CAMPEGGI, Giovanni
Nacque a Bologna nel 1513 da Antonio Maria e Lucrezia Guastavillani. Studiò diritto civile e canonico, addottorandosi in utroque nel 1534. Si avviò fin da giovane alla carriera ecclesiastica, nella quale fece rapidi progressi grazie ai potenti appoggi di cui godeva nell'ambito della parentela. Ben presto divenne titolare di un cospicuo numero di uffici curiali e di benefici ecclesiastici: canonico della cattedrale di Bologna nel 1530, rettore della pieve di S. Giorgio di Samoggia dal 30 apr. 1534 e di quella di S. Stefano di Pontecchio dal giugno 1540 nonché possessore di altri benefici minori nella diocesi di Bologna, canonico della cattedrale di Maiorca fino al 1534, referendario utriusque signaturae, e così via. Seguendo la consuetudine, il C. non si curò di risiedere: nominò dei cappellani per i benefici curati e si servì delle rendite per vivere a Roma presso la Curia, dove lo troviamo a partire dal 1534. Il 28 maggio 1537 venne eletto vescovo di Parenzo, in seguito alla rinunzia dello zio cardinal Lorenzo, il quale si riservò una cospicua pensione ed il diritto di regresso.
In realtà, il suo nome era da tempo tenuto presente per questa dignità ecclesiastica nella politica familiare accortamente diretta dal cardinal Lorenzo. Questi, all'inizio del 1530, aveva proposto a Clemente VII di far resignare l'episcopato parentino - allora tenuto da Girolamo Campeggi "vecchio di anni 70" - in favore del nipote; ma Girolamo aveva posto la condizione di riservarsi tutti i frutti e il papa non aveva acconsentito, nonostante i reiterati tentativi del cardinal Lorenzo (Nuntiaturberichte..., I, 1, p. 98). Fu così che solo dopo qualche anno ed in seguito ad una serie di passaggi più complicati la diocesi parentina finì nelle mani del Campeggi.
Durante i sedici anni in cui fu vescovo di Parenzo, l'interesse del C. per la sua diocesi sembra essersi limitato alla riscossione delle rendite ed a questioni amministrative in genere; il governo vero e proprio fu affidato al vicario Giovanni Antonio Pantera, le cui lettere al vescovo non fanno cenno di problemi ecclesiastici o religiosi. Furono i familiari del C., in particolare il padre ed il fratello Vincenzo, a visitare la diocesi nelle stagioni dei raccolti.
È significativo di questo modo di concepire il rapporto del vescovo con la diocesi il fatto che la prima cura del vicario fu quella di redigere un "catasto di tutti i beni dell'episcopato di Parenzo" (edito in Atti e memorie della società istriana del 1891):questo documento illustra minuziosamente le rendite ed i diritti del vescovo e, laddove questi diritti sono contestati, il Pantera non si trattiene dal chiosare virgilianamente: "cogit mortalia pectora auri sacra fames". Un conflitto di particolare rilievo riguardava i diritti sui castelli di Orsara e di San Vincenzo, che il C. riuscì a farsi attribuire senza limitazioni con un breve di Paolo III del 1542.
Vivendo a Roma, il C. curava gli interessi propri e della famiglia, acquistando uffici curiali ed amministrando le rendite delle chiese di cui erano titolari i suoi parenti, ad esempio, della diocesi di Maiorca. Il suo fitto carteggio è quasi esclusivamente dedicato a rendiconti finanziari e ad operazioni curiali. La convocazione del concilio a Trento si profilò subito per lui come una minaccia per la propria quiete, da allontanare con ogni mezzo. Le sue lettere, che sono un buon termometro degli umori della Curia romana, rivelano chiaramente che fino all'ultimo momento egli non credette che il concilio si sarebbe veramente tenuto. Ma già il 16 genn. 1546 i legati venivano avvertiti che il C., insieme con altri prelati, sarebbe giunto presto a Trento "per contrapesar alli spiriti maligni" (Concilium Tridentinum, X, p. 316); gli uomini di fiducia della Curia dovevano essere mobilitati per evitare sorprese sgradevoli, e il suo nome era in primo piano.
Diversamente pensava il C., che il 9 gennaio scriveva al cugino Giovanni Battista: "s'è fatto un monitorio a molti prelati... Io, ancora che fosse nella lista delli intimandi, nientedimeno ho ottenuto dilation d'un mese, et espero d'andare temporegiando anco per tutto quest'altro sin'a quaresima"; e il 20 febbraio ripeteva per maggior chiarezza: "...differisco più ch'io posso" (Arch. Malvezzi-Campoggi, s. III, f. 8/532).
Per via di dilazioni trascorse indisturbato quasi un anno; finalmente, il 6 novembre, annunciò ai parenti bolognesi la sua prossima partenza per Trento (ibid.), dove giunse il 22 dello stesso mese (ma già il 29 era pronto a tornare indietro: ConciliumTridentinum, X, pp. 735, 743). Lo si era inviato per dar man forte ai legati, in previsione del trasferimento del concilio a Bologna; il suo comportamento mostrò che la fiducia era ben riposta, poiché nelle poche occasioni in cui intervenne nei dibattiti lo fece per rimettersi alla volontà dei legati. Ma dal suo epistolario traspare qualcosa che negli atti del concilio non è possibile trovare: lo sconcerto, lo spaesamento e la forte impressione che la vivacità delle discussioni conciliari e delle idee di riforma lasciarono nell'animo di un prelato avvezzo alla tranquilla vita curiale.
Il 9 genn. '47, raccontando quanto si diceva a Trento a proposito della pluralità dei benefici curati, commentava: "et se si andarà innanzi, come si crede, la S.V. sentirà belle cose"; e, a distanza di un mese, scriveva: "le cose della reformatione vano travagliate perché molti, dico molti, voriano reformare la corte di Roma, a' quali noi altri non potiamo consentire" (Arch. Malvezzi-Campeggi, s. III, f. 8/532). Forse a questa atmosfera particolare in cui il C. si sentì improvvisamente sbalzato si dovette la sua non completa né immediata adesione alla proposta dei legati di trasferire a Bologna il concilio. Resta il fatto, comunque, che l'unico accenno ad una sua intenzione di recarsi a Parenzo si trova nella lettera a Giovanni Battista Campeggi dell'11 marzo 1547, scritta da Trento subito dopo che era stato approvato il decreto di traslazione (ibid.).
La fase bolognese del concilio lo vide presente solo saltuariamente; altri impegni lo trattenevano a Roma, come l'amministrazione delle rendite di Maiorca, la ricerca di una permuta vantaggiosa per Giovanni Battista Campeggi, la controversia tra quest'ultimo e Alessandro Campeggi a proposito della divisione dell'eredità del fratello Rodolfo: tutte queste cose riempiono il suo epistolario degli anni 1547-1549, insieme con la consueta ricerca di benefici ecclesiastici da accaparrarsi. Dopo la morte di Paolo III, il 10 nov. 1549, fu nominato governatore di Viterbo e responsabile della provincia; fino all'elezione del nuovo papa fu occupato a rintuzzare i tentativi (tradizionali in simili circostanze) delle grandi casate nobiliari, e in particolare degli Orsini, di occupare terre dello Stato pontificio.
Il 6 marzo 1553 fu eletto vescovo di Bologna, per resignazione del cugino cardinale Alessandro, che in un primo tempo aveva destinato il vescovato al fratello Giovanni Battista ("acciò che lo tenessimo con maggior sicurezza", scriveva il 29 ott. 1552: ibid., s. III, f. 10/534): ma poiché quest'ultimo aveva rifiutato, la scelta era caduta sul C., restando ad Alessandro il diritto di regresso, di amministrazione spirituale e di collazione dei benefici. L'anno seguente, morto il cardinale, il C. si trovò investito della piena autorità sulla diocesi di Bologna.
Il 9 maggio 1554 il C. fece l'ingresso solenne nella sua sede, salutato fra l'altro da un discorso di Camillo Paleotti a nome del capitolo della cattedrale. L'atteggiamento con cui il C. affrontò i suoi nuovi compiti fu certamente diverso da quello che aveva manifestato nei confronti della diocesi di Parenzo. La cerimonia dell'ingresso non fu solo un atto formale, ma l'inizio di una stabile residenza del vescovo nella diocesi e di una attività che lasciò il segno nelle strutture ecclesiastiche. Il fatto che caratterizzò il modo di operare del C. come vescovo fu il suo incontro coi gesuiti attivi in Bologna ed in particolare con il padre Francesco Palmio.
All'inizio, questi rapporti sembrarono mettersi male per i gesuiti. Il C. aveva cominciato a prestar ascolto a due "heremiti" che si scagliavano contro la pratica devota della comunione frequente, incoraggiata dai gesuiti; ma la lettera del 12 giugno 1554 con cui il Palmio informa delle sue preoccupazioni Ignazio di Loyola si conclude con un poscritto rassicurante: il C. non solo non ha preso nessuna misura contro lui e gli altri padri, ma gli ha fatto sapere "che lo vole adoprare in più cose" (Epistolae mixtae..., IV, pp. 228-231). La prima occasione per "adoprarlo" fu la visita pastorale della diocesi, che si tenne nel settembre dello stesso anno; essa seguiva di quasi dieci anni alla precedente, tenuta fra il 1543 ed il 1546 dal vicario Agostino Zanetti. Il Palmio, nel corso di questa prima ed un po' rapida ricognizione, si adoperò per istituire dovunque fosse possibile le confraternite del Corpus Domini e manifestò doti di predicatore che colpirono il C., il quale rimase "molto contento, et edificato di questa visita" (lettera a Ignazio del 29 settembre, ibid., p. 363).
L'anno seguente il C. incaricò il Palmio di fare la visita generale della diocesi e fu personalmente presente per la parte relativa alla zona della pianura. Le impressioni che questo contatto con le strutture ecclesiastiche e con la vita religiosa della diocesi suscitò nei visitatori furono di sgomento: "tanta... est animarumiactura, tanta disciplinae veteris perturbatio, tanta morum perversitas, tanta sacerdotum Christi ignorantia et error" (lettera di F. Scipio a Ignazio, 1º maggio 1555: Litterae quadrimestres..., III, p. 548).
Un'eco di questa reazione rimane nelle Constitutiones synodales promulgate dal C. nel sinodo diocesano dell'11 giugno 1557; stampate nella forma di un esile libriccino, esse non rispettano in realtà la struttura tradizionale degli statuti diocesani ma sono piuttosto un appello al clero perché presti il suo aiuto al vescovo in una situazione di emergenza. Pur affermando la validità degli statuti precedenti (stampati nel 1535), il C. si limita a richiamare e riassumere solo le norme che gli sembrano più urgenti e necessarie per restaurare agli occhi del popolo l'immagine di un clero consapevole dei suoi obblighi e capace di affrontarli: la cura degli edifici e dei paramenti, il controllo dei predicatori, l'aggiornamento dei libri parrocchiali, l'obbligo dei pievani di visitare i sacerdoti a loro soggetti, lo stesso impegno a risiedere stabilmente in parrocchia sono misure volte solo a conferire al clero la dignità ed il prestigio di cui c'è bisogno per dirigere una vita religiosa ormai debordante dalle strutture ecclesiastiche (come mostrano anche le diffuse manifestazioni "miracolose", alle quali il C. guarda con sospetto).
In una situazione del genere particolare importanza assunsero i gesuiti, ai quali il C. dedicò una cura speciale. Inoltre egli si adoperò per risolvere il problema sociale costituito dalle masse di mendicanti e di contadini poveri che affluivano verso la città: l'"opera pia dei mendicanti", da lui istituita, fu approvata da Pio IV con breve del 27 nov. 1560. Durante il suo episcopato si ebbe anche l'istituzione del monastero delle convertite.
Alla morte di Paolo IV il C. fu richiamato a Roma come presidente del conclave; interruppe così definitivamente la parentesi di attività episcopale e riprese invece la sua posizione di uomo di fiducia della Curia. Pio IV, appena eletto, lo nominò presidente della Marca di Ancona e, il 22 luglio 1559, lo inviò ad inaugurare la nunziatura ordinaria presso il duca di Firenze Cosimo I. Rientrato a Roma, il 4 novembre ebbe l'incarico onorifico di recarsi incontro a Cosimo I per accompagnarlo nell'ingresso in Roma.
Subito dopo venne riserbato al C. un compito molto più impegnativo e faticoso: il 28 novembre partì per la nunziatura di Spagna, in sostituzione di Ottaviano Raverta. Lo scopo della sua missione era quello di far accettare a Filippo II la bolla di indizione del concilio. Si trattava di un obbiettivo non facile, come fu subito evidente fin dai primi approcci: Filippo II esigeva che nella bolla si dicesse chiaramente che si trattava della continuazione dei precedenti lavori conciliari.
Data la freddezza dell'accoglienza e le difficoltà fra cui si trascinavano le trattative, a Roma si decise il 10 maggio '61 di inviare il C. in Portogallo e di far tornare alla nunziatura di Spagna il Raverta. Comunque, prima di partire da Toledo, il C. poté annunziare al Borromeo la felice conclusione della sua missione.
Dopo questo periodo di intensa attività diplomatica rientrò a Bologna. Morì il 7 sett. 1563 e fu sepolto in cattedrale.
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