava nella contea di Gorizia. Dopo averne seguito attentamente il dilagare, tenendone informati i provveditori alla Sanità, alla fine di giugno il C. denunciava al Senato la gravità del pericolo e prendeva i primi provvedimenti per isolare del tutto le zone infette. Benché gli si attribuisse in seguito il merito di aver salvato il Friuli dal contagio, in realtà ogni autorità passò immediatamente ai quattro provveditori alla Sanità inviati da Venezia, mentre il luogotenente tornava alle prese con i problemi dell'amministrazione civile, enormemente aggravati dai disagi, soprattutto economici, causati dalla pestilenza; degno di nota, a questo proposito, il suo intervento contro il patriarca di Aquileia, che facendosi promotore di una colletta a favore del Goriziano si era dimostrato apertamente incurante della preminenza pubblica sul clero regolare e sulle scuole e confraternite laicali.
A questo primo incarico in Terraferma, seguì per il C. un periodo di prolungato, anche se tutt'altro che impegnativo, servizio nelle magistrature cittadine. Membro del Senato per il 1683, e della sua zonta nel triennio successivo, nel 1683-84 fu uno dei tre provveditori alla Giustizia nuova; venne quindi eletto tra i ventiquattro tansadori (1684), provveditor sopra Feudi (1684-86) e sopra Ospedali e Luoghi pii (1686-88), aggiunto ai revisori e regolatori dei Dazi (1686), revisore e regolatore delle Entrate pubbliche (1686-88). Lo scarso entusiasmo nutrito dal C. per una carriera politica prestigiosa trovava un'ulteriore conferma nel luglio 1687, quando preferì rinunciare all'ambasceria in Francia cui era stato eletto. Accettò invece di recarsi a Brescia come podestà, carica in cui rimase dall'agosto 1689 al gennaio 1691.
Come già era avvenuto con il precedente reggimento, anche in questa occasione il C. dovette rassegnarsi a vedere la propria autorità fortemente ridotta dalla presenza di un inviato straordinario di Venezia. Sin dal mese di luglio lo aveva infatti preceduto a Brescia Domenico Bragadin, inquisitore sopra Dazi e Camere in Terraferma, che gli aveva di fatto sottratto una delle principali competenze assegnate al podestà, quale appunto l'appalto dei dazi - "patrimonio maggior della Serenità Vostra", li definiva il C. - ed in generale il funzionamento delle Camere e del sistema fiscale. Forte dei suoi poteri straordinari, il Bragadin poneva mano ad una decisa revisione delle strutture daziarie, indagava minuziosamente sulla reale entità dei movimenti commerciali, imponeva maggiore rigore e precisione nei sistemi di denuncia per il campatico, ingaggiava una serrata lotta contro il contrabbando, senza timore di coinvolgervi uomini di grande prestigio come il marchese Gasparo Martinengo. Posto così in disparte dall'attivismo del più energico collega, ridotto quasi in sua tutela, il C. si limitava, nei suoi rari dispacci, a dar conto dei tumulti inscenati dai sudditi del principe di Castiglione, e ad aggiornare il Senato, in tono distaccato e, si direbbe, disinteressato, sulle operazioni delle truppe spagnole in territorio modenese, non senza rilevare come la guerra in corso fruttasse vantaggiose commesse alle armeriebresciane. Preferiva invece attendere che la lunga missione del Bragadin si fosse conclusa per criticarne taluni dei provvedimenti più severi, giudicandoli inutilmente vessatori o dannosi, e chiedendone l'abrogazione.
Dopo una breve parentesi veneziana - dal 1691 al '93 fu uno dei nove esecutori delle deliberazioni del Senato, nel 192 uno dei deputati "all'espedizion in Levante" - nel maggio del 1693 il C. partì per il suo terzo ed ultimo incarico in Terraferma, il provveditorato di Palma.
Continuamente assillato dai ritardi nei pagamenti dei sussidi, e preso dai pressanti lavori di manutenzione delle opere stradali e delle fortificazioni, aggravati dai ripetuti straripamenti del Torre, il C. resta ancorato ad un'onesta ma scialba routine di governo, né sembra neppure sfiorato dalla percezione dell'anomalia di un centro urbano economicamente e socialmente inerte, che pure qualche anno prima, in un predecessore di altra statura come il cognato Girolamo Corner, aveva stimolato riflessioni e proposte di notevole acume.Il ritorno a Venezia, nel maggio del '95, segnò anche l'ingresso del C. - certo più in ossequio ad una consolidata tradizione familiare che in riconoscimento di un prestigio personalmente acquisito - nei massimi organi di governo della Repubblica. Consigliere ducale per il sestiere di San Polo nel 1695-96, 1699-1700 e 1702-1701, membro del Consiglio dei dieci nel 1700, 1703 e 1707, sostenne inoltre le cariche di censore (1696-98), deputato alle Miniere (1697, 1701, 1703), alla Valle di Montona (1704) e alla liberazione dei banditi (1705), provveditore sopra i Beni comunali (1701-1702, 1703-1704), all'Armar (1704-1705), al Sale (1707), alle Pompe (1706-1708), esecutore contro la Bestemmia (1704-1705, 1709), regolatore alla Scrittura (1708-1709), inquisitore sopra la Cassa dei camerlenghi di Comun (1709).
Nel 1709, alla morte di Alvise Mocenigo [II] venne eletto tra i correttori della promission ducale, ed entrò quindi a far parte dei quarantuno elettori del nuovo doge. E fu proprio lui, il 22 maggio, ad essere eletto, con 40 voti su 41. Gli giovò l'irriducibile contrasto che opponeva i due partiti Diedo e Pisani, e che rese indispensabile la conversione di entrambi su di un uomo di basso profilo e politicamente innocuo.
Difficile individuare una particolare connotazione nei tredici anni del suo dogado - uno dei periodi più infelici della Repubblica, segnato dalla perdita della Morea e dalla mortificazione di Passarowitz - salvo forse per un'accentuata intonazione di devozione cattolica, quale per esempio può cogliersi nel restauro della chiesa dei Tolentini, cara alla famiglia del doge oltreché legata alle origini veneziane della riforma pretridentina, o nel suo impegno personale per la canonizzazione del beato Pietro Orseolo: si tratta di un cattolicesimo, comunque, decisamente romano, tanto che nel testamento stilato in prossimità della morte, il doge tenne a rivendicare - con una sottolineatura forse non ancor vuota di significati e risonanze - di esser sempre vissuto, e di voler morire, quale "figliuolo ubbidiente alla Santa Chiesa Cattolica Romana", non solo, ma anche "al sommo Pontefice capo di essa".
Il C. morì a Venezia il 12 ag. 1722.
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