CORNER, Giovanni
Secondo dei quattro figli maschi di Marcantonio di Giovanni e di Cecilia Contarini di Giustiniano, nacque a Venezia l'11 nov. 1551 e sposò il 10 febbr. 1578 Chiara di Lorenzo Dolfin dalla quale ebbe: Marcantonio e Lorenzo, i quali morirono in tenera età; Federico, Marcantonio, Francesco, Alvise, Giorgio; Cornelia, che sposò Antonio Bragadin; e le figlie che entrarono in convento con il nome di Bianca, Aurora, Cristina, Maffiola e Chiaretta.
Del ramo Corner di S. Polo discendente in linea diretta da Caterina regina di Cipro, la famiglia del C. disponeva d'ingenti ricchezze, accumulate con i proventi delle vaste proprietà fondiarie e con le rendite ecclesiastiche dei suoi membri che avevano abbracciato la carriera religiosa. Il C. e i fratelli denunciavano nella decima del 1582 una rendita annua di circa 4.500 ducati che proveniva, in gran parte, dai possedimenti di Terraferma: circa quattrocentosessanta "campi" nel Vicentino (Schiavon e Breganze), centoquaranta nel Mestrino (Martellago), duecentoventi nel Trevisano (Poisolo e Monestier) e seicentocinquanta nel Polesine. I contemporanei, ricordando la ricchezza del C., dipinsero con enfasi la morigeratezza dei suoi costumi, la tua indole quieta e modesta e il suo temperamento incline alla devozione e alla pietà. Il marchese di Bedmar lo definì nel 1620 "timoroso di Dio, caritatevole, pieno di buoni pensieri", lodandone la temperanza di idee e di ambizioni che lo distingueva da molti altri patrizi veneziani, che ponevano assai più fondamento "nella grandezza civile che nella divina provvidenza". E monsignor Agucchia, nel 1625, lo considerò uomo "più volto alla divotione et alla pietà che ai negotii" (cfr. Zanelli, 1930).
La ricchezza della famiglia gli permise di entrare nel 1571 in Maggior Consiglio, grazie ad un versamento di denaro. A causa della mancanza di alcuni registri del fondo Segretario alle voci, presso l'Archivio di Stato di Venezia, non è possibile ricostruire con certezza l'iniziale attività politica dei Corner. Dal 2 ag. 1588 al dicembre 1589 fu ufficiale ai Dieci uffici; nell'ottobre del 1589, 1590, 1591, 1592 e 1593 entrò nel Consiglio dei pregadi; dal 20 nov. 1592 al 30 sett. 1593 fu giudice di rispetto sopra il banco Pisani e Tiepolo; dal 9 ott. 1593 al settembre 1594 sovraprovveditore alla Giustizia nuova; dal 25 sett. 1594 al 24 genn. 1597 capitano di Verona.
Di questo incarico non ci sono rimasti che alcuni dispacci del C. diretti ai capi del Consiglio dei dieci, in cui, insieme al collega Leonardo Mocenigo, appare impegnato a mantenere l'ordine pubblico in città, minacciato dalle azioni intolleranti e prepotenti delle fazioni nobiliari. Durante la sua permanenza in città gli nacque il figlio Lorenzo e, in tale occasione, i Veronesi gli donarono un dipinto di Felice Brusasorci, in cui era rappresentato il battesimo, con sotto la figura dell'Adige (ora perduto). A Verona, nel 1596, venne pubblicata in suo onore una delle più cospicue raccolte di poesie del sec. XVI, a cura di P. Palermo: Varie compositioni scritte in lode dell'illustriss. sig. G. C. capitanio di Verona..., dedicata al fratello del C., cardinale Federico.
Dal 9 ott. 1596 all'8 febbr. 1597 era ufficiale alla Temaria vecchia; nell'ottobre 1596 entrò nella zonta del Senato; dal 3 nov. 1596 al 2 marzo 1597 era censore; nell'ottobre 1597 consigliere dei Dieci; dal 10 ott. 1598 al settembre 1599 provveditore sopra le Beccarie; dal 28 febbr. al 15 ag. 1600 podestà a Padova.
Anche di questo incarico ci sono rimasti soltanto alcuni dispacci del C. diretti ai capi del Consiglio dei dieci. In qualità di giudice ordinario della città, insieme ai colleghi Antonio Priuli e, dal 9 apr. 1600, Leonardo Mocenigo, dovette occuparsi dell'amministrazione della giustizia penale in città, bandendo alcuni nobili prepotenti come Federico Capodilista e Antonio Dotto, rei di vari delitti. Per ricordare la sua permanenza in città, il padovano Ludovico Grota gli dedicò il poema eroico L'honorata giostra fatta in Padova ... l'anno 1600, Padova 1600.
Nell'ottobre 1600 e 1601 era del Consiglio dei pregadi; il 19 marzo 1601 consigliere per il sestiere di San Polo. Venne poi eletto podestà di Brescia, dove risiedette dal 10 genn. 1603, in sostituzione di Giovanni Nani.
Per l'indisposizione del collega Nicolò Donà, dal giugno al settembre 1603 dovette occuparsi anche delle incombenze del capitanato, attendendo, in particolare, ai lavori di fortificazione della città, condotti da Buonaiuto Lorini. Dovette, però, occuparsi soprattutto dell'ordine pubblico, turbato dalle lotte cruente tra le fazioni nobiliari, ordinando il "sequestro" dei capi principali e bandendo i più faziosi. Nel dispaccio dell'8 ag. 1602, diretto ai capi del Consiglio dei dieci, egli si rammaricava della degenerazione dei giovani "così cittadini come artiggiani", i quali, nonostante il dolore e la preoccupazione dei padri, si lasciavano allettare dalle diverse fazioni "ad attaccarsi la spada et l'archibuggio alla cintura et a seguitar le loro diaboliche inimicitie". Il C. non mancò di far notare alle superiori magistrature veneziane i pericoli che derivavano dall'estendersi di questo fenomeno che causava, tra uccisi e condannati dalla giustizia, la perdita di circa 800 persone in ogni reggimento. Poiché non era "fatta alcuna stima qui dell'ordinaria autorità del reggimento", egli ottenne dal Consiglio dei dieci maggiore autorità d'inquisire e di punire. Nel reprimere le discordie interne e il banditismo, il C. dimostrò severità ed energia. Il 10 genn. 1604 condannò alla decapitazione, fatto non comune, i nobili bresciani Giovan Battista ed Alessandro Schillini, che avevano commesso una serie imponente di delitti nel Comune di Calvisano. Per dar maggior efficacia alla repressione del banditismo, ebbe frequenti contatti con il podestà di Cremona, da cui ottenne l'estradizione di alcuni banditi. Nel febbraio 1604 il Senato l'incaricò di recarsi nel Comune di Asola, per porre fine alle numerose discordie che da anni lo travagliavano. Per ricordare l'avvenimento, il Consiglio cittadino decretava di festeggiare ogni anno l'avvenuto ristabilimento della quiete.
Il 20 sett. 1604 era depositario in Zecca; il 3 ag. 1605 provveditore sopra il Monte vecchio; nel 1606, in occasione dell'elezione del doge Leonardo Donà, era tra i quarantuno elettori, sostenendo il procuratore Marcantonio Memmo; nell'ottobre del 1606 era della zonta del Senato; nello ottobre 1607 e 1608 consigliere dei Pregadi. Il 29 marzo 1609 venne eletto procuratore di S. Marco de supra e in tale veste si occupò, tra l'altro, dei lavori di restauro della basilica, durante i quali vennero rinvenute antiche reliquie sacre. Dal 28 dic. 1609 al giugno 1610 e dal 29 marzo al settembre 1611 fu savio del Consiglio; il 3 sett. 1610 era provveditore in Zecca; dal 5 genn. all'aprile del 1611 savio alle Acque; dal 29 ott. 1611 al 28 ott. 1613 provveditore all'Arsenale; dal 23 febbr. 1613 al febbr. 1614 savio alle Acque; dal 3 apr. 1615 al 2 apr. 1617 provveditore all'Arsenale.
Nel novembre 1615, alla morte del doge Marcantonio Memmo, concorse al dogado; ma la lotta, inizialmente ristretta ai procuratori Agostino Nani e Nicolò Sagredo, si rivolse, dopo numerose votazioni e le pressanti sollecitazioni della Signoria, in favore di Giovanni Bembo.
Dall'8 apr. 1616 al 1° ott. 1618 fu presidente all'Esazione del denaro pubblico; il 15 apr. 1616 tra i sette deputati alla liberazione dei banditi; dal 30 giugno al dicembre 1616 savio del Consiglio; il 18 marzo e il 14 sett 1617 esecutore sopra il Campatico; dal 24 luglio 1617 al 4 ott. 1619 savio alle Acque; dal 23 sett. al 15 dic. 1617 provveditore alla Sanità; dal 1° marzo al giugno 1618 savio del Consiglio; l'8 marzo 1618 provveditore sopra il Quieto e pacifico vivere della città. Nel marzo 1618 fu tra i cinque correttori della promissione ducale, ma non concorse al dogado; ottenne però ugualmente dei voti in diversi scrutini. Nel maggio 1618, alla morte del doge Nicolò Donà, fu nuovamente correttore della promissione ducale; dal 2 giugno 1618 al 1° giugno 1620 riformatore allo Studio di Padova; il 20 giugno 1619 provveditore in Zecca; il 5 febbr. 1621 provveditore sopra il quieto e pacifico vivere della città; l'8 marzo 1621 aggiunto alla Scrittura; il 5 ott. 1621 provveditore alla Sanità; il 27 ag. 1622 aggiunto ai riformatori dello Studio di Padova; il 19 nov. 1622 provveditore sopra il quieto e pacifico vivere della città; il 25 febbr. 1623 riformatore dello Studio di Padova; il 2 marzo 1623 provveditore alla Fabbrica del palazzo; il 16 sett. 1623 provveditore alla Sanità. Nell'agosto 1623, alla morte del doge Antonio Priuli, fu correttore della promissione ducale e, pur non concorrendo al dogado, ottenne dei voti; dal 6 ag. al 5 nov. 1624 provveditore alla Cassa degli ori e argenti; il 13 dic. 1624, alla morte del doge Francesco Contarini, fu correttore della promissione ducale.
L'elezione del nuovo doge si prospettava difficile ed incerta per le posizioni di forza, sostanzialmente equilibrate, dei due concorrenti principali Agostino Nani e Francesco Erizzo. Il C., che pure era gradito a quella parte del patriziato che faceva capo alle case vecchie, di stampo conservatore e ligio alla Chiesa per aderenze e simpatie, non era inviso, per la sua posizione sostanzialmente immune da faziosità politica, nemmeno a quella folta schiera di patrizi ostile ad ogni ingerenza ecclesiastica. All'elezione del C. si opponevano però con decisione i figli laici, soprattutto Alvise, che era appena ritornato dall'ambasceria di Spagna e che, a causa delle leggi della Repubblica che vietavano espressamente ai figli del doge l'assunzione di cariche politiche, con l'elezione del padre avrebbe avuto precluse le più alte cariche politiche.
Quando però, dopo numerose votazioni e le pressanti intimazioni della Signoria, la lotta tra il Nani e l'Erizzo si rivelò priva di sbocchi, i quarantuno elettori - tra cui c'era anche il figlio Francesco, meno restio dei fratelli all'elezione del padre - riversarono i loro voti sul C., che venne eletto doge di Venezia il 4 genn. 1625.
In queste elezioni si annidavano i prodromi degli avvenimenti che avrebbero sconvolto il patriziato veneziano negli anni successivi e che avrebbero visto il C. e i figli tra i protagonisti principali di una contrastata corsa al potere.
A pochi giorni dall'elezione, il C. si rivolse alla Signoria, chiedendo se i figli Alvise e Francesco, entrambi senatori, avrebbero potuto rimanere nel Consiglio dei pregadi ed ottenne dai sei consiglieri una risposta affermativa. Quando poi, nel luglio dello stesso anno, all'avvicinarsi di nuove elezioni del Pregadi e della zonta, il C. ripropose il proprio quesito, essi riconfermarono la decisione precedente. Le due terminazioni della Signoria dimostravano assai chiaramente a quale punto fosse giunta l'acquiescenza della classe dirigente veneziana verso i Corner, che non volevano assoggettarsi alle rigide imposizioni delle leggi. L'anno seguente altri episodi dimostrarono la volontà prevaricatrice dei Corner: nel gennaio del 1626, Federico, primogenito del C., otteneva dal pontefice Urbano VIII la porpora cardinalizia; e poiché le leggi della Repubblica impedivano ai figli del doge il godimento di benefici ecclesiastici, il C. ottenne l'approvazione della nomina del figlio, dichiarando che non di beneficio o di rendita si trattava, bensì di semplice dignità. Nessuno osò contraddire questa decisione, tranne Nicolò Contarini, savio del Consiglio, che dissentì timidamente, senza però prendere alcuna iniziativa per impedirla. I figli del C., Federico e Marcantonio, ottenevano poi, con un accorgimento, di recarsi a Roma a spese della Repubblica. Nel giugno dello stesso anno, sempre Federico, già vescovo di Bergamo, otteneva il vescovado di Vicenza, nonostante il consultore in iure fra' Fulgenzio Micanzio avesse espresso il proprio parere negativo. In agosto, il cognato del C., Daniele Dolfin, veniva eletto consigliere per il sestiere di San Marco e nel marzo del 1627, Giorgio, il più giovane dei suoi figli, entrava nella zonta del Pregadi.
Le richieste del C. al Collegio e alla Signoria, con la loro parvenza di legittimità, adombravano in realtà una serie di abusi e di prevaricazioni che denotavano la vastità di poteri accentrati nelle mani di poche famiglie patrizie doviziose ed influenti. L'opposizione e il dissenso del patriziato più povero contro questa gestione oligarchica del potere trovarono un capo in Ranieri Zeno, che per la sua intransigente volontà nell'opporsi ad ogni trasgressione delle leggi era già stato bandito dal Consiglio dei dieci. Nel settembre del 1627 i figli del C., Francesco ed Alvise, entravano nuovamente nel Consiglio dei pregadi e nella zonta con diritto di voto. Questo offrì l'opportunità allo Zeno - che nel frattempo, liberatosi dal bando, era stato eletto capo del Consiglio dei dieci - di muovere all'attacco: il 20 ottobre egli chiedeva agli avogadori di Comun di intromettere la "parte" della Signoria del luglio 1625, emanata in favore dei figli del C., rifacendosi ad una legge che stabiliva che ogni dubbio inerente la promissione ducale doveva essere risolto dal Maggior Consiglio. Venuto a conoscenza delle intenzioni dello Zeno, il C. chiese di sua iniziativa che l'elezione dei figli fosse annullata, adducendo la giustificazione di aver ignorato il senso preciso delle leggi e, il 25 ottobre, nonostante la cocente umiliazione, si presentò in Collegio per proclamare la propria "innocenza di costumi... sempre modesti ed incorrotti, essendo egli vissuto piuttosto da buon religioso che da gentiluomo morbido e ricco come era nato".
Il discorso del C. destò commozione e simpatia, e il savio Nicolò Contarini intervenne a suo favore, esprimendo le preoccupazioni di una parte del patriziato, un tempo favorevole alle iniziative dello Zeno, ma ora preoccupata dalle possibili conseguenze disgregative. La città era ormai divisa in zenisti e corneristi e gli osservatori stranieri seguivano con preoccupazione lo sviluppo degli avvenimenti. L'ambasciatore inglese a Venezia, Isaac Wake, osservava che nel patriziato veneziano era in corso una guerra civile e che l'obiettivo principale dello Zeno era di deporre il doge. Infatti, non soddisfatto dei risultati acquisiti, l'intransigente patrizio affrontò il C. in un drammatico incontro, ammonendolo per le sue precedenti richieste alla Signoria. Il C. si ripresentò allora in Collegio, commiserando la propria vecchiezza esposta a siffatte umiliazioni e ventilando, inoltre, una sua possibile abdicazione. In una tumultuosa seduta in Senato, l'ammonizione dello Zeno veniva annullata; ma egli, di lì a pochi giorni, riaccendeva la disputa in Maggior Consiglio, dove, in contraddizione con i colleghi Giovanni Pesaro e Bartolomeo Gradenigo, otteneva l'approvazione della sua proposta che anche uno solo dei capi del Consiglio dei dieci potesse ammonire il doge.
La situazione sembrò momentaneamente acquietarsi, quando, improvvisamente, il 30 dic. 1627, Ranieri Zeno veniva assalito da alcuni sconosciuti e ferito gravemente. I sospetti si appuntarono immediatamente su Giorgio Corner, figlio minore del doge, che con tale gesto aveva voluto vendicare le offese arrecate dallo Zeno alla propria famiglia. Il colpevole venne bandito con l'alternativa della pena capitale e il suo nome fu cancellato dal Libro d'oro; ma, benché i sospetti cadessero anche su Michele Priuli, parente del C., l'inchiesta venne presto chiusa.
Un'ondata d'impopolaritàs'era ormai abbattuta sui Corner, che riuscirono solo ad evitarne le estreme conseguenze negative: il nunzio pontificio a Venezia, che assisteva preoccupato agli avvenimenti, osservava che essi "per qualsiasi cosa che venissero ballottati, non l'otterrebbono". Il C., sconvolto dagli eventi, che l'avevano visto suo malgrado protagonista, con profonda amarezza, nel testamento del 6 genn. 1628, diseredava il figlio Giorgio.
Gli attacchi dello Zeno contro i Corner non erano però ancora terminati: il 23 luglio 1628 egli chiedeva in Maggior Consiglio che l'esecuzione della promissione ducale fosse applicata anche contro i figli ecclesiastici del doge. Il C. si oppose accusando lo Zeno di inveire contro la sua persona per soli fini di vendetta, asserendo, inoltre, che la propria elezione era avvenuta "contra sua voglia et per li meriti de' suoi maggiori", ma lo Zeno, tra lostrepito generale, lo interruppe chiedendo fosse allontanato con i suoi parenti dalla sala. Anche se le sue richieste apparivano fondate e legittime, egli aveva però oltrepassato il segno e le sue iniziative erano ormai invise a tutto il patriziato dirigente: la Repubblica stava attraversando momenti difficili e più che mai gli avvenimenti richiedevano che essa apparisse unita e concorde. Il Consiglio dei dieci, lo stesso giorno, decretò perciò il suo arresto e, di lì a pochi giorni, lo bandì per dieci anni da Venezia. La polemica tra i Corner e lo Zeno aveva oramai varcato i limiti della contesa personale, tramutandosi in uno scontro che vedeva contrapposti, da un lato, i membri della più doviziosa aristocrazia e, dall'altro, il patriziato più povero ed emarginato, proteso alla conquista di uno spazio politico più ampio e concreto. La contesa tra le due componenti trovò il suo terreno di battaglia nella correzione del Consiglio dei dieci, nel settembre 1628, sorta in seguito al rifiuto del Maggior Consiglio di eleggerne i membri e si riaccese l'anno seguente, quando il pontefice concesse a Federico, figlio del C., il vescovado di Padova. Il Senato chiese al pontefice di recedere dalle sue decisioni; ottenutone un rifiuto, la situazione fu sbloccata dallo stesso Federico Corner che rinunciò spontaneamente alla nuova sede.
Il C. morì a Venezia il 22 dic. 1629.
Secondo le disposizioni testamentarie del 1623, venne seppellito, accanto alla moglie, nella chiesa di S. Nicolò dei Tolentini. Precedentemente egli aveva destinato come luogo della sua sepoltura l'eremo di Rua nel Padovano, in cui aveva fatto erigere una cappella di famiglia. Il nipote Federico eresse in sua memoria nella chiesa di S. Nicolò da Tolentino un monumento, che venne in seguito sostituito dal doge Giovanni[II]Corner con quello attualmente esistente.
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Mise. codici, reg. 60; Ibid., Cons. dei dieci. Lett. rettori, buste 26, 85, 86, 196; Ibid., Senato. Lettere Bressa e Bressan, filza 2; i testamenti del C. del 20 aprile 1623, 15 febbr. 1625, 6 genn. 1628 e 14 dic. 1629, Ibid., Testamenti, busta 1178, fasc. 222; busta 1244, fasc. 426; il testamento del fratello del C., Giorgio, Ibid., Testamenti, busta 56, fasc. 247; Ibid., Provveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 856; Ibid., Consultori in iure, filza 54, c. 54; Ibid., Savi alle decime. Condizioni di decima, busta 157 bis, fasc. 703; Ibid., M. A. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, III, c. 47; Ibid., G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I, c. 905; London, Public Record Office, State Papers 99, busta 28; Arch. di Stato di Modena, Carteggio estero, busta 95; Arch. Segr. Vaticano, Nunz. Venezia, filza 49; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 408 (= 7311): Relatione delli moti interni... sino il 1630, passim;Ibid., Mss. It., cl. 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