CIMABUE, Giovanni
Pittore fiorentino: operava nella seconda metà del sec. XIII e sino ai primi anni del Trecento. Poche notizie di lui in documenti, che lo chiamano "Cenni di Pepo, detto Cimabue": era a Roma nel 1272; a Pisa nel 1301 s'impegnava a eseguire, col lucchese Giovanni di Apparecchiato, una "maestà della Madonna per la chiesa di S. Chiara, e dal 1302 al 1303 lavorava nel mosaico dell'abside del duomo la figura di S. Giovanni. Ai posteri mantennero la sua fama i versi di Dante (Purg., XI, 94-96), che lo giudicò oscurato dal sopravvenire di un'arte nuova, ma il maggiore nella pittura innanzi Giotto; e da lui mossero gli antichi scrittori d'arte fiorentina che, tenendo ricordo di opere sue, a queste ne agglomerarono tante altre, differenti fra loro, da giustificare quasi lo smarrimento della critica moderna quando negò di poterlo più riconoscere. Pure, è sicuro mezzo a ricostituirne l'opera quel suo S. Giovanni della cattedrale pisana, nel quale non è da cercare la misura del potere creativo dell'artista, essendo soltanto parte di composizione ideata ed eseguita da altri, ma si veggono caratteri e manierismi pittorici ben definiti - particolarità di drappeggio, del colore e del disegno - per cui si possono risolvere le incertezze ancora persistenti e riconoscere di C., fra le antiche attribuzioni, a Firenze, la Madonna già in S. Trinita e un crocifisso in S. Croce, affreschi nella chiesa di S. Francesco ad Assisi, una Madonna già in S. Francesco di Pisa (Parigi, Louvre), e qualche altra opera oltre quelle: un tratto dei mosaici del Battistero fiorentino, una Madonna ai Servi di Bologna, un crocifisso nel S. Domenico di Arezzo, ecc. Nella "maestà" di S. Trinita, C. osserva la maniera bizantina nella composizione, nella fattura pittorica e nell'effetto totale, ma vi imprime il segno della propria personalità non soltanto perché possiede a fondo le formule bizantine, come non altri prima di lui a Firenze, ma perché ha una sua fermezza plastica che fa risaltare forma e disegno sopra il colore, altrimenti che nelle opere del Cavallini e di Duccio, in modo da potersi dire già fiorentino. La fascinazione religiosa dell'icone, temperata d'umanità nei vibranti angioli; la dolcezza armoniosa del colorito; l'evidenza del rilievo, nella "maestà" degli Uffizî, ben dànno ragione della riconosciuta preminenza di C., a Firenze, nel campo della pittura prima di Giotto. Le stesse qualità accertano l'opera del maestro in quegli altri dipinti; dei quali la successione cronologica è dubbia ma si potrebbe stabilire a norma della crescente forza del disegno nell'accentuare il rilievo.
Ad Assisi, nella chiesa inferiore del santo, resta di C. un affresco - Madonna tra angioli, con S. Francesco - risparmiato per devozione rinnovandovisi le pitture nel Trecento; e sembra, fra i restauri, ancora prossimo a quella "maestà". Nella chiesa superiore, come già vide il Vasari, restano del maestro e dei suoi aiuti gli affreschi dell'abside, del transetto, della vòlta sull'altare, benché ora ridotti quasi a ombre, anche una parte di quelli al sommo delle pareti nella navata: e dove l'opera di C. si scorge più pura, o meno guasta, essa manifesta le sue qualità di plastico disegnatore ancor più che la "maestà" di S. Trinita, che perciò è da credere anteriore al principio di quegli affreschi, che fu tra il 1277 e il 1281. C. lavorò nella chiesa superiore di Assisi, dopo il suo soggiorno romano (1272 circa); del quale si trovano ricordi nell'iconografia e nella varietà di ornati, non già nello stile la cui concitazione drammatica, nelle grandi Crocifissioni del transetto, l'artista derivò dalla patetica arte bizantina ma esaltandola nel proprio temperamento come nei suoi Crocifissi di Firenze e di Arezzo.
Nella "maestà" di Pisa (Parigi, Louvre), l'animazione intima diminuisce; ma il confronto col S. Giovanni del mosaico pisano, anch'esso così poco animato, persuade che il divario sia dovuto al maestro stesso più che ai suoi probabili collaboratori. Tutta l'attenzione del pittore in quest'ultima opera, eseguita probabilmente quando era già piena la rivelazione di Giotto, si concentra nel rappresentare il risalto plastico: ciò è manifesto nello scorcio del trono, nel drappeggio della Madonna che sembra studiato su marmi antichi, fuori del classicismo bizantino, negli energici segni di contorno.
Il dipinto a cui fu raccomandata soprattutto la fama di C. - la Madonna Rucellai - per il racconto tramandato dal Vasari, del suo trionfale trasporto per Firenze a S. Maria Novella, non si può attribuire con certezza al maestro. Deriva esso dalla tavola di S. Trinita la finezza cromatica, ma la rende più sottile mentre anche attenua la grandezza di quella composizione, nelle figure degli angioli, sospesi lievemente, con un senso festoso che non si vede nelle altre opere di C., altrimenti gravi; si approssima d'altra parte alla "maestà" di Pisa cercando il distacco dei pieni ma non ne uguaglia la forza del disegno: e si potrebbe perciò supporre dipinto dal maestro in un periodo intermedio tra quelle due opere, se non vi apparissero elementi gotici che non si ritrovano più nella tavola pisana. Codesti tratti gotici, la finezza coloristica, il prevalente effetto di decorazione seguitano a persuadere una considerevole parte della critica che alla Madonna Rucellai sia da riferire un documento in cui il senese Duccio di Buoninsegna nel 1285 s'impegnava a dipingere una grande Madonna poi i laudesi di S. Maria Novella: ma alle opere certe di Duccio qui contrastano troppi caratteri, e specialmente il fermo disegno, ben più prossimo a Cimabue. A volere omettere altre svariate attribuzioni, l'opinione più dimostrabile è che la Madonna Rucellai sia stata dipinta sul termine del Duecento, forse presso lo stesso C., da un suo geniale seguace. Conosceva questi anche le opere di Duccio e gli elementi gotici accolti dal maestro senese: e come più tardi i discepoli di Giotto risentirono influssi della pittura senese, egli ne derivò finezza e grazia, nuove di fronte alle opere in cui C. aveva cercato effetti sempre più grandiosi. Al suo capolavoro si possono unire altre opere: la Madonna della raccolta Gualino e un'altra della chiesa di Mosciano (Firenze), assai inferiore a quella.
Nelle opere certe, l'arte di C. modifica, dando qualche nuovo valore al rilievo mediante il disegno, ma non altera lo stile bizantino, intieramente posseduto; ne ricrea la grandezza e l'astrazione religiosa, addolcendole senza diminuirle: e la "maestà" di S. Trinita, al cospetto della vicina grande Madonna di Giotto (Firenze, Uffizî), appare anche più pura nella piena rispondenza della forma con lo spirito, e di più immediato potere su noi. L'influenza di C. fu assai vasta: più immediata negli affreschi di Manfredino d'Alberto a Genova; si può osservare in aspetto più profondo anche nella formazione di Giotto. (V. tavv. LVII a LX).
Bibl.: Per notizie storiche: K. Frey, in G. Vasari, Le Vite, Monaco 1911, I, p. 388 segg.; per la critica degli scrittori antichi (commenti a Dante, F. Villani, L. Ghiberti, G. Vasari); J. Strzygowski, Cimabue und Rom, Vienna 1888, p. 7 segg.; E. Benkard, Das literarische Porträt des Cimabue, Monaco 1917. Per la critica moderna: A. Chiappelli, Nuovi studi su Cimabue, in Nuova antologia, CCCXII (1924), p. 321 segg.; cfr. anche: A. Venturi, Storia dell'arte italiana, V, Milano 1907, p. 195 segg.; A. Aubert, Cimabue-Frage, Lipsia 1907; B. Berenson, in Art in America, VIII (1920), p. 251 segg.; O. Sirén, Toskanische Maler im XIII. Jahrhundert, Berlino 1922, p. 276 segg.; L. Venturi, La collezione Gualino, I, Milano 1926, p. i segg. Per una più ampia trattazione: P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I, Torino 1927, p. 1003 segg.; id., La pittura fiorentina del Trecento, Bologna 1929, p. 10, con bibl.; C. H. Weigelt, The Madonna Rucellai, in Art in America, XVIII (1929), p. i segg.; id., La pittura senese del Trecento, Bologna 1930, pp. 3-7 (sulla Madonna Rucellai).