CAPPELLO, Giovanni
Nato a Venezia nel 1497 da Lorenzo di Giovanni e da Paola di Francesco Priuli, apparteneva a ricca e influente famiglia del patriziato veneziano. Il padre era procuratore di S. Marco e la sorella Maria andò sposa nel 1517 al futuro doge Pietro Loredan. Scarsa fede merita la qualifica di "filosofo peritissimo" e di autore di orazioni, lettere e poesie, attribuitagli da una tradizione biografica d'origine encomiastica. Certo è invece che, secondo il costume della nobiltà veneziana del suo tempo, in gioventù il C. si dedicò alla mercatura, viaggiando e trafficando in Oriente e in Europa, mentre il fratello maggiore, Filippo, col quale convisse a lungo, rappresentava il casato nei principali Consigli della Repubblica.
Di questa intensa e talvolta avventurosa attività abbiamo frammentarie ma significative notizie. Nell'agosto del 1518 lo troviamo imbarcato sulle galee del viaggio di Beirut, giunte a Lesina sulla via del ritorno. Nel 1522 risiedeva a Costantinopoli, da dove scriveva al fratello perché informasse il Senato dei minacciosi preparativi dell'armata turca; ne partiva il 15 maggio per tornare a Venezia. Una breve sosta, e poi via ancora su una galea, questa volta per l'Inghilterra. Era di ritorno in patria il 3 febbr. 1524, e poco dopo, nel giugno, sposava Paola di Alvise Pisani "dal Banco", che gli recava la cospicua dote di 8.000 ducati, imparentandosi così con una delle più potenti famiglie veneziane.
Benché nel 1526 avesse fatto una breve comparsa in Senato, grazie all'offerta di 500 ducati, il C. restò ancora per qualche tempo lontano dalla vita pubblica, impegnandosi nelle attività mercantili e armatoriali, dalle quali soleva distrarsi negli ameni intrattenimenti della villa di Murano. Il 6 luglio 1525 il Senato autorizzava l'Arsenale a fornirgli a prezzo di costo le artiglierie e le munizioni per una sua nave in procinto di salpare e che per la ristrettezza del tempo non aveva ancora completato l'allestimento. Nel gennaio 1528, dietro versamento di 300 ducati, assieme al cognato Giovanni Pisani, divenuto suo socio, otteneva per una sua nave costruita in un cantiere non veneziano i privilegi spettanti ai legni fabbricati negli squeri della laguna. Qualche mese dopo è l'Arsenale a prestare attrezzi e materiali necessari per "mettere a carena" una nave del C.; e nel gennaio del 1529, infine, il Sanuto ricorda tra le navi perdute nell'ultimo anno, una posseduta in società dal C. e da Giovanni Pisani, naufragata per tempesta sulle coste pugliesi mentre tornava da Alessandria con un carico di fave, prezioso in quell'anno di carestia.
Soltanto nel maggio del 1534, giunto alla maturità, il C. cominciò la carriera politica, facendosi eleggere provveditore sopra i Dazi, carica che tenne per due anni. Dal marzo del 1540 fece parte dei Dieci savi sopra le decime in Rialto, e il 30 novembre dello stesso anno assunse l'ufficio di capitano di Brescia, assolto il quale venne eletto nell'ottobre 1542 savio alla Mercatura. Nel gennaio 1544, con l'elezione a savio di Terraferma, rinnovatagli anche per l'anno successivo, il C. entrava nel Collegio, l'organo che spartiva allora col Consiglio dei dieci il governo della Repubblica. Nel marzo 1545 venne anche eletto oratore alla Cesarea Maestà, ma non sembra che tale missione abbia avuto corso. Nel 1547 fu provveditore sopra gli atti dei sopragastaldi e dall'ottobre 1548 al marzo 1550 capitano di Padova. Tornato a Venezia, nel giugno del 1550 fu eletto ancora savio di Terraferma, e finalmente, il 3 ottobre di quell'anno, il Senato lo nominava ambasciatore presso Enrico II di Francia.
Il C. partì per la sua missione quasi un anno più tardi, il 4 sett. 1551, e seguendo l'itinerario per Milano, Torino, il Moncenisio e Lione, giunse a Parigi il 1º novembre.
Ben poco è rimasto dei dispacci inviati dall'ambasciatore veneziano dalla corte del re francese, che egli seguì nei suoi spostamenti durante la guerra contro Carlo V, e in particolare nella campagna per la conquista di Metz, Toul e Verdun. Ma attraverso le istruzioni impartitegli periodicamente dal governo veneto, conservate nei registri del Senato, e i pochi dispacci superstiti, possiamo apprezzarne la prudente e abile condotta nell'interpretare la politica della Repubblica, che pur guardando con simpatia alla lotta della Francia contro l'egemonia imperiale, restava saldamente ancorata ad una linea di neutralità, che la induceva a respingere con fermezza i tentativi francesi di coinvolgerla nel conflitto, pur non lasciandosi sfuggire l'occasione di insinuare in Carlo V il timore che la Serenissima potesse unirsi alla Francia. A questo scopo, appunto, Venezia autorizzava il proprio ambasciatore a seguire Enrico II recatosi in Germania per assicurarsi l'alleanza dei principi protestanti. Non era un compito facile quello dell'ambasciatore, perché inevitabilmente l'atteggiamento di Venezia suscitava diffidenza e scopriva il fianco a insinuazioni e lagnanze, forse non sempre infondate, rispetto a comportamenti non amichevoli verso la Francia da parte di diplomatici veneti presso altre corti.
I dispacci conservati appartengono al 1554, e sono quasi interamente occupati dalla minuta descrizione degli apparati militari e delle operazioni belliche, e delle fitte trame politiche e diplomatiche che facevano capo alla corte di Enrico II, quasi mai però interessanti, se non indirettamente, la Serenissima. Più nel vivo toccavano Venezia i riflessi delle operazioni che si svolgevano in Italia e le richieste, regolarmente accolte, di concedere il passo attraverso il territorio veneto alle milizie arruolate dal re di Francia tra i Grigioni. La particolare cordialità che, nonostante qualche momento di attrito, caratterizzò in questi anni i rapporti tra Enrico II e Venezia, si rifletteva anche nelle manifestazioni di stima e di amicita che il re non mancava di esprimere verso la persona del C., insignendolo anche della dignità cavalleresca al momento del congedo, venuto finalmente nel settembre del 1554, dopo che l'ambasciatore aveva chiesto più volte di poter tornare in patria.
La relazione che egli lesse al Senato al suo ritorno lascia trasparire lo stato d'animo d'una classe dirigente che dal trauma di Agnadello e dalla crisi degli Stati italiani aveva tratto un notevole senso di sfiducia nella propria capacità di dominare gli eventi: "la fortuna... - egli avverte con accenti che richiamano i momenti del pessimismo machiavelliano - volle chiaramente dimostrare che oltre li buoni consigli e ben ordinati disegni, è di mestieri ancora aver la sua aita", beffandosi ora dell'imperatore ora del re di Francia.
Il suo è uno spirito cauto, incline al dubbio, incerto di sé, che diffida delle proprie intuizioni quando non siano fondate su prove positive. Così quando deve cercare di esporre quale sia l'animo del re, avverte che nulla è più ascoso del cuore umano, specie di quello dei principi, e che "sì come le prime che ho dette sono le cose che io ho vedute, e di cui particolarmente mi ho potuto informare, così ancora con verità ho potuto affermarle", mentre questa parte è "tutta sopra congetture appoggiata...". Da questo stato d'animo traeva la convinzione che "una certa pace sempre si deve preporre ad una dubbiosa guerra", e la sua decisa scelta in favore della politica di neutralità, argomentando semplicisticamente che "li principi non amano né odiano se non sono mossi da beneficio o danno loro particolare... E però questo illustrissimo senato, conservando questa buona opinione di neutralità con ciaschedun principe, non farà alcun invido contentandosi del suo, né odioso dimostrando parzialità; ma conserverà questo stato sicuro", Le ragioni profonde della crisi italiana sembrano sfuggirgli completamente; la dura lezione dei tempi non gli suggeriva alcuna riflessione sul ruolo dei principi e dell'aristocrazia, sulla struttura degli Stati, né sembra incrinare la fede nei valori tradizionali e nei destini della Classe dirigente. Così quando di lì a pochi anni andrà ambasciatore in Germania, non vi scorgerà la "rozza vita e libertà" che il Machiavelli contrapponeva idealmente all'oziosa raffinatezza e viltà delle corti italiane, ma sarà preso invece di stupore per la semplicità de modi della "Maestà dell'imperatore", molto umile e libera, talché per la sua umiltà "poco temuta ed ubbidita"; e della sua corte, nella quale "per diligenza che avesse usata" non aveva potuto vedere "persona che ne sia parsa di condizione, e solo due o tre vescovi, che a nostro giudizio sanno poco di stato, e alcuni tedeschi incivili, e più tosto cera da villani". Una coscienza nobiliare esclusiva e raffinata contribuisce alla tenace sopravvivenza d'un ormai immotivato sentimento di superiorità politica.
Nel novembre 1554 il C. era eletto provveditore sopra l'Armamento, le Fabbriche nuove e il Ponte di Rialto; nel 1555 e 1556 fu per due volte savio di Terraferma, e per un anno anche savio alla Mercanzia, senza contare altre minori cariche amministrative. Nel 1558 era savio del Consiglio quando, il 4 aprile, veniva eletto dal Senato, assieme all'amico Bernardo Navagero, all'ambasciata straordinaria incaricata di presentare a Ferdinando d'Asburgo i rallegramenti della Repubblica per l'ascesa al trono imperiale. Breve e di scarsa importanza fu tale missione (partiti da Venezia il 25agosto, vi tornarono in ottobre) di cui resta traccia in pochi dispacci e nella concisa relazione sopra ricordata.
Il 2 maggio 1559 il C. veniva eletto ad un'altra ambasciata straordinaria, per congratularsi con Enrico II delle nozze della figlia Elisabetta con Filippo II e della sorella del sovrano francese, Margherita, con Emanuele Filiberto. Giunto a Lione, il C. apprendeva la notizia della morte di Enrico II. Dopo una sosta per attendere le nuove istruzioni del Senato, era in procinto di riprendere il viaggio quando fu stroncato da una breve malattia il 14 settembre del 1559.
Le sue spoglie, riportate in patria, furono tumulate nella chiesa di S. Zaccaria. Nel testamento, stilato alla vigilia della partenza per la sua prima ambasciata in Francia, esprimeva una viva pietà religiosa e l'ideale di "operare al ben et utile de la patria". Lasciava erede dei suoi beni il figlio Piero, che aveva sposato una figlia del doge Lorenzo Priuli.
Fonti e Bibl.: A. L. Zorzi, Un diplomatico veneziano del secolo XVI (G. C.) e i suoi dispacci inediti, in Nuovo Archivio veneto, n.s., XVII (1917), 24, pp. 183-251, in cui sono pubblicati alcuni dispacci dalla Francia e il testamento; la relazione di Francia è in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, I, 2, Firenze 1840, pp. 273-288; la relazione di Germania, ibid., Appendice, Firenze 1863, pp. 21-32 (ripubblicata in Relazioni diambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, III, Germania, Torino 1968, pp. 197-208). Per i dispacci di Francia cfr. anche Arch. di Stato di Venezia, Senato,Dispacci di ambasciatori,Francia, filza 1; quelli di Germania sono editi in Venetianische Depeschen vom Kaiserhofe..., I, 3, Wien 1895, pp. 59-70. Altre notizie biografiche in Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 259; M. Sanuto, Diarii, XXV, XXXIII-XXXVI, XXXIX-XLI XLVI-XLVII, XLIX-L, LIV-LV, Venezia 188;-1900, ad Indices; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, II, Venezia 1827, pp. 120 s.; N. Barozzi, Diploma dell'imper. Ferdinando I a G. C., 1558, Rovigo 1863; P. Paruta, Istoria vinetiana, in Degli istor. delle cose venez. …, IV, Venezia 1718, pp. 229 s.; A. Morosini, Historia veneta,ibid., VI, ibid. 1719, pp. 38, 132, 141, 148.