CARAFA, Giovanni
Nacque a Napoli, in data a noi sconosciuta, da Giovanni Alfonso, del ramo dei Carafa della Stadera, e da Caterina Cantelmo. In seguito alla rinunzia della nipote Caterina, figlia del defunto fratello maggiore Ferdinando, ereditò nel 1543 la contea di Montorio e la baronia di Sant'Angelo a Scala. Nel 1552 arricchì il suo patrimonio dei castelli di Colletorto, Rapino Borgognone e Rocca Santa Maria che lo zio paterno, il cardinale Gian Pietro, gli cedette per 150 ducati annui. L'anno seguente fu nominato regio consigliere e commissario contro i banditi e infine, fra l'agosto e il settembre 1554, capitano a guerra nel Principato Citra e maestro di campo di 1.000 fanti italiani.
Maggiori notizie della sua vita ci sono rimaste dal momento in cui, nel 1555, Gian Pietro Carafa fu eletto papa col nome di Paolo IV. Il C., la cui influenza sullo zio, all'inizio del pontificato, era ben nota negli ambienti curiali e diplomatici, dedicò subito cure particolari al potenziamento della famiglia e a questo scopo ritenne che la prima meta da perseguire, nell'ambito della sua politica di stretta fedeltà alla Spagna, fosse quella di staccare il fratello minore Carlo dal partito francese e impegnarlo almeno in un atteggiamento di neutralità ottenendogli la nomina a cardinale.
Le esitazioni di Paolo IV, motivate col burrascoso passato di uomo d'armi di Carlo, furono superate dalle pressanti insistenze del C., appoggiato fra l'altro sia dal rappresentante imperiale Juan Manrique che dall'ambasciatore francese d'Avanson.
Di questa nomina fu il C. per primo a doversi pentire, perché già alla fine di luglio 1555 Carlo riuscì a sottrargli completamente il potere di cui godeva presso il papa, prendendo le redini della politica familiare e in gran parte di quella pontificia.
Nei programmi del cardinale soprattutto sul C. doveva poggiare una politica nepotistica ambigua e fraudolenta, non potendo contare sulla tempra debole e collerica dell'altro fratello Antonio. Tuttavia quel triumvirato di fratelli, di cui qualche storico ha parlato, ha senso soltanto nei limiti di un'alleanza puramente speculativa, minata nel profondo da divergenze e rancori mai completamente sopiti.
Era infatti impossibile per il C. dimenticare la grande potenza che il fratello si era procurato a sue spese. Inoltre la tradizionale fedeltà alla Spagna del C., rafforzata dalla considerazione che i suoi beni erano quasi interamente situati nel Regno di Napoli, si scontrò con la politica pontificia che, per opera del cardinale, si volse completamente all'alleanza con la Francia. Il C. manifestò allora il suo dissenso e, anche quando fu costretto da un calcolo di interessi ad affettare una profonda avversione per gli Imperiali, non riuscì mai a mostrarsi completamente credibile.
Uno dei primi incidenti che misero in luce l'ambiguità del suo atteggiamento si verificò all'indomani dell'occupazione di Siena da parte delle truppe spagnole, quando i fratelli Carlo e Mario Sforza di Santa Fiora abbandonarono il partito francese e consegnarono agli Spagnoli due galere di cui avevano il comando, all'ancora a Civitavecchia. Per superare le resistenze del comandante del porto, il cardinale Guido Ascanio Sforza riuscì a procurarsi una lettera del C. che autorizzava le navi a partire. Il C. durò fatica a giustificare la sua leggerezza, riuscendo tuttavia ad attribuire la responsabilità a Giovanfrancesco Lottino, il segretario dello Sforza che aveva fatto da intermediario e che fu perciò imprigionato.
Il successo di questo colpo di mano provocò una serie di incidenti diplomatici che portarono a quella rottura dei rapporti con gli Imperiali che Carlo Carafa desiderava. Egli giunse così, nel dicembre del 1155, alla firma di un'alleanza segreta con Enrico II per una guerra contro l'Impero. In base all'accordo, fra l'altro, il re di Francia prendeva sotto la sua protezione il C. e i suoi fratelli, impegnandosi a convenienti indennizzi per i beni eventualmente perduti nel Regno di Napoli. Nel caso di conquiste, infine, era prevista la possibilità di attribuire Siena al C., appagando così la più ambiziosa aspirazione del cardinale. Nel quadro dei preparativi bellici, le dimissioni del duca Guidobaldo II di Urbino permisero al C. di essere nominato capitano generale della Chiesa e di riceverne il bastone nella cappella Sistina il 1º gennaio 1556.
Il risentimento papale contro gli Spagnoli, abilmente rinfocolato dal cardinale alla ricerca del casus belli, esplose nuovamente in occasione di un altro incidente provocato dall'inviato di Carlo V, marchese di Sarria; questi reagì violentemente al divieto che i custodi di porta S. Agnese opposero ad una sua uscita notturna. Il Sarria adduceva una lettera di autorizzazione del C., che cercò debolmente di comporre la questione e di incoraggiare un riavvicinamento con Filippo II.
Paolo IV, al contrario, trovò di lì a poco una nuova occasione per colpire gli Spagnoli attraverso i loro alleati italiani. Il processo in corso contro Ascanio e Marcantonio Colonna fu concluso con la scomunica e la confisca dei beni e pochi giorni dopo, nel maggio 1556, con una rapidità che destò vivo sconcerto e non pochi dissensi, Paolo IV firmò la bolla di infeudazione al C. delle terre dei Colonna e dello Stato di Paliano con il titolo di duca, riservando per il figlio del C., Diomede, il titolo di marchese di Cave. Il C. non tardò a prendere possesso ufficiale di Paliano sotto la protezione delle truppe pontificie e incaricò il maresciallo Pietro Strozzi della fortificazione di Rocca di Papa e di Paliano stessa, incurante delle minacce del duca d'Alba, preoccupato per la loro vicinanza al confine napoletano.
Artefice di tutto ciò era stato, come sempre, Carlo Carafa che in quel modo aveva raggiunto anche lo scopo secondario di legare più strettamente a sé il C.: in effetti, da questo momento, questi si mostrò più riluttante ad un componimento pacifico con gli Spagnoli, ben conscio che ciò avrebbe significato necessariamente la restituzione dei beni dei Colonna.
L'accordo fra i due fratelli fu tuttavia soltanto apparente e di breve durata. Dopo che la guerra ebbe mostrato fin dalle prime battute un andamento nettamente sfavorevole ai Pontifici e la massima parte della Campagna di Roma fu occupata con rapidità dagli Spagnoli, il C. unì a quelle di un vasto strato di opinione le sue perorazioni in favore della pace, trovando soddisfazione nella successiva tregua di Ostia del novembre 1556. Riprese le ostilità, nel gennaio 1557, il C., dopo uno sfortunato tentativo di riconquistare Ostia, prese una posizione ancora più decisa nei confronti dell'avidità di potere e della irresponsabile politica del fratello che avrebbe voluto senz'altro marciare su Siena.
Dopo una missione al fronte, il C. rinnovò al pontefice i suoi dubbi sull'opportunità della guerra, tanto più che i Francesi sembravano non rispettare pienamente gli accordi. La stessa sfiducia nutrivano d'altra parte i Francesi, per tranquillizzare i quali fu necessario inviare a Parigi quale ostaggio il piccolo Diomede.
Quando poi Marcantonio Colonna giunse a minacciare pericolosamente Paliano, sconfiggendo le truppe pontificie inviate in rinforzo, quando infine la prospettiva di insignorirsi di Siena svanì completamente in seguito all'infeudazione che ne ricevette Cosimo I, allora l'ostilità del C. esplose violentemente in un incontro con il fratello, ai primi di agosto 1557, che accusò duramente di aver rovinato con la sua cupidigia l'Italia, il papa e la sua famiglia e l'alterco fu così violento che solo la presenza del maresciallo Strozzi impedì drammatiche conseguenze. Le truppe del duca d'Alba minacciavano da vicino Roma e il C. ne stava organizzando la difesa, quando il 23 agosto giunse la notizia della vittoria spagnola di San Quintino e il comandante delle truppe francesi in Italia, il duca di Guisa, ricevette l'ordine di rientrare immediatamente in Francia.
Durante un febbrile consiglio notturno il C. e il maresciallo Strozzi, d'intesa con il cardinale Carlo, decisero di recarsi presso il duca di Guisa nel tentativo di scongiurare la partenza. Ottennero soltanto di differirla di una diecina di giorni, il tempo di concludere la pace con il duca d'Alba.
Il 14 sett. 1557 si giunse così alla pace di Cave, all'interno della quale il problema della restituzione di Paliano si presentò particolarmente laborioso.
Parallelamente al trattato ufficiale, che prevedeva la consegna di Paliano a Bernardino Carbone, fiduciario di entrambe le parti, il cardinale Carlo stipulò un patto segreto secondo il quale Filippo II avrebbe acquistato il diritto di nominare il futuro possessore della roccaforte concedendo al C. una compensazione entro sei mesi, scaduti i quali la fortezza sarebbe stata smantellata e riconsegnata al Carafa. Il consenso di quest'ultimo fu ottenuto con relativa facilità, perché la recente partenza del duca di Guisa gli fece ritenere più conveniente la prospettiva di una futura, seppur vaga, compensazione, alla perdita ormai certa di Paliano, stremata dall'assedio di Marcantonio Colonna. Per Paolo IV invece Paliano rappresentava una questione di principio, tanto che la capitolazione segreta non fu da lui ufficialmente conosciuta, sia che ne fosse stato effettivamente tenuto all'oscuro, sia invece che, venutone a conoscenza, non avesse voluto ammettere pubblicamente la sua rinuncia.
Durante la missione di Carlo Carafa a Bruxelles per perfezionare gli accordi con Filippo II (ottobre 1557-aprile 1558), il C. tornò ad occupare un posto di rilievo nel governo provvisorio, senza tuttavia poter esercitare un'azione autonoma per lo stretto controllo che esercitavano su di lui alcuni prelati fedeli al fratello.
Nel novembre 1557 si presentò l'occasione per la promessa compensazione con la morte di Bona Sforza, regina di Polonia, che lasciò suo erede universale Filippo II. Il C. puntò allora al ducato di Bari e nei primi giorni dell'anno nuovo Filippo II ne ricevette ufficiale richiesta dal papa. Dopo esitazioni e patteggiamenti, l'offerta definitiva giunse alla fine di febbraio: Filippo II offriva il piccolo Stato di Rossano e una rendita di 10.000 corone sull'imposta della seta nel Regno di Napoli. Il C. accolse la proposta con grande imbarazzo, ritenendola da un lato troppo misera e temendo dall'altro, con un rifiuto, di perdere tutto. Il card. Carlo da parte sua, conducendo la trattativa sul filo del doppio gioco e di instabili equilibri, nel tentativo di convincere Filippo II dell'ormai completa sottomissione della sua famiglia, sollecitava il Toson d'oro per il C. che contemporaneamente avrebbe restituito al re di Francia il collare di S. Michele di cui era stato insignito, controvoglia, nel marzo 1557.
Ma ormai i Carafa si erano compromessi agli occhi di tutta l'Europa con i loro maneggi politici, e cominciarono a circolare accuse anche sulla loro condotta morale. Già nel settembre dell'anno precedente il duca di Guisa ne aveva parlato al papa in termini poco lusinghieri, ma il cardinale Carlo era riuscito a convincere lo zio della falsità delle accuse. Alcuni episodi successivi, tuttavia, indussero Paolo IV ad andare a fondo alla cosa.
Il teatino Geremia Isachini, sotto pena di scomunica, fu costretto a confessare al papa ciò che ormai tutta Roma sapeva sulla vita corrotta dei nipoti, inducendolo a prendere i più drastici provvedimenti, con una decisione che colpiva non tanto i maneggi politici quanto le colpe private e l'abuso di fiducia.
Nel corso del concistoro del 27 genn. 1559 Paolo IV pronunciò la condanna dei nipoti all'esilio e all'abbandono di ogni carica in loro possesso. Al C. fu tolto così il capitanato generale della Chiesa, il comando delle galere pontificie e con essi una rendita di 72.000 scudi annui. Prima dello scadere dei dodici giorni concessi il 1º febbraio, il C. si ritirò con la famiglia nel suo castello di Gallese.
Nel mese di agosto si compì un'altra tragedia familiare, rievocata poi da Stendhal in una delle Chroniques italiennes,La Duchesse de Palliano. La moglie del C., Violante Diaz-Garion, figlia del conte Antonio d'Alife e di Cornelia Piccolomini, fu accusata di adulterio da una delle dame della sua corte. Il giovane cardinale di Napoli, Alfonso Carafa, chiese spiegazioni al C., comunicando che il papa desiderava far giudicare i colpevoli dai giudici ordinari di Roma, ma il C., rivendicando il diritto alla giurisdizione feudale, ordinò di condurgli a Soriano il presunto amante della moglie, Marcello Capece, che interrogato e messo alla tortura, finì per confessare il tradimento. Il C. allora, in un impeto d'ira, lo assalì uccidendolo a pugnalate. Anche la sorte di Violante era così segnata, ma il C. esitò in considerazione del suo avanzato stato di gravidanza, finché non intervenne la famiglia con forti pressioni e il cardinale Carlo non sollecitò una vendetta che suggerì desiderata dallo stesso pontefice. Il C. cedette allora l'iniziativa al fratello di Violante, Ferrante d'Alife, e a Leonardo di Cardine. Il 27 agosto il giovane conte d'Alife eseguì personalmente la condanna e Violante fu sepolta nottetempo nella chiesa di Gallese. Il delitto passò inosservato a Roma anche perché avvenuto in periodo di sede vacante, essendo Paolo IV deceduto pochi giorni prima.
L'elezione di Pio IV Medici, della quale Carlo Carafa era stato il principale artefice, indusse il C., fiducioso nella protezione del nuovo papa, ad un colpo di mano per ristabilire le proprie fortune. Per impedire la ratifica pontificia all'occupazione di Paliano che Marcantonio Colonna aveva portato a termine nel settembre dell'anno precedente, accusò il rivale di aver tentato di avvelenarlo e di sollevargli contro gli abitanti di Gallese. Ma la ritrattazione di uno dei testimoni al processo seguitone costrinse il C. a confessare la falsità dell'accusa, in un memoriale diretto al papa, nella speranza di ottenerne il perdono. Ma ormai le sorti dell'intera famiglia Carafa, circondata da troppi nemici e priva di ogni appoggio politico, precipitavano e Pio IV ordinò l'istruzione di un processo contro il C., imprigionato, ed i suoi fratelli.
Ne fu incaricata una commissione di nove cardinali presieduta dal fiscale Alessandro Pallantieri e questa nomina diede subito la misura dell'odio che ormai i Carafa avevano accumulato insieme ad una facile previsione sull'esito del processo. Animato da un vecchio rancore contro il card. Carlo, il Pallantieri si accanì infatti anche contro il C. a carico del quale furono elevati tre capi d'accusa: l'assassinio della moglie, le false accuse da lui lanciate contro Marcantonio Colonna e la responsabilità dell'ingiusta prigionia cui era stato condannato Giovanfrancesco Lottino al tempo dell'incidente di Civitavecchia.
Il 15 genn. 1561 l'istruttoria era formalmente terminata, ma due memoriali inviati dal C. al pontefice ritardarono la sentenza: il primo, del 17 gennaio, conteneva una confessione limitata all'uccisione della moglie, mentre quello successivo, del 6 febbraio, redatto in seguito a tortura, ammetteva la responsabilità per tutti i capi d'accusa. Il 3 marzo fu convocato il concistoro per la sentenza che fu pronunciata dopo otto ore di consiglio: il C. fu condannato alla pena capitale e al sequestro dei beni.
Fu decapitato il 5 marzo 1561.
Il figlio Diomede ottenne da Pio V una revisione del processo: furono così riconosciute le sue irregolarità e lo scarso equilibrio del fiscale Pallantieri, giungendo, nel 1566 (o 1567) alla riabilitazione post mortem del Carafa.
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