PALLAVICINO, Giovanni Carlo
PALLAVICINO (Pallavicini), Giovanni Carlo (Giovann Carlo). – Nacque a Genova il 5 ottobre 1722 da Paolo Girolamo (II) e da Giovanna Serra di Luciano.
Apparteneva al ramo principale di una delle più ricche e potenti famiglie di nobiltà vecchia, banchieri di Carlo V e dell’Impero, monopolisti dell’allume nei domini pontifici, proprietari di tonnare in Sicilia, insigniti di vari titoli nobiliari, collezionisti di preziose quadrerie nelle loro dimore (Palazzo di Luccoli, villa di Rivarolo, villa delle Peschiere in Albaro e altre). Benché ai vertici della classe dirigente, nel corso del XVI e XVII secolo i Pallavicino occuparono di rado cariche istituzionali di rilievo, privilegiando le attività produttivo-finanziarie su quelle politiche, fatta eccezione per gli incarichi diplomatici. Proprio la diplomazia, del resto, consentiva loro di conciliare l’impegno pubblico e il controllo degli interessi familiari sia negli Stati italiani sia presso le corti europee (prima Madrid, poi Parigi, Londra, Vienna, Buda e Praga), nonché il mantenimento di relazioni anche personali con personaggi di rilievo internazionale, facilitato dal precoce multilinguismo dei Pallavicino, che fin da ragazzi padroneggiavano il francese e l’inglese, divenuti essenziali nei rapporti economici e culturali sullo sfondo dell’illuminismo europeo. L’altra loro carriera pubblica privilegiata era quella ecclesiastica: nel corso del Seicento e del Settecento ebbero sempre un cardinale a Roma, e proprio un fratello di Pallavicino, il cardinale Lazzaro Opizio, fu segretario di Stato dal 1769 al 1785, con i papi Clemente XIV e Pio VI.
Come gli altri fratelli, Giovan Francesco (nato nel 1710) e Lazzaro Opizio (nato nel 1719), Pallavicino e il suo gemello, Bruno Maria, furono battezzati nella chiesa gentilizia di S. Pancrazio. Il 18 dicembre 1733 furono ascritti insieme al Libro d’oro della nobiltà.
Ricevette un’accurata educazione, prevalentemente a Genova presso le scuole dei gesuiti, ampiamente sovvenzionate proprio dalla sua famiglia, e dimostrò precocità d’ingegno e spiccate doti d’eloquenza. Durante la giovinezza numerosi viaggi e permanenze all’estero – sia al seguito del padre e di altri membri della famiglia impegnati in attività diplomatiche e finanziarie, sia individuali – ne favorirono l’apertura mentale e culturale e lo misero in contatto coi processi di rinnovamento politico-economico collegati al riformismo illuminista europeo.
Il primo incarico pubblico in cui Pallavicino ebbe modo di distinguersi fu di natura militare. Nel 1745-46 – nel corso della guerra di successione austriaca che mise Genova, nonostante la dichiarata neutralità, nella necessità di contrastare l’avanzata degli eserciti austro-sardi e di difendere il territorio metropolitano dall’occupazione austriaca – fu nominato prima tenente colonnello del Reggimento reale di Liguria e poi vicecommissario generale.
All’assedio di Tortona, come alla battaglia del Tanaro e all’assedio di Valenza, il suo comportamento sul campo sembra essere stato improntato a competenza militare e coraggio personale (anche se l’agiografia attorno al futuro doge deve aver enfatizzato episodi come il guado del Tanaro a capo del suo reggimento all’attacco delle trincee nemiche tanto da guadagnarsi l’ammirazione del re di Sardegna e dei suoi veterani).
Tra la fine novembre e i primi di dicembre 1746, con l’esercito austriaco ormai sulle alture attorno alla città, era comunque a Genova nella villa di Rivarolo al capezzale del padre, che morì il 9 dicembre. Con l’aiuto del capitano Carlo Nicolò De Franchi, cercò di raccogliere gli uomini della Val Polcevera per far argine all’avanzata nemica ma, come sottolineò nei suoi amareggiati dispacci al Governo, tutta la popolazione preferì fuggire per cercare rifugio dentro la città. Nei mesi successivi con altri tre nobili (Felice Balbi, Francesco Grimaldi, Nicolò Giovio) fu nominato dalla Giunta di guerra alla deputazione incaricata di visitare le fortezze della Repubblica e provvedere alla loro fortificazione.
Chiusa la parentesi militare, sviluppò la propria attività politico-giuridico-imprenditoriale ininterrottamente e in varie direzioni: dall’apertura in Albenga di una fabbrica di vetri (i cui prodotti d’eccellenza ebbero un tale successo da fargli chiedere ripetutamente ma inutilmente al vescovato l’autorizzazione al lavoro nei giorni festivi) al sostegno ai progetti di potenziamento del Portofranco (in crisi per la concorrenza di Livorno e di Marsiglia), alla ricorrente carica di protettore del Banco di S. Giorgio (ruolo consueto tra i membri della sua famiglia).
Alla morte del padre, Pallavicino aveva ereditato l’archivio di famiglia, che proprio sotto di lui (ancorché meno attento e scrupoloso del padre e di altri antenati), assunse la struttura che avrebbe mantenuto, anche quando si sarebbero aggregati man mano gli archivi delle famiglie confluenti per matrimonio e/o eredità (Durazzo, Giustiniani, Centurione, Grimaldi, Clavesana, da Passano, Spinola, Doria, Gentile, Lomellini).
Quando con atto notarile del 28 settembre 1755 Giovan Francesco, dichiarandosi «non inclinato a prendere lo stato coniugale» (Gli Archivi Pallavicini di Genova, 1994 p. 28), cedette la primogenitura a Giovanni Carlo, questi ricevette tutti i titoli del padre, con annesse eredità feudali e venne a trovarsi al centro di una serie di successioni ereditarie di grande splendore (non senza qualche contestazione e complicazione legale): oltre alla proprietà di immobili e di terreni in Genova e fuori, a lui passarono i marchesati di Morbello, Casalotto, Mombaruzzo; fu inoltre conte di Montaldo e di Quaranti, signore di Masone, barone di Frignano, marchese del Sacro Romano Impero e di Campoteyar in Spagna. In seguito al matrimonio con Maria Giovanna Grimaldi di Ranieri, celebrato con splendore d’apparati il 28 gennaio 1756, ereditò il feudo aleramico di Rezzo, proveniente dall’antica famiglia Clavesana.
Di magistratura in magistratura fu più volte eletto giudice di tutti i tribunali, protettore e procuratore dei pubblici erari e inquisitore di Stato. Nell’ambito del Minor consiglio, autentica espressione della direzione politica della Repubblica, i suoi interventi – nel 1773, 1777, 1781, 1783 – rispecchiarono l’ampiezza degli ambiti di competenza, con insistenti denunce su aspetti del sistema giuridico, su disordini e abusi nel settore del commercio (vini, grani, carni) e sulle responsabilità delle strutture pubbliche nella tolleranza del fenomeno del contrabbando.
Questi interventi (che nella seduta dell’8 aprile 1783 lamentò come inascoltati) erano spesso in piena consonanza con quelli di Domenico Invrea, uno dei capi del gruppo riformatore, nel criticare l’inerzia del Governo e nel chiedere la promozione di nuove iniziative industriali e l’istituzione di scuole in grado di formare manodopera, come nel rivendicare la necessità di nuovi rapporti sia tra Genova e Dominio sia tra potere politico e mondo imprenditoriale.
Diversa tra i due invece la posizione sulle relazioni Chiesa-Stato, considerato il radicale giusnaturalismo di Invrea e gli stretti legami dei Pallavicino con le gerarchie ecclesiastiche. La conflittualità, non esplicita ma chiaramente allusa, ruotò attorno alla questione dell’Oratorio del Divino Amore, confraternita trisecolare che, dietro la giustificazione devota, Invrea accusava di essere un sodalizio aristocratico dedito soprattutto a influenzare le scelte per gli incarichi nevralgici di Governo. Tra il 1776 e il 1782 di quella confraternita Pallavicino fu regolarmente uno dei circa venti componenti, insieme ai cugini Domenico e Giuseppe (il legame di interessi coi quali sarebbe stato confermato dal divenirne erede).
Anche se il gruppo familiare dei Pallavicino costituì un centro di potere ben organizzato (e l’apogeo sembrò raggiunto proprio negli anni Settanta-Ottanta con il dogato di Pallavicino e la nomina a segretario di Stato del fratello cardinale), è innegabile che gli si debbano incisive aperture riformiste. Nel 1782 Pallavicino, come membro della Commissione per le informazioni, fu tra i sostenitori della nomina a uditore della Ruota criminale di Ruffino Massa, magistrato e scrittore strettamente collegato a Cesare Beccaria e alla cultura illuminista più matura, che a Genova ruotava attorno alla figura di Pietro Paolo Celesia, grande amico del fratello di Pallavicino, Giovan Francesco.
Le aperture riformiste, oltre alla vivace personalità imprenditoriale, resero Pallavicino inviso alla parte più conservatrice del ceto dirigente genovese: la sua elezione a doge, il 6 giugno 1785, fu contrastata (ebbe solo 184 voti su 385), poiché gli avversari politici ne contestavano la liceità giuridica in considerazione della sua vasta attività commerciale e finanziaria. Al contrario, sulla difesa della pratica del commercio come dovere del «provvido Principe aristocratico» per «provvedere i cittadini nel possesso de’ loro naturali e primitivi diritti, eguaglianza e libertà», fu polemicamente imperniata l’orazione dell’incoronazione ducale tenuta in duomo dall’abate Francesco Mazzola, professore di eloquenza all’università, destinato a diventare un acceso democratico alla caduta del Governo oligarchico, nel 1797 (l’orazione, pubblicata a Genova 1785, era conservata nei Miscellanea dell’ex Biblioteca delle Missioni Urbane, Genova).
Durante il biennio ducale, Pallavicino difese le attività commerciali, tanto a livello personale, continuando a operare attraverso i suoi agenti sulle piazze di Vienna, Buda, Praga, quanto nella sua dimensione pubblica, favorendo la fondazione, nel gennaio 1786, della gloriosa Società Patria.
Nata a Genova con lo scopo di promuovere le arti e le manifatture, da essa derivarono, nel 1791, le analoghe istituzioni di Chiavari, di Savona e di Albenga, e vi confluirono, accanto alla borghesia imprenditoriale e colta, anche di estrazione straniera (in particolare svizzera), gli elementi intellettualmente più vivi dell’aristocrazia, da Gerolamo Grimaldi a Gerolamo e Giacomo Filippo Durazzo a Stefano Rivarola, fautori di una ‘restaurazione agricola’ della Liguria che contrastasse le massive importazioni e l’impoverimento della popolazione agraria e artigiana.
Sotto il dogato di Pallavicino si consumò anche l’esperienza di un Banco di sconto. Aperto, sull’esempio di quelli di Parigi, Madrid, Vienna e Livorno, raccolse i capitali di nobili e borghesi genovesi e di rappresentanti di case bancarie e commerciali straniere; tra i primi 110 soci figurò lo stesso Pallavicino, che sottoscrisse la quota massima consentita di dieci azioni. Ma quando i sottoscrittori del ceto nobiliare si resero conto che l’impresa, da bancaria e mercantile, si stava trasformando in una minacciosa concorrenza per quel Banco di S. Giorgio che aveva da sempre costituito la forza finanziaria dei loro casati, ne provocarono il fallimento dopo un solo anno di vita. A Pallavicino, che aveva anche aperto la sede di Palazzo ducale alle riunioni e al quale si rimproverava da più parti un nuovo conflitto di interessi, si riconobbe tuttavia il merito di aver saputo gestire con abilità il momento critico, disponendo la regolarità del pagamento degli interessi e l’apertura di un’altra Banca di sconto, sempre nella sede del Palazzo, ma con modalità più rigide e circoscritte e sotto il diretto controllo governativo.
Anche se ufficialmente il Banco di S. Giorgio non era intervenuto nella questione, era stato evidente che il Governo aveva agito in difesa del monopolio dell’antico Banco; ma il problema dei rapporti tra i due poteri era destinato a riacutizzarsi sul finanziamento delle spese militari che, in relazione al conflitto europeo attorno alla Francia rivoluzionaria, la Repubblica doveva affrontare allo scopo di mantenere un armamento stabile che la garantisse sia pure nella difesa della neutralità. E proprio al problema dei rapporti tra Governo e Banco di S. Giorgio Pallavicino si dedicò come procuratore perpetuo, dopo la fine del dogato. Insieme a Marc’Antonio Gentile fu nominato a trattare con le Compere di S. Giorgio il secolare problema delle nomine dei magistrati e delle procedure dei prestiti per ottenere dalle stesse Compere il pieno riconoscimento delle disposizioni governative. Nell’argomentata e accorata relazione dei due deputati, presentata al Minor consiglio il 5 giugno 1793, sembra ancora prevalere la constatazione di impotenza del Governo (ma nel gennaio 1794 il progetto di imporre al Banco di S. Giorgio un prestito coattivo arrivò al Maggior consiglio e fu approvato con l’esito clamoroso di una vera e propria rivolta).
Nello stesso 1793 Pallavicino ricevette un altro delicato incarico: trattare con il nuovo ministro plenipotenziario inglese Francis Drake i termini della neutralità della Repubblica, cui i coalizzati rimproveravano l’indulgente disponibilità del porto e degli approvvigionamenti granari alla marina francese. Il primo colloquio, informale, si tenne il 10 ottobre nella villa di Rivarolo per volere di Drake, ospite a cena. La relazione dettagliata della conversazione, in botta e risposta, durata circa un’ora e mezza, fu immediatamente recapitata da Pallavicino al Governo, con allegata una ‘Memoria’ scritta in francese, che Drake gli consegnò appunto perché fosse discussa dai Collegi e che era volta a dimostrare l’impossibilità di un’invasione francese sul territorio della Repubblica e a ottenere il passaggio di Genova nel campo dei coalizzati. Drake sperava forse in una mediazione morbida da parte di Pallavicino, considerando anche gli interessi che lui e la sua famiglia avevano in Sicilia (allora nell’orbita inglese) come proprietari delle isole Egadi e delle relative tonnare; ma Pallavicino, convinto sostenitore della neutralità, respinse allettamenti e minacce di Drake e il colloquio assunse toni molto tesi, gli stessi che caratterizzarono le discussioni nel Governo l’11 e il 12 ottobre, mentre Drake, informato, scriveva a Pallavicino una lettera sdegnata. Il 14 ottobre Franco Grimaldi e Niccolò Grillo Cattaneo furono incaricati di portare la decisione ufficiale di neutralità votata dal Governo a Drake, che nello stesso giorno volle conferire ancora con Pallavicino. Tutti restarono irremovibili. Nonostante ulteriori ripetuti ultimatum, con il Governo genovese che prendeva tempo, Drake partì per Tolone il 10 novembre e le truppe rivoluzionarie francesi entrarono nel territorio della Repubblica.
Mentre i tumulti si susseguivano in città e nello stesso Palazzo tra le fazioni governative, il 26 aprile 1794 Pallavicino morì nella sua villa di Rivarolo.
Fu sepolto, come molti membri della famiglia materna, nella cappella di Nostra Signora della Misericordia nella duecentesca chiesa di S. Francesco.
Dalla moglie aveva avuto due figli: Paolo Gerolamo, il 20 novembre 1756, e Ranieri, l’8 ottobre 1757. Pochi giorni dopo la nascita del secondogenito la moglie morì, a 24 anni, probabilmente a seguito del parto. Pallavicino non si risposò più. Mentre Ranieri morì, celibe e senza prole, a Pisa il 26 gennaio 1798, Paolo Gerolamo (IV), già erede di beni e titoli paterni e materni e di altre eredità confluenti da zii e cugini, sposando prima Giovanna Durazzo di Giacomo Filippo (morta nell’aprile 1794) e poi Maddalena Grimaldi di Giambattista (a sua volta erede delle proprietà spagnole dell’antico Regno di Granada dalla madre, Grimaldi Oliva), poté lasciare un’eredità immensa all’unico figlio maschio sopravvissuto di cinque, Ignazio Alessandro, nato a Milano nel 1800.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Militarium, filza 12/2872; Archivio Segreto, Ricordi del Senato, 1643 (novembre 1773, dicembre 1777, maggio 1781, aprile 1783); sull’archivio di famiglia conservato a Genova (Palazzo Durazzo Pallavicini), Gli Archivi Pallavicini di Genova, a cura di M. Bologna, in Atti della Società ligure di storia patria, n.s., XXXIV (1994), pp. 4, 14, 26, 28-32, 34 s., 42 s., 45, 47 s., 58, 61, 82, 88, 108, 114, 116 s., 121, 128, 131, 134 s., 139, 141, 148 s., 187, 214, 222, 235, 238, 247, 289, 324. P. Litta, Famiglie nobili d’Italia, VI, Milano 1819-83, c. 13; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, III, Genova 1828, p. 27; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1838, pp. 134, 235; F.M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, II, Genova 1846, pp. 364 ss.; G. Gaggero, Compendio delle storie di Genova dal 1777 al 1797 che fa seguito a quella di F.M. Accinelli, Genova 1851, pp. 25, 35, 47; A. Clavarino, Annali della Repubblica ligure dal 1797 a tutto il 1805, Genova 1852, pp. 169 s.; A. Manno, Bibliografia di Genova, Genova 1858, p. 196; L.M. Levati, I dogi di Genova dal 1771 al 1797 e Vita genovese, Genova 1916, pp. 40-46, 729 s., 740 (con indicazione di opere edite e inedite e celebrative dell’elezione ducale); L. Volpicella, I libri cerimoniali della Repubblica di Genova, Genova 1921, pp. 410 s.; E. Pandiani, La cacciata degli Austriaci da Genova l’anno 1746, Torino 1926, p. 27; M.G. Marenco, Una libera banca di sconto a Genova, in Atti della Società ligure di storia patria, LIII (1926), pp. 163, 183; G. Serra, Memorie per la storia di Genova, a cura di P. Nurra, ibid., LVIII (1930), p. 26; P. Nurra, La coalizione europea contro la Repubblica di Genova (1793-96), ibid., LXII (1933), pp. 41-43, 46 s., 50, 146-9; A. Cappellini, Dizionario biografico di genovesi illustri, Genova 1936, pp. 120 s.; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, I, Genova 1955, pp. 459 s.; G. Oreste, P.P. Celesia, in Bollettino Ligustico, III (1955), p. 2; F. Venturi, Un girondino italo-francese: Ruffino Massa, in Miscellanea di storia ligure, I (1958), pp. 337 s.; S. Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca, in Movimento operaio e socialista in Liguria, VII (1964), 3-4. p. 244; G. Guelfi Camajani, Il Liber Nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, p. 379; C. Bitossi, La Repubblica è vecchia, Roma 1995, pp. 264 s., 493.